L’Ulisse che è in noi

Non mi aveva convinto. So che lo scrittore ha licenza di osare, ma Bussi ha osato fino all’inverosimile, miscelando tempi e persone, luoghi e fatti con una disinvoltura molto evidente al primo impatto. Un’operazione ardita, quasi temeraria, quella, dopo ventisette secoli, di rimettere Ulisse in navigazione, di giocare con il suo genio multiforme, con la sua astuzia proverbiale, con la sua sete insaziabile di conoscenza, con la sua “mente colorata”. Un modo per rispondere a una domanda sottintesa: che cosa farebbe oggi se fosse ancora tra noi? che cosa tenterebbe di scoprire e conoscere in un mondo così profondamente mutato? rimpiangerebbe il suo, di mondo, o si troverebbe a suo agio nel nostro? E sarebbe anche un modo per proseguire la ricerca, mai conclusa, dell’Ulisse che è in ognuno di noi.

Poi l’ho riletto. Ma prima mi ha aiutato Pietro Citati con una pagina di grande profondità, come tante delle sue, che leggo con voi: «Come fare allora per capire l’Odissea? Dobbiamo capirla perché comprenderla significa comprendere l’Occidente, la Grecia, noi stessi. Ci sono due strade. La prima è quella che da tempo i migliori studiosi di oggi stanno seguendo. Come ogni grande libro, l’Odissea è un sistema di relazioni, dove le scene si illuminano a vicenda, i temi e le immagini ritornano o si oppongono o si rispecchiano; e non c’è niente di meglio che paragonare tra loro queste scene. Ognuna di esse illumina l’altra. La seconda strada è più ardua e può portare a fraintendimenti. Ma dobbiamo percorrerla se non vogliamo capire troppo poco. Noi tutti possediamo quella che si chiama “immaginazione oggettiva”. Bisogna leggere un testo, e poi rileggerlo, e poi rileggerlo ancora e ancora, fino a quando siamo completamente penetrati dentro di esso, diventando il “secondo Omero” sebbene il nostro corpo resti qui, in bilico tra l’anno duemila e il duemilauno (è il tempo in cui Citati scriveva queste cose). Allora – così continua – noi siamo Penelope, Ulisse, Polifemo: nessuna delle loro sensazioni e dei loro sentimenti ci sfugge. Come diceva Musil, esiste anche un’esattezza dell’anima».

Ecco, la rilettura, accurata come può esserla una seconda lettura, del libro di Bussi ha stimolato la mia “immaginazione oggettiva” e mi ha convinto che lui abbia fatto altrettanto, ma non una sola volta, prima di accingersi a questa impresa, sottolineo ardita, e poi di raccontarcela estraendo il buon vino da una vigna ben governata. Perché dietro questo “Ulisse e il cappellaio cieco” c’è una ricerca accurata, certamente antica, a partire dalle due opere di Omero e, anche, dall’Eneide di Virgilio, a memoria dei nostri anni scolastici, ma approfondita e rielaborata con puntualità e precisione. I rimandi sono chiari ed evidenti e sono sapientemente utilizzati per il racconto del nuovo viaggio.

Bussi gioca con la materia per piegarla al suo disegno. Si appella addirittura a Zeus perché incarichi Minerva di scendere su Itaca e convincere Ulisse a lasciare Penelope, il cui silenzio varrà più di un divorzio, Telemaco, che dovrà governare al suo posto, i suoi uomini e la sua terra. Decisione discutibile, considerato che il suo quotidiano lavoro di re per quanto alla lunga noioso era consono a uno che era tornato, dopo la distruzione di Troia, da un pellegrinaggio tumultuoso e tempestoso di dieci anni nel grande mare e che come primo compito, una volta a Itaca, aveva dovuto eliminare i Proci che avevano profanato la casa e insidiato sua moglie. 

Ma gli dei, guarda un po’ che si inventa Bussi, non comprendono quanto sta succedendo nel Mediterraneo e pretendono che lui vada a trovare per loro spiegazioni convincenti. Per aiutarlo gli mettono al fianco un vecchio cappellaio, cieco come Omero, che, a differenza del capostipite della letteratura occidentale che presumibilmente narrava fatti avvenuti, ha in un cappello la dote di guardare ciò che altri non vedono, vale a dire il futuro. Questi ha un nome simbolico, Yanis Varoufakis, che ha qualche familiarità con l’ex ministro greco tant’è che Bussi, ove mai ci fosse stato qualche dubbio, nella tappa di Cartagine, costringe Didone a chiedere: «ma è un economista?», e fa rispondere a Ulisse: «non lo è, eppure ha capacità straordinarie alle quali non riesco ad attribuire un nome ed un significato».

Ritorna, dunque, Ulisse, sui luoghi del poema omerico. Fa tappa a Lesbo, a Siracusa, a Ischia, a Napoli, si ferma alle Eolie, infine a Cartagine, poi, prima di attraversare finalmente le colonne d’Ercole, dove lo lasceremo, si ferma per una notte d’amore ritrovato con Calipso a Ogigia. Che cosa vede e scopre? Quello che è davanti ai nostri occhi o schermi quotidiani: guerre, popolazioni che emigrano dalla fame e dai conflitti verso la speranza di pane e serenità, uomini malvagi che sfruttano masse di diseredati, i veleni che infettano mare, terra e aria, i valori di una civiltà (l’Ellade che sta per l’Europa) in crisi e insidiati da ogni parte. C’è anche il riferimento al diavolo della finanza a partire da un albero, il tasso, che accarezza il profilo delle isole greche e le cui bacche rosse sono velenose, ma il tasso è anche un animale che l’uomo non riesce ad ingabbiare come i sovrani che tentano di irreggimentare i popoli, ed infine, si fa per dire, è anche uno strumento della finanza che può soffocare i popoli medesimi. Resta impressa nella memoria l’immagine dei cadaveri di migranti dalla pelle non bianca che al largo della costa asiatica si confondono con il luccichio delle onde. Migranti che ritroviamo anche dalle parti dello Stretto, tra Scilla e Cariddi, mostri non più immaginari, che «li obbligano a spezzarsi la schiena per poche dracme l’ora». 

Insomma l’oggi. Ulisse, con la sua vecchia per quanto possente nave, procede, come ai tempi di Omero, con la sola forza del vento e dei remi che affondano in acqua, ma osserva il Mediterraneo che vediamo noi e ci trasferisce, con le sue domande senza risposte, più che la voglia di conoscere, la paura che vada a finire male. E anche quando, consigliato da Didone, si avvia oltre lo Stretto di Gibilterra sulle orme dei tanti, anche “il mercante siriano York”, che l’hanno già fatto per raggiungere la nuova città che sta dall’altra parte del mare, non ci dice che cosa trova ma si accomiata da noi senza spiegazioni. 

Ora, comprendete benissimo perché all’inizio ho parlato di operazione ardita e temeraria e della licenza di osare che ha lo scrittore. Ma può farlo se lo scopo è «capire che cosa sta sconvolgendo il grande mare e ricercarne le cause». Anche mischiando le carte e confondendo l’ieri remoto e l’oggi incombente. La chiave di questo lavoro, che, ricordiamolo, è un romanzo, l’ho trovata a pagina 56 nelle parole che Bussi mette in bocca al “vedente cieco”: «Ecco la necessità del racconto, per riannodare i fili tra passato e presente nel tentativo di leggere il futuro che ci attende. Senza il racconto ogni tentativo risulterà vano, perché in esso riverseremo il nostro pensiero di affidare a quanti dopo di noi avranno la possibilità di leggerci… Quest’impresa travalica il normale… Ulisse, per poter raccontare, dobbiamo prima raccontarci».

Bussi fa correre a Ulisse il rischio che brutalmente Penelope aveva rinfacciato al marito pronto a lasciarla di nuovo: «Ti stai inoltrando in un’avventura dalla quale non caverai un ragno dal buco». E forse alla fine la fedele e infelice moglie avrà anche ragione.

Infine, una confessione personale. Credo proprio nel periodo in cui Raffaele stava immaginando se non già realizzando questo romanzo, avevo avuto a che fare con Ulisse. Ai primi di luglio del 2016 ero nella mia isola greca prediletta, Cefalonia, dalle parti di Poros. Pubblicai su Facebook una foto in cui si vedeva sullo sfondo Itaca. Il carissimo amico e collega, Luigi Necco, che ho avuto anche la fortuna di avere come vicino di pianerottolo, commentò e da lontano si sviluppò un dialogo tra di noi. Lui mi chiese: «A proposito, l’hai vista la “tomba di Ulisse”? Ci sto scrivendo un librettino…». Io a mia volta: «Me lo dicesti, ma non ricordo: dov’è, in base alle tue ricerche? Porto Ateras?». Mi rispose: «A Poros. Ho costretto a farci un sopralluogo anche Bruno d’Agostino, l’Itacese, che ha confermato: tomba regale… ma di duecento anni più antica del necessario… C’è un particolare curiosissimo. Vediamo se qualcuno te lo fa notare, perché se no, al ritorno ti farò mangiare le mani…». 

Andammo, io e Anna, ma la trovammo chiusa. Ritornammo cinque giorni dopo e la visitammo. Pubblicai le foto precedute da questo testo: «Caro Luigi, ritornando sulla conversazione di lunedì scorso sulla presunta tomba di Ulisse a Poros che non potemmo visitare perché chiusa, oggi l’abbiamo vista. Tu scrivesti di un particolare che avremmo dovuto scoprire o farci raccontare. Non ci siamo riusciti. Forse è la forma a cupola? O l’impianto a dolmen: camera singola a sette sepolture? Svela il mistero e, visto che stai per pubblicare un libretto sull’argomento, puoi anticipare qualche conclusione?». E lui: «Caro Matteo, il segreto è tutto lì, in quel particolare… sul quale fonda il libretto che sto scrivendo. Ne ho discusso a lungo (ho la registrazione) con lo scopritore. Leggerai, leggerai, porta pazienza». Con lo scopo non recondito di conoscere questo segreto lo ebbi a cena in una serata indimenticabile allietata da un fresco Ribolla che gli avevo promesso. Parlò di tutto ma non volle svelare il mistero. Purtroppo, non ha avuto il tempo di pubblicare quel libretto e chissà che la figlia 

Alessandra

non abbia trovato gli appunti se non il manoscritto tra le sue carte o la registrazione di cui parlava il papà.

Perché ho ricordato questo episodio, capirete, a me molto caro? Perché in quei giorni Raffaele lesse, ora comprendo con quale curiosità, lo scambio tra me e Necco. Poi in una telefonata accennò alla tomba. E leggendo il suo libro mi sono chiesto e gli chiedo se, tra spunti e motivi, non ci sia anche il fatto che Ulisse non abbia una tomba. Di sicuro non l’hanno trovata nella sua Itaca e dubbi consistenti permangono sulla tomba di Poros, che, mi fido di Necco, non era la sua. Ulisse, a ben vedere, non ha ancora una tomba: non è mai morto. Raffaele, quindi, lo ha riportato in mare, nel suo mare, per fargli fare il suo mestiere: scoprire, conoscere, sapere. Il grande tema del suo fascino, la sua immortalità. E cosa poteva spingerlo a fare se non tentare di svelare, in un mondo che sa tutto su tutto, le ragioni dei nostri mali, delle sofferenze, delle tensioni, degli scontri, delle guerre, delle tragedie? Ulisse lascia la scena per andare verso l’ignoto. Ma non sapremo mai se anche questa volta non è morto. Lo scrittore avrebbe potuto osare l’impossibile: Ulisse che imbraccia l’arco e elimina i Proci del nostro tempo.

Mio intervento alla presentazione del libro “Ulisse e il cappellaio cieco” di Raffaele Bussi a Castellammare il 16 ottobre 2019

Michele Tito, il napoletano di ghiaccio

Castellammare, città di navi (ora di scafi vuoti o tronconi da assemblare nei cantieri friulani e liguri), di comunisti (quando ancora se ne partorivano) e di… giornalisti. Quanto a questi ultimi se ne può avere una significativa ricognizione in un ampio saggio di Raffaele Scala sulla stampa periodica negli ultimi due secoli pubblicato su “Libero ricercatore”, che con l’ ”Archivio Giuseppe Plaitano”, costituisce ormai la vera banca dati su rete, quasi un museo virtuale, che raccoglie testi, foto, disegni, cartoline, documenti e quant’altro sulla storia non certo povera della città. Ora tra le mani ho un libro fresco di stampa che racconta il più bravo di tutti noi (pure io faccio parte della squadra): Michele Tito. Lo ha scritto Raffaele Bussi (Michele T., Marcianum Press editore, pagg. 208, euro 16), che con questo romanzo raggiunge la sua maturità dopo opere importanti tra le quali quelle sugli esuli russi a Capri o, l’ultima, su Ulisse che ritorna a navigare nel Mediterraneo.

Raccontare la vita di Tito è stata un’operazione facile e complessa. Facile perché Marisa, la vedova (Tito è morto nel gennaio 2003), gli ha aperto il suo studio consentendogli di rovistare liberamente tra le sue carte, dagli articoli agli appunti, dai resoconti dei viaggi a scritti privati: una miniera di notizie e analisi sui grandi fatti del secolo scorso, internazionali ma anche italiani, che Tito ha raccontato in prima persona girando in lungo e in largo per il mondo. Bussi, testimone della bontà dell’adagio che chi cerca trova, ne ha approfittato ma si è trovato di fronte a una scelta complicata: come raccontare a sua volta il lavoro e la vita di un giornalista, che quasi sempre sono la stessa cosa?

Ha liquidato il curriculum in una sintetica postfazione, dalla nascita nel 1925 in Libia e dall’arrivo all’età di otto anni a Castellammare, dove frequenta il liceo classico “Plinio Seniore” per poi approdare alla “Federico II”, a tutte le tappe della sua intensa biografia di corrispondente, inviato, capo redattore e direttore. Poi gli ha dato la parola nel corso di una conversazione sul treno dell’ultimo viaggio con un giovane giornalista, salito a bordo per errore e prossimo a scendere in una stazione per così dire di riserva. Dunque, è Tito che si racconta. 

Non parla di faccende personali tranne in un paio di occasioni, come quando al suo provvisorio compagno di viaggio che lo riconosce nel “famoso giornalista, direttore di tanti quotidiani” risponde: «Famoso! Un giornalista è un giornalista e basta. Certamente più o meno bravo. Ma questo dipende dalle qualità di ciascuno». Poi precisa facendo un salto nel futuro: «I primi anni Cinquanta segnarono il mio esordio nella professione, ma di acqua sotto i ponti ne è passata da allora. I tempi sono cambiati. L’avvento del mezzo televisivo ha cominciato a rendere famoso anche chi tanto bravo non era. Io sono rimasto fedele alla carta stampata, a parte qualche breve comparsa come moderatore in tribune politiche». Chissà cosa avrebbe detto del giornalismo nell’era dei social!

I capitoli sono pezzi di storia. Le pagine sull’Algeria in subbuglio nel sofferto distacco dalla Francia sono da manuale: c’è lo scavo in profondità delle ragioni dell’uno e dell’altro, delle tensioni, delle speranze e delle pene dei soggetti in campo, dalle masse contadine ai proprietari terrieri, dagli amici dei francesi ai musulmani, dai giovani dinamitardi ai comunisti. Quegli articoli da Parigi e Algeri sanciscono il suo valore professionale e culturale, la sua cifra di grande esperto dei fatti internazionali. 

Leggere quello che racconta, che poi è quello che scrisse per anni, sulla Cina di Mao, dove andò come primo inviato europeo al tempo dei primi contatti governativi di Roma e Parigi con Pechino e fu il primo giornalista occidentale a incontrare Chou En-Lai, è utile per capire da dove nasce il miracolo della più popolosa e potente nazione del mondo a partire dal suo distacco dall’Urss e per finire con la storica riappacificazione con il Giappone. Si viaggia con lui per le strade delle città, nei negozi, nelle scuole, ci si ritrova tra i fanatici della rivoluzione culturale, e poi, quando questa è stata digerita, in una Cina che riparte dai fondamentali, dalla scuola, dalla cultura, soprattutto dalla scienza, che non sono parole astratte ma scelte calate nel concreto di un paese sterminato, fin nelle aree povere delle campagne. Negli anni Tito sarà considerato un “amico” del popolo cinese, ma il suo segreto è semplice: lui sta sulla soglia, non ha pregiudizi, ha lo sguardo e la mente liberi per vedere, analizzare, contestualizzare, capire e, come fa un giornalista, raccontare. Questo cinese è un libro nel libro. Ma ci sono le zoomate su tanto ancora, l’Europa dell’Est in subbuglio, l’ascesa di Gorbaciov, i tormenti della Romania e della Jugoslavia, ovviamente la caduta del Muro.

Non manca l’Italia. Bussi gliene fa raccontare un pezzo, di quando da direttore de “Il Secolo XIX”, giornale molto gettonato dalle Brigate Rosse, profondamente radicate a Genova, si trova ad affrontare prima la tragedia Moro e poi il sequestro del giudice D’Urso. Non condivise la linea della “fermezza” e quando toccò a lui scelse diversamente: pubblicò un farneticante documento delle Br in cambio della liberazione del magistrato, che poi avvenne davvero. Si chiese: «Un errore trattare? Ad un errore è possibile rimediare, alla perdita di una vita umana no».

Prima di andare a Genova era stato chiamato da Piero Ottone come vicedirettore del “Corriere della Sera”, e si ritrovò a fianco di Gaspare Barbellini Amidei e Franco Di Bella. Poi, con l’avvento di Rizzoli, Di Bella divenne direttore con tutto il carico inquietante delle trame della P2 che attraversarono la proprietà e la direzione. Prima di andarsene, Tito di fatto, per un periodo relativamente breve, tenne le redini del giornale. Ne ebbi personale cognizione il 16 agosto 1977, quando trascorsi un’intera mattinata seduto su una poltrona del suo studio in via Solferino per un motivo che racconterò altrove, e lo vidi all’opera: nella notte il criminale nazista Kappler era scappato dal Celio, e Tito stava coordinando il lavoro del giornale. Una grande calma in un tripudio di andirivieini di redattori capo, capiservizio e inviati , telefonate e decisioni istantanee.

Lo ha descritto bene Barbellini Amidei nel suo ricordo dopo la morte: «C’era un ordine nell’apparente caos del suo tavolo. Macinava centinaia di fogli di carta, tanti andavano in tipografia e tanti finivano nel cestino». E poi un cammeo: «Era un napoletano di ghiaccio». Non aveva torto. Infatti, gli rimase l’amarezza quando, in predicato di venire a dirigere “Il Mattino”, gli fu preferito altro direttore per motivi politici. Non so se si può dire: quello era il suo sogno. Me ne resi conto quando, nel periodo della sua direzione de “Il Secolo XIX, mi chiese di scrivergli dei pezzi su Napoli: «Non pezzi di cronaca – mi raccomandò – piuttosto articoli che raccontino la città. Facciamogliela conoscere questa nostra grande capitale ai miei lettori genovesi che pensano che lì ci sia solo un porto».

Recensione pubblicata il 29 febbraio 2020

Un tuffatore e tre narratori, il giallo eterno di un affresco

Atticus? Bute? Spina? Ma chi è l’autore di questo libro in cui si racconta di un giovane, Bute, che aveva rivaleggiato con Poseidonio quando, complice Eros, gli sottrasse Thalàssia, “occhi azzurri come il nostro mare”, e gli procurò una ferita inguaribile che solo il mare riusciva a mitigare e che Thanatos chiuse per alcune migliaia di anni in una tomba? La Tomba che divenne per sempre quella del Tuffatore nel 1968, quando Mario Napoli la portò alla luce. Atticus pochi anni dopo scriveva corsivi per la “Voce della Campania”. Così si firmava, per scelta di vita, Gigi Spina. E ora, con una diacultura, che comprenderete quando leggerete il suo libro, è diventato l’io narrante Bute-Spina e, sottinteso, Atticus, per portarci con lui nel “cinema” di Calvino a vedere un sorprendente “film della mente” che potrebbe anche intitolarsi “Inchiesta di un poliziotto della cultura” e che potrebbe iniziare con la frase: «A noi, agli antichi, tuffo faceva venire in mente salto, il salto nel vuoto per incontrare la morte».

Scusatemi. Ho una confusione in testa dopo avere letto questo libro di Gigi Spina, piccolissimo solo per numero di pagine, “Il segreto del Tuffatore – Vita e morte nell’antica Paestum”, Liguori editore. Cerco di mettere un po’ d’ordine tra i due libri contenuti in così poco spazio: il racconto vivo e palpitante, con scrittura precisa come si conviene a un filologo classico dagli orizzonti sterminati, e un’appendice ragionata che è di fatto un altro libro e che dà l’dea di quale patrimonio culturale l’autore abbia potuto avvalersi.

In queste pagine si respira a pieni polmoni, soffio leggero e penetrante, l’aura della Magna Grecia cara a una comunità che vive per caso, per scelta, per vocazione in quel territorio salernitano. Lo capisco anche dalla dedica anonima nella premessa quando l’autore scrive che “una cara amica” gli ha chiesto di scrivere. Mi metto sulla sua lunghezza d’onda e come lui scoprirà il segreto del Tuffatore così io mi consolo svelandone uno più piccolo, dicendo che potrebbe essere Luisa Cavaliere, intellettuale e giornalista di lungo corso, che anima da anni “entusiasmanti imprese di diffusione della cultura”.

Dunque, il giallo. Che nasconde quella tomba che sta a Paestum come i Bronzi stanno a Riace? Anche questi ultimi, egregio commissario, meriterebbero un’inchiesta per capire innanzitutto come siano finiti – non dovrebbe essere un caso – in quello scrigno di civiltà che è lo Ionio. Si parte da Bute, l’io narrante, che è, e non poteva essere diversamente, figlio di un grande pittore che volle dargli il nome del mitico figlio di Teleonte. Questo Bute, che era venuto ad Elea, insomma Velia, dall’Attica (e ti pareva!), aveva abbandonato i remi e si era gettato in mare dalla nave degli Argonauti per raggiungere le Sirene e partecipare al loro canto, diversamente da Ulisse che, con i marinai assordati dalla cera ficcata nelle orecchie, si era fatto legare all’albero maestro solo per ascoltarlo, il canto delle Sirene.

Ve la faccio breve, anche se la tentazione di raccontare tutto il libro è forte, per confermarvi che Gigi-Bute-Atticus racconta la sua storia di amore, prima negato, poi conquistato e sottratto all’amico, il futuro Tuffatore, che sarà tale per un’invenzione narrativa (e se poi fosse la verità?).

Poseidonio, si è detto, soffrì molto per questa perdita e il pensiero di Thalàssia riempiva le sue giornate e le sue notti. Il suicidio sembrò l’unica medicina per guarire dal mal d’amore. Il doloroso rimorso degli amici, soprattutto di Bute, faceva da sottofondo alla preoccupazione dei genitori che la memoria del figlio potesse in qualche modo essere danneggiata. Occorreva una catarsi post mortem, meglio, per stare al passo di Spina, un’espiazionedi letteraria memoria: dipingere nella tomba una scena di simposio con tutti i suoi amici. Che è quella raffigurata nelle quattro lastre laterali, la cui bellezza fissa un mondo e una cultura, il gioco, l’amore omosessuale, l’alito di raffinatezza di Sibari che è appena sull’altro mare.

Mancava il dipinto più importante, la lastra superiore, quella che doveva onorare il defunto. Bute approfittò del legame familiare per dare l’idea al pittore, che ovviamente era suo padre, ma non gli rivelò il motivo del suicidio, vale a dire la propria responsabilità, “il tradimento, la cattiveria”: «Padre, Maestro, ci ho pensato a lungo, vorrei che il nostro amico Poseidonio, il migliore di noi, avesse da te qualcosa di più che un simposio. Lo so, tu vuoi che rimanga sempre avvolto dal calore del vino, dei discorsi e dei giochi degli amici. Ma la sua passione era il mare: tuffarsi per trasformarsi nell’altro elemento. Se potesse continuare a tuffarsi, immortalato nella posa più elegante che un tuffatore può assumere, sospeso fra un trampolino e l’acqua, con i muscoli tesi e lo sguardo assorto, e se il mare nel quale si tuffa sovrastasse la terra che lo ricopre, quasi un rovesciamento contro natura, penso che potremmo ricordarlo per sempre nel gesto che lui faceva meglio di tutti noi, come il dio del mare che portava nel nome».

Come le tombe dei faraoni, quel tuffo diventerà patrimonio della cultura universale, ma lo sarà non per una manifestazione sfacciata di potenza e di sfida, bensì di modernità e leggerezza. Spina ci gira attorno e lo ispeziona amorevolmente con richiami al cinema, una passione di cui vuole contagiarci, anche con immagini come quelle del tuffo di Vittorio Gassman in “C’eravamo tanto amati” di Scola, quando i suoi vecchi compagni, irriducibili comunisti, lo scoprono ricco, agiato e insoddisfatto. Nell’attimo in cui si lancia nel vuoto, non si sa se per volare o per affondare, di fatto suggella un fallimento che l’autore lascia intravedere come quello di una generazione sospesa tra un passato eroico, un presente deludente e un domani incerto.

Restano il giallo e il suo segreto, che, per restare al cinema, mi hanno fatto pensare a Montalbano, un commissario a me caro, e spero anche a Spina. Le sue indagini sono poliziesche come si conviene al suo mestiere, ma in lui c’è dell’altro, sicuramente una visione dell’uomo e della vita non manichea, non rigida, non imbalsamata. Montalbano tende alla verità, talvolta anche forzando la legge, ma soprattutto cerca il senso delle cose e il motivo profondo dei comportamenti umani, Spina, con un’invenzione geniale, punta al verosimile e lo fa attraverso una strada, arata nel corso di una vita, che lo conduce all’essenza di un capolavoro d’arte e di cultura. E d’ora in poi noi vedremo il Tuffatore con occhi nuovi, con uno sguardo lungo che dal passato antichissimo ci porterà, se il mondo non impazzisce, ancora molto lontano

Fonte https://www.foglieviaggi.cloud/blog/un-tuffatore-e-tre-narratori-il-giallo-eterno-di-un-affresco