Il giornalista e la memoria

di VLADIMIRO BOTTONE

Sono nato in una famiglia della piccola borghesia impiegatizia, abitavo nella Napoli vecchia e bassa. Ebbi diretta cognizione della classe operaia al secondo anno di liceo. I miei amici di militanza ed io eravamo stati un po’ malandrini. Un plotone di metallurgici si recò dall’Italsider a piazza del Gesù, per presenziare e presidiare. Nonostante l’elettricità palpabile, non mi dispiacevano quelle figure in tuta ed elmetto che brandivano massicci strumenti da lavoro. Non avevano il gusto masaniellesco di eliminare gli avversari in un irrazionale, isterico furore da linciaggio. La classe operaia non faceva giustizia sommaria; casomai si garantiva l’agibilità politica con la fisicità di quei corpulenti lavoratori. Era gente che si guadagnava il pane, sostentava la famiglia e attingeva alla passione ideale per menare, se co-stretta, le mani. Rispetto senza subordinate, da parte mia Altre volte, in quegli anni, ho sfiorato la classe operaia. Sui treni della Circumvesuviana, nella tratta da Sorrento, dove villeggiavo, a Napoli. Erano adulti vestiti con dignità e, spesso, con la testata dell’Unità dispiegata davanti al volto. Frugali, con un velo di maturità precoce, altre volte discutevano e scherzavano fra loro, sempre senza passare i limiti (niente da spartire con il plebeismo del lumpenproletariat anarcoide che vivacizza le serate a piazzetta Bellini). Scendevano tutti a Castellammare, quegli operai. Addetti presso una cantieristica parte integrante dell’Italia manifatturiera, oltreché di quell’industrializzazione del Mezzogiorno predestinata ad affrontare il mare procelloso fra Maastricht e il Wto, Scilla e Cariddi. I cantieri navali stabiesi, si diceva. Con quel peculiare skyline di scafi, carroponte, bracci di gru che incornicia i primi capitoli di questo autobiografico Casomai avessi dimenticato (Rogiosi editore).

Lo firma Matteo Cosenza: giornalista stabiese di lungo corso, affabulatore fluidissimo ed uomo di strenua fedeltà alla dimensione della Politica vista come progettazione e cantiere – appunto! – della vita associata. Casomai avessi dimenticato è un titolo eloquente. Lo scritto che introduce, difatti, sorge per intero dalla memoria. La memoria di un giovanissimo militante del Pci che, grazie al padre, respira in famiglia la politica e la metterà in pratica soprattutto nelle redazioni di quotidiani e periodici. L’Unità e Paese Sera nell’edizione napoletana, La Voce della Campania, Il Mattino. Un viaggio attraverso la carta stampata – e, prima, ciclostilata — che prende spunto narrativo dal riordino di un archivio privato, stratificatosi in mezzo secolo. La carta, ancora: il supporto da cui tutt’oggi, nelle prime stesure di un testo, Cosenza non riesce a prescindere. In questo limite-virtù si racchiude il mio e il suo non essere dei nativi digitali. Il che implica privilegiare la materialità sul virtuale, il pensiero di lunga durata sulla volatilità, la consistenza sulla liquidità. Tutte caratteristiche, le prime, che tradotte in chiave politica rimandano alla forma-Partito e, trasposte in chiave sociologica, rinviano alla nozione di Classe. Cosicché la biografia esistenziale ed intellettuale di Matteo Cosenza può, a mio avviso, venire allineata su questa concatenazione: Classe-Partito-Progetto politico. Alla Classe e alla sua moralità si riagganciano i capitoli sugli anni di formazione stabiesi fra sezione, comizi, piccole avventurose pubblicazioni capaci di richiamare l’attenzione del gruppo dirigente. Al Partito si rifanno i medaglioni, mai agiografici o piatti, dedicati a Berlinguer, a Napolitano, ad Antonio Bassolino. Al Progetto politico si richiamano, invece, i passaggi riservati al ceto intellettuale con il quale Cosenza 

ha incrociato molte tappe della sua vita (belle in particolare le pagine rievocative di una figu-a irregolare e, insieme, emblematica del Novecento italiano come quella di Ruggero Zangrandi). 

Se nella nozione di intellettuale includiamo tutti coloro i quali elaborano e trasmettono conoscenza, in questa categoria dovremo finire per inscrivere non poche delle figure che, a vario titolo e grado, innervano l’autobiografia generazionale di Cosenza. Dunque giornalisti di frontiera come Giancarlo Siani (pieno di pudore e sottigliezza morale il bel capitolo a lui consacrato); di-rettori di quotidiani e articolisti, fino a studiosi eminenti quali Francesco de Martino, Giuseppe Galasso, Biagio De Giovanni. Personalità, queste ultime, che non esitarono ad abbinare una copiosa attività culturale e la partecipazione al processo di direzione politica del Paese. Di agire, pertanto, da classe dirigente saldamente ancorata ad una società nazionale, con una chiara visione 

dell’Italia ed una penetrante capacità di interpretare gli interessi di ceti e gruppi sociali, orientandone la coscienza. 

Con il che siamo dunque lontanissimi – la chiosa è solo mia, si badi – dall’odierno fantasma dell’intellettuale-star. Per solito un letterato fluttuante nella nebulosa di un’élite transnazionale dalle residenze molteplici. Uno strato sociale senza radici che non ha occhi se non per le moltitudini altrettanto sradicate, oltre che per quei «diritti cosmetici» funzionali a imbellettare i reali rapporti di forza tra i dominanti e l’universo pulviscolare dei dominati. Quei dominati — primi fra tutti le partite Iva sole dinanzi ai meccanismi di mercato — che non riescono a rappresentarsi e riconoscersi come classe. 

Che conclusione trarre, allora, dalla lettura di queste circa duecento pagine, scritte con un’efficacissima economia stilistica e un altrettanto ammirevole dispendio di passione? Dobbiamo rassegnarci a considerare queste opere memoriali solo in chiave di epicedio nostalgico dei «Trenta gloriosi» (1945-1975), da consegnare – è il caso di dirlo – alle carte d’archivio? Personalmente ritengo che il rimpianto sia dannoso come l’eccesso di salatura mentre la Memoria, come nel lavoro di Cosenza, può rappresentare il sale della terra e della vita. La Memoria può indicare che ebbe luogo un mondo diverso da oggi; che l’esistente non è un eterno presente e che domani potrebbe ribaltare quanto ora risulta – alla lettera – fuori discussione. Non è un peccato –tutt’altro – ricordare con Matteo Cosenza che vi fu un tempo in cui gli intellettuali giocavano un ruolo politico. E, aggiungo io, i romanzieri erano anche degli intellettuali (senza per giunta condannarci a leggere, come oggi, sempre la solita storiella). 

Recensione pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno il 7 luglio 2020 – VEDI ARTICOLO

Per non dimenticare

di GIANNI CERASUOLO

Matteo Cosenza, giornalista e anima inquieta della sinistra napoletana, ha raccolto in un libro riflessioni e ritratti che ruotano intorno all’identità partenopea. Che è fatta soprattutto di contraddizioni, da Eduardo a Giancarlo Siani

 La sera, anzi la notte, quando le pagine del giornale erano chiuse e pronte per la stampa nella tipografia che era sotto di noi, spesso si rimaneva a chiacchierare, io e lui, nel suo bello studio di direttore. Ci raccontavamo le nostre storie di giornalisti di lungo corso, una vita spesa dentro le redazioni, frammenti di una esistenza piena di persone e di fatti, di incavolature e di esclusive, di pacchetti di sigarette e di pasti irregolari. E lui spesso aggiungeva un sorta di “tutto il dolce minuto per minuto”, la descrizione accurata di come faceva un dolce, un uovo di cioccolata oppure una pastiera per la Pasqua.

Perché Matteo Cosenza, oltre a essere una buona penna di scrittore, è anche un ottimo cuoco (ed Anna, sua moglie, non gli è da meno). Quelle conversazioni notturne nella sede del Quotidiano della Calabria a Cosenza (eh sì, nomen omen) furono delle piccole anticipazioni di quanto ho ritrovato scritto in questo casomai avessi dimenticato (Rogiosi editore, 200 pagine, 16 euro), un libro dalla elegante copertina con una sfiziosa caricatura dell’autore fatta da Riccardo Marassi, pagine di un flash back tra le carte di una vita, un cofanetto di ricordi che Matteo si porta dentro di sé attorno alle sue grandi passioni: la politica e il giornalismo.

In realtà, protagonista di queste pagine è la Memoria, la testimonianza di una generazione che ha cercato di rendere la vita bella a questo Paese. Riuscendovi solo parzialmente. C’è un abisso tra quello che ha vissuto Cosenza, e tanti altri come lui, e la realtà che ci circonda. Non perché sono passati tanti anni e le trasformazioni sociali e di costume sono inevitabili. Non perché c’è la nostalgia a far da velo. È che le dimensioni culturali e politiche hanno assunto altre dimensioni, più superficiali, meno sofferte, non ideologiche. O semplicemente sono altro.

Cosenza è stato un giovanissimo comunista di Castellammare di Stabia, un “compagno” a volte scomodo con il suo caratterino non sempre docile, e un giovane giornalista sempre curioso. Ha diretto La Voce della Campania, una gemma dell’editoria che gravitava attorno al Pci negli anni Settanta e Ottanta, un quindicinale battagliero e culturalmente “alto”; ha guidato la redazione napoletana di Paese Sera; è stato per sedici anni nel principale giornale del Sud, Il Mattino, poi si è spostato in Calabria al Quotidiano. E siccome tene l’arteteca, vale a dire non si ferma un attimo, oggi è editorialista del Corriere del Mezzogiorno, la costola napoletana del Corsera. Matteo ha “allevato” generazioni di ottimi giornalisti: Antonio Polito, Gigi Vicinanza, Enzo Ciaccio, Peppe D’Avanzo, Michele Santoro. Ha avuto incontri ravvicinati con politici e intellettuali di primo piano: Giorgio Napolitano (più scontri che incontri, in questo caso), Enrico Berlinguer, Gerardo Chiaromonte, Francesco De Martino, Giacomo Mancini. Ma anche amicizie come quella con Ruggero Zangrandi, singolare figura di giornalista in rotta di collisione con il gruppo dirigente del Pci che mal sopportava le denunce sulla tragedia dell’8 settembre e sulle responsabilità di Badoglio e dei militari. E sul male atavico degli italiani: il camaleontismo. Un bubbone non estirpato che aveva consentito agli alti funzionari dello Stato fascista, con il silenzio della sinistra, di restare ai loro posti anche nell’Italia democratica.

Ribelle come lo siamo stati un po’ tutti in quegli anni, e come è giusto che lo siano i giovani se accoppiano alla rivolta la ragione e l’utopia, Matteo scappò a Torino dopo una discussione in famiglia (suo padre, Saul, è stato una figura carismatica del Pci di Castellammare e del napoletano), nella città della Fiat, il mito della fabbrica, degli operai, degli emigrati che allora, leggiamo in uno dei capitoli migliori e più teneri di casomai avessi dimenticato, potevano essere anche veneti e non necessariamente «dei meridionali di merda». La fabbrica rimase lontana, si ritrovò a fare lo scaricatore di tubi di Eternit e di quintali e quintali di mais. Durò poco. Presto tornò a casa, a Castellammare, a Napoli.

Oggi si discute di Gomorra, «e se la fiction… nuoccia  o meno a Napoli addirittura attribuendo alla rappresentazione la responsabilità della realtà che essa rappresenta», allora ai tempi della Voce della Campania ci si divideva sulla “napoletanità” polemizzando, come fece Cosenza, con Antonio Ghirelli che a metà degli anni Settanta pubblicò un saggio-inchiesta che aveva per titolo proprio la Napoletanità. «Mi sembrava, il suo saggio, un monotono ritorno a uno stereotipo tutto sommato comodo per giustificare i difetti, esaltandone i pregi, del popolo napoletano, dimenticando – si legge nel libro – le novità pur presenti come l’emergere di nuove energie sociali, politiche e culturali». Ma Mimì Rea rinfacciò al giornalista stabiese le sue tesi di «marxista convinto», insinuando, forse a ragione, non pochi dubbi «specie quando vedo che la gente fa la fila per entrare nel Teatro 2000, tempio della sceneggiata, e quando apprendo che sul San Ferdinando pendono cinquantamila prenotazioni di persone ansiose di rivedere la “napolitaneria” illustrata di Eduardo De Filippo». Una discussione – che non si è mai conclusa né potrebbe finire – alimentata allora anche da Pier Paolo Pasolini che nel saggio di Ghirelli scriveva: «Non so se tutti i poteri che si sono susseguiti a Napoli, così stranamente simili tra loro, siano stati condizionati dalla plebe napoletana o l’abbiano prodotta. Certamente c’è una risposta a questo problema: basta leggere la storia napoletana, non da dilettanti o casualmente, ma con l’onestà scientifica. Questo io finora non l’ho fatto, perché non mi si è presentata l’occasione, o forse perché non mi interessa. Ciò che si ama tende a imporsi come ontologico. Io so questo. Che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana… vive nel ventre di una grande città di mare». E si spiegava così: «Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità». La vecchia tribù «…continua, come se nulla fosse successo, a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a sfottere…». Nel frattempo la tribù stava diventando altra anche per il diffondersi del benessere («irrisorio») e per le trasformazioni urbanistiche «…finché i veri napoletani ci saranno, quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati). I napoletani hanno deciso di estinguersi restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili». Dunque, si chiede Cosenza, trasferendo il ragionamento di Pasolini su Napoli alla Calabria, che cosa si deve mettere in scena? «Gli splendori o le miserie?». I “banditi” di Cutro, come li chiamava il poeta friulano, e i boss di Gomorra, oppure fare come gli struzzi e mettere la testa nella sabbia?  Osserva il giornalista: «Non so se i napoletani siano una tribù, sono piuttosto convinto che quando si assolvono o quando si flagellano, due sport molto ricorrenti, di fatto deformino la lettura della loro condizione e della loro città, un po’ come abbiamo visto accadere in Calabria. Paradossalmente sono due modi opposti di fare come gli struzzi. Sarà, anche questo, un pezzo dell’identità che si cerca? Nostalgia del domani, ci ricorda Macry. Forse perché si sogna un futuro che sia come il passato che si vuole, a occhi bendati, sempre splendido splendente, bypassando il presente di cui si è parte e in qualche modo responsabili».

Non mise la testa sotto la sabbia Giancarlo Siani, il giornalista “precario” del Mattino ucciso dai “banditi” della camorra la sera del 23 settembre del 1985, un tragico fatto a cui Cosenza dedica un delicato e intenso capitolo del suo libro (“In auto con Giancarlo”). Siani fu lasciato solo. Allora l’autore del libro era a Paese Sera e criticò il direttore del quotidiano napoletano, Pasquale Nonno, per quasi nove anni alla guida del giornale. Nonno si era chiesto in un editoriale, ma anche nel corso di un dibattito televisivo in uno “speciale” del Tg1 dopo l’omicidio, «Perché proprio lui?»: «L’agguato ha le caratteristiche della camorra. Da ultimo Giancarlo si era occupato di droga. Ma se anche queste fossero ipotesi, e non possono esserlo, ancora resterebbe senza risposta quel perché… e non possiamo non domandarci se abbiamo sbagliato qualcosa o se forse non abbiamo mandato allo sbaraglio, senza accorgercene, questo nostro collega così giovane e indifeso». Riflette ora Matteo Cosenza: «Probabilmente non era nelle intenzioni di Nonno, ma l’effetto fu sconcertante perché sembrava quasi che Giancarlo avesse sbagliato qualcosa al punto da provocare la decisione della camorra di eliminarlo». Ma forse c’era anche l’angoscia di un uomo che sentiva la responsabilità di aver esposto troppo un giovane collaboratore, peraltro nemmeno assunto, mandandolo in quella Torre Annunziata, “regno” del clan Gionta. «Sbagliammo tutto» è la risposta che alcuni si sono dati anche all’interno del giornale. «L’errore, però, era nelle cose, era nel sistema», è la sottolineatura dell’autore. «Per un giovane, diventare giornalista era un sogno e un’impresa. L’abusivato era, ed è ancora, un percorso che poteva far aprire qualche porta. Ed era una strada obbligata anche se si poteva contare su una raccomandazione, perché per un direttore, ma anche per un redattore capo o un capo servizio, era più facile favorire qualcuno mandandolo per qualche mese in periferia o in provincia a fare la gavetta, affinché potesse mettersi in mostra ed essere infilato nel “pacchetto” di assunzioni che periodicamente veniva contrattato con i comitati di redazione… Procedura discutibile… un giovane si sentiva ripagato dalla firma sul giornale, da compensi modesti e dalla possibilità di entrare nel giro… Giancarlo era uno di questi giovani e andò a Torre Annunziata non sapendo che quella era la prima e ultima tappa della sua “via crucis”. Era bravo anche troppo. Pulito, perbene, colto, entusiasta. Solo. Soprattutto solo…».

Quando chiudi questo libro, vorresti chiedere a Matteo di continuare a raccontare. Di sicuro starà imbastendo qualche altra trama.

Recensione pubblicata sul sito “Succede oggi” il 1° agosto 2020

Ovidio in napoletano

Cominciamo dal dato che solitamente, ma non sempre, si mette tra parentesi: il prezzo. Cinque euro, che questo prezioso libretto, che sta bene in una tasca della giacca, li vale abbondantemente. È una deliziosa e colta escursione nel mondo dei profumi con una chiave inedita. Questa volta Carlo Avvisati, giornalista e studioso, ha fatto i conti con Ovidio, il poeta della “Metamorfosi” e dell’”Ars amatoria” “relegato” per punizione in Romania e riabilitato solo duemila anni dopo, nel 2017, dal consiglio comunale di Roma. E lo riabilita a suo modo anche Avvisati compiendo un’operazione ardita e suggestiva: la traduzione in napoletano del “Medicamena faciei femineae” (“ll’arte ‘e se pittà”, Arte’m editore). Al titolo è aggiunta un’ulteriore specificazione, “L’arte del trucco tradotto in napoletano”, perché il testo ovidiano («di cui resta un frammento di cento versi», ci ricorda Concetto Marchesi) viene scandito dal ritmo delle strofe (ogni strofa un distico), riunite a gruppi: per ognuno dei quali c’è il testo latino, sotto quello in italiano e a nella pagina a fronte la versione napoletana. Inutile dire che è un interessante e divertente esercizio, specie per chi il latino lo studiò a scuola, confrontare i tre testi e comprendere fino in fondo la peculiarità della traduzione in napoletano che non è, e non poteva essere quella letterale: ne avrebbe perso efficacia e freschezza, forse sarebbe risultata incomprensibile se non impossibile. 

Vediamo che succede. Per esempio il pavoneggiarsi: Scrive Ovidio: «Laudatas hominis volucris pinnas explicat, et forma muta superbita vis”. In italiano: «L’uccello sacro a Giunone fa la ruota con le penne ammirate dall’uomo e insuperbisce tutto con la sua muta bellezza». La versione di Avvisati: «Vuie facite lu pavone ca pe ll’ommo cheja la rota, e nne regne d’arbascia, zitto, ll’arma, là pe llà». E così si procede, passando poi da un intruglio all’altro. E se il napoletano risultasse più “difficile” del latino le note vi salveranno con aggiunte preziose, per esempio saprete che ‘ncannaccate sta per «appendete al collo, da ‘ncannaccare (dall’arabo kannaqa: collana di perle o granate» e che le «prete sono pietre preziose».

A parte le dotte e amichevoli presentazioni e prefazioni di Stefano De Caro e Pietro Gargano e le considerazioni dell’autore, di quest’ultimo va sottolineata l’escursione, quasi un saggio finale, sul mondo dei profumi, delle creme e dei belletti dalle prime apparizioni a oggi, dalla Bibbia a Plinio il Vecchio, da Roma alla Persia, dall’Egitto a Capua «quando non era ancora città romana ed era tra le capitali profumerie dell’epoca». Dov’è chiaro che cambiano, e non sempre le tecniche, se solo si ricorda che col dropex a base di pece, praticamente una ceretta, avveniva la depilazione, ma non muta il desiderio di bellezza che è legata al trucco e ai suoi segreti. Segreto per segreto, chiudiamo con due distici di Ovidio, ma solo con il testo in dialetto napoletano e chi non capisce pazienza: «’E marite ca tenite, mo’ so tanti ‘nnacchennelle e, stentanno, putarrite mette’ ‘a ‘coppo, p’èsse’ belle… Nteressa ca ve prucurate nuvielle nammurate e lle vulite bene! Pecché si uno è scicco, de córpa nun ne tene».

Le “anime nere” di Gioacchino Criaco

Questo è un libro da maneggiare con cura per tanti motivi. Sicuramente è da leggere. Intanto perché è ben scritto, perché è avvincente, perché c’è la storia che è forte di suo, di quello che si legge e anche dell’ansia di andare avanti per capire che cosa riserva. Poi è un’opera prima e come tale si avvantaggia dell’effetto sorpresa. A seguire, c’è lui, l’autore, Gioacchino Criaco, che un bel giorno ha deciso di darsi alla narrativa, e non è chiaro se più per la voglia di fare lo scrittore o per la necessità di raccontare cose che lo riguardano e cercare di spiegarne agli altri il significato profondo: a tratti sembra che voglia fare i conti con se stesso in pubblico, quasi una confessione per quanto trasfigurata dalla narrazione apparentemente di fantasia. L’editore Rubbettino ci ha messo il suo con una cura certosina – immagino anche un delicato e prezioso lavoro di editing – e con una copertina intrigante dove i boschi delle “Anime nere” sembrano voler dialogare con i coltelli rosa di “Gomorra”.

Ma più che a “Gomorra” di Saviano, da cui è molto lontano, sebbene l’attualità imponga inevitabilmente il confronto, “Anime nere” fa pensare ad un film straordinario di Martin Scorsese, “Quei bravi ragazzi”, dove in maniera anche scanzonata si raccontano le gesta di una banda di delinquenti che a New York passa di efferatezza in efferatezza con naturale leggerezza: donne, denaro e sangue. Uno sguardo sbagliato ti fa finire nel bagagliaio di un’auto, un ordine mal compreso può costare la vita ad un povero ragazzino che fa il cameriere in una bisca per mano di un divertito Joe Pesci. E chi racconta questo inferno, che sembra un paradiso, sottolinea come tutto questo fosse normale per lui. Vero è che alla fine si pente e fa arrestare tutti i suoi amici. Ma quello che conta non è il finale ma il racconto: vedete – dice questo mafioso italo-irlandese – questo era il mondo che avevo conosciuto, non ne concepivo un altro, questo era diventato l’unico mondo possibile per noi, c’era il nostro mondo e poi c’era il mondo degli altri da cui attingere con la prepotenza e la violenza tutto quello che ci serviva.

L’incipit, forte e importante, di “Anime nere” è perfettamente simbiotico con questa concezione, perché l’io narrante, una figura inventata o lo stesso Criaco?, racconta il suo mondo possibile: «Camminavamo veloci, gli scivolavo dietro come una slitta trainata da cani, era così da ore. L’appuntamento era notturno, e notturna, ovviamente, doveva essere la traversata. Di questo si trattava, percorrere la regione lasciando la vista di un mare per vederne un altro». Poi prosegue: «Avevamo munto le bestie e dopo averle ricoverate e riposto il latte alle prime ombre della sera eravamo partiti. La consegna del porco doveva avvenire a molti chilometri di distanza, lui agli appuntamenti arrivava sempre in abbondante anticipo. Attraversammo nell’ordine boschi di lecci, bassi e fitti, pieni di cespugli spinosi che a volte vincevano lo spessore degli abiti e segnavano la carne…». La descrizione è dettagliata e spiega perché «una tale traversata – siamo di nuovo nel libro -, anche se fatta di giorno, sarebbe stata per occhi inesperti una pazzia, se non un suicidio: boschi inestricabili, viscide rocce, torrenti impetuosi, dirupi maligni, recinti di filo spinato. Lui entrava in simbiosi con quella natura che poteva apparire ostile, vi s’immergeva completamente e ne faceva parte, ne era un elemento essenziale: la montagna che respinge le ostilità, lo accettava, e lui l’amava più di ogni altra cosa al mondo. Lui e la montagna, ne era convinto, odiavano solo due cose, le querce e i porci, entrambe distruttive per l’ambiente. La quercia rendeva il terreno sul quale cresceva arido e desertico, e il suo frutto ingrassava il porco, che distruggeva boschi, argini, fungaie, colture e pascoli. Lui conosceva ogni passo, albero, ruscello, falesia, ricovero e trabocchetto, come solo un nativo dei luoghi poteva. Lì era nato e cresciuto. Poi se ne era allontanato ma, inesorabilmente, la montagna lo aveva riattratto. Chi là nasceva là moriva. E soprattutto due erano le cause di morte, la fatica e il piombo, a esse era difficile sfuggire. Lui era mio padre. Rappresentava il prodotto tipico di quella terra, tarchiato, forte e resistente, indurito e fragile allo stesso tempo. Soprattutto determinato a resistere, a qualsiasi costo e prezzo, regola legale o morale. Divoravamo la strada che portava al porco, nutrimento avvelenato, forse, per la nostra terra». Seguono l’incontro, la consegna e la marcia a ritroso verso la porcilaia, scavata appositamente per custodire per mesi quelle “bestie” prelevate da un altro mondo, perché «a quel tempo – chiarisce l’io narrante – ci sembrava normale chiamare porco un uomo, quello era il nome coniato dai rudi e cinici pastori della montagna per gli ostaggi che numerosi soggiornavano negli intricati boschi dell’Aspromonte».

Questo è il mondo, l’humus, la coltura da cui prendono le mosse il libro e la vita delle anime nere, i tre ragazzi che giurano di non separarsi mai, cani sciolti della ‘ndrangheta che alternano gli studi con furti, rapine, postriboli e, passo dopo passo, con gli omicidi. La strada è segnata, tutto avviene con naturalezza, in maniera giocosa, fino a diventare «il frutto avvelenato e letale – leggiamo ancora – che noi eravamo: distruttori di vite, tranquilli e senza violenza ostentata, i più pericolosi. Fuori dai nostri affetti tutti erano nemici, e sacrificabili. Fra di noi eravamo affettuosi, premurosi, quasi dolci. Ci avessero creato, o fossimo geneticamente predisposti, la nostra violenza ha portato dolore, oltre a noi stessi, in posti e a persone che da noi pensavano di essere al riparo. A diciannove anni avevamo rubato, rapinato, sequestrato e spezzato vite. In un mondo che rifiutavamo, perché non era il nostro, tutto quello che volevamo ce lo siamo preso». Il primo omicidio sembra quasi liberatorio: «Ci portò con se Sante e andammo contenti. Superammo l’ultima soglia della pietà umana interrompendo il gioco di un’animata partita a briscola. Lasciammo due picciotti a terra e da lontano udimmo lo strazio di madri e sorelle accompagnarci su una strada ormai senza ritorno. Dopo non si videro più fantasmi. Non ci si svegliò urlanti di notte. Si passò felici e contenti in un’altra dimensione, un gradino sopra gli altri. Ripetei l’esperienza dopo qualche mese, da solo».

E quali fantasmi avrebbe dovuto vedere? Quelli che erano estranei ad una società fortemente dominata da valori semplici e chiari pur nella loro brutalità? Che cosa fa dire Mario La Cava alla madre di Duccio Malintesa, che ha ucciso la sorella per liberarla dalle sofferenze e dai maltrattamenti che subiva dai parenti, se non un tragico e impietoso rimprovero: «O figlio sventurato che hai dato inizio al tuo dolore ma non sai dargli un termine giusto». E al padre: «Finché sarai vivo, la mia mano cadrà su di te, ora ti colpirà nella sua durezza. Ti inseguirò con i miei passi di uomo». La colpa va purificata con la morte, e, se questa tarda, anche un padre è legittimato ad agire fino ad uccidere il proprio figlio.

Le gesta delle anime nere sono il filo conduttore del libro. Un passaggio coglie un tema cruciale della storia calabrese, il senso di non appartenenza allo Stato, anzi il sentirlo lontano, estraneo, nemico. Leggiamo: «Il lavoro dei sequestri sta per finire, lo Stato non può sopportare che i suoi più ricchi contribuenti vengano nei nostri monti a ingrassare malandrini e pastori. Ai figli dell’Aspromonte sta mostrando nuove e più facili vie. Fra un po’ i figli dei pastori saranno tutti qui a vendere bustine». I pastori – anche il padre dell’io narrante – diventano forestali, quindi dipendenti pubblici, mentre i figli studiano per amore dei libri e della cultura: «Del resto -leggiamo ancora – non eravamo diventati ciò che eravamo per colpa loro o perché la società era sporca, brutta e cattiva. Vi erano pochi uomini sporchi, brutti e cattivi. La loro cultura era dominante. C’era una miseria pesante. Non v’era porta della Locride che non avesse conosciuto gli scarponi della benemerita, e questa era la sola faccia conosciuta dallo Stato». E dopo l’analisi l’invettiva: «Se per decenni l’unica persona conosciuta positivamente, prodotta da quel territorio, è stata Corrado Alvaro, significa che i suoi abitanti sono geneticamente tarati o che vi è un interesse, storicamente riproducentesi, alla perpetuazione in serie di criminali».

Da Africo a Milano, la droga, l’incontro con una società opulenta e con la politica della “Milano da bere”, le donne, le prepotenze, i grandi traffici con Bolivia e Colombia, l’incontro con un palestinese che pare venire da lontano ma che si vuole invece vicino al travaglio dei calabresi, la vicenda giudiziaria, il carcere, gli omicidi spietati con corpi che vengano devastati dai pallettoni fino a spappolarsi, il libro scorre e si legge tutto d’un fiato. Ma è tra il punto di partenza, di cui abbiamo parlato, e l’epilogo inaspettatamente tragico della storia che si trovano spunti per riflessioni. La fine è segnata dalla trattativa con lo Stato, quasi una resa, ma lo Stato ha il volto dell’uomo in divisa che è anche lui figlio di quella terra e in qualche modo della stessa cultura. Tutti i ragazzi vengono consegnati e si consegnano allo Stato, quando è il turno dell’io narrante c’è il colpo di scena che lui stesso consapevolmente provoca per impedire la propria resa, per quanto la sconfitta sia nelle cose. Kyria, il protagonista di un sogno, diventa il simbolo di una voglia di riscatto che non si materializza. La Calabria viene descritta come la terra che nella sua storia ha dovuto subire ogni angheria e sopraffazione culturale prima ancora che materiale. Tutte le dominazioni che l’hanno stravolta assumono alla fine il volto dello Stato, per l’appunto lontano, assente o presente e nemico. «Ci hanno cercati – ecco il cuore del romanzo -, non siamo andati noi a chiamarli. Noi stavamo bene con la nostra fame, le nostre malattie, la nostra arretratezza, non volevamo aiuti. Sono venuti nei nostri pascoli ad attaccare cartelli, divieto di caccia, divieto di pesca, divieto di pascolo, tutto diviene un divieto. Perché un popolo non può scegliersi il futuro e vivere come crede, sulla propria terra? Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone».

Kyria – o, se non sbaglio, Criaco? – vuole ritornare indietro e cancellare secoli di storia immaginando il suo Aspromonte come un Eden.

Dicevo che questo è un libro da maneggiare con cura. Sembra, per quanto con la formula della narrativa, l’analisi di un anatomo-patologo che viviseziona i fatti e anche quello che passa per la mente di chi li provoca. Da questo punto di vista è un documento importante che fornisce elementi che consentono di penetrare in una cultura profondamente radicata tra la gente di questa terra. Ma, detto questo, fa correre il rischio di incorrere nella decantazione apologetica della cultura stessa e dei fatti e misfatti che produce. Anzi, con l’invettiva contro lo Stato e con la favola di Kyria-Criaco sembra quasi una sorta di giustificazione o di autogiustificazione di tutto il male che c’è stato e che c’è. Peccato che dai sequestri si sia passati alla droga, verrebbe da dire. Un po’ quello che tante volte ho sentito ripetere dalle mie parti, a Napoli: che disastro i camorristi di oggi, almeno quelli di una volta avevano un loro codice etico…

Quello che, a mio avviso, manca nel libro è la presa di distanza, se posso dire, la condanna. Per questo, “Anime nere” è così lontano da “Gomorra” ma anche dalla conclusione del film di Scorsese, al quale pure rassomiglia tanto. E per questo avvince e inquieta. Verrebbe voglia di chiedere a Criaco di dire qualcosa in più – e lo faccio pure in questa sede -, ma non posso ignorare il fatto che il libro è questo e trasmette il messaggio che, nero su bianco, contiene nelle sue pagine. Al di là di quello che penso io e di quello che può dire il suo autore.   

* Mio intervento alla presentazione del libro “Anime nere” di Gioacchino Criaco a Lamezia il 31 ottobre 2008. Il libro lo avevo già recensito sul “Quotidiano della Calabria” prima dell’uscita in libreria.

Bassolino: la forza della salita,
 l’insidia della discesa

Gatti, figli e nipotini, montagne e mare, corse e politica. E soprattutto Napoli, immensa, amata, impareggiabile nel suo splendore e nella sua bellezza, nella sua miseria e nella sua nobiltà, la città-mondo di cui gli chiede avidamente notizie Arafat. Antonio Bassolino ha scritto un romanzo, che è anche un libro di memorie e di incontri, di malattie e sofferenze, in cui si intrecciano passato e presente, soprattutto i decenni più vicini e la parte della sua vita a cui tiene di più: l’esperienza di sindaco di Napoli.
“Le Dolomiti di Napoli” (editore Marsilio, pagine 206, euro 15), mette quasi tra parentesi i dieci anni di presidente della Regione Campania. Ne parla all’inizio per ricordare la crisi dei rifiuti «che nei mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008 precipita in modo grave». Lui già da tempo non ha più responsabilità, ma «ogni distinzione è travolta. Era come se fossi sempre io il commissario. Anzi, ero commissario, presidente, sindaco di Napoli e di tutti i 551 comuni della Campania, presidente di tutte le province, e magari anche premier e intero governo nazionale. La vicenda viene usata per colpirmi, nel centrosinistra perfino più che nel centrodestra».
Con lui sindaco «per diversi anni Napoli era diventata una delle grandi città italiane più pulite» e «i molti turisti che venivano da tante parti del mondo restavano impressionati positivamente proprio dalla pulizia, dall’antica bellezza nuovamente valorizzata, dal restauro di piazze e di monumenti, da un risveglio sociale oltre che culturale. La città aveva ritrovato una sua identità e riconquistato un suo posto, giusto e meritato, nella considerazione nazionale e internazionale».
Il libro ruota attorno a un’idea, che gli dà poi il titolo. Le Dolomiti sono sicuramente un riferimento concreto di un’esperienza personale, perché Bassolino è uno scalatore da ferrate. Il racconto, denso e preciso da scrittore di razza, è appassionante quando si inerpica su montagne leggendarie, compresa la ferrata di poco più di un mese fa sul Monte Zebrù dove poche settimane prima avevano trovato la morte sei esperti alpinisti. Ma le Dolomiti assumono simbolicamente il valore del carattere dell’uomo e del suo rapporto con la complessità di una città come Napoli. Perché la montagna è fatta di salite e discese e, quando si vuole o si può, di risalite.
In un passaggio dedicato ai due gattini, che gli riempiono casa e vita, l’ex sindaco di Napoli dà la chiave di lettura del libro: «Ginger sale sugli alberi, mentre Fred si esibisce in salti spettacolari. Felici, rincorrono farfalle, insetti e lucertole. Dopo aver preso confidenza con un piccolo ulivo, Ginger sale su uno più grande e alto. È incredibile quanto sia agile: sembra un acrobata, quasi una piccola scimmia. Poi si accorge che scendere è molto più difficile che salire, come sappiamo tutti; soprattutto chi frequenta la montagna e raggiunge i luoghi più difficili e le cime più affascinanti dove sembra di toccare con il corpo l’infinito».
Bassolino ha scalato le Dolomiti di Napoli, in anni di guida della città rischiarati da luci più che da ombre. Le inconfondibili radici popolari della città si fusero con la riscoperta di una tradizione artistica e culturale di valore europeo. Si respirò una bella aria in quegli anni. Piazza Plebiscito si trasformò in un luogo centrale dell’arte mondiale, si impresse un’accelerazione alla realizzazione della metropolitana, che oggi è già, e nel giro di due anni lo sarà definitivamente, la più grande opera di tra sporto urbano su ferro del nostro paese, e contemporaneamente un museo con le più belle stazioni d’Europa.
“La Salita” è anche l’episodio del film in cui Mario Martone gli fa scalare, nei panni di Toni Servillo, il Vesuvio ponendogli domande insidiose sulla politica, l’ideologia e il governo della città.
Poi la discesa, più difficile, come lui ammette, della salita, che avviene negli anni del governo regionale, soprattutto della seconda legislatura che, ammette, avrebbe fatto bene a evitare: «Anni difficili. La fase più drammatica della crisi dei rifiuti, purtroppo, cancella tutto… Giorgio Napolitano pronuncia da Capri parole ingiuste, in quei giorni. Ingiuste come quelle sui “giorni tra i peggiori per Na poli”, dette nel novembre 2006 in riferimento a gravi fatti di ordine pubblico».
Ora questo libro, che racconta salita e discesa, e che forse prelude ad una risalita, ad un ritorno. In mezzo ci sono pagine memorabili come quelle sul rapporto tra Napoli, San Gennaro e il Vesuvio, sull’emorragia che lo portò ad un passo dalla morte, e poi vicende politiche tormentate, e tanto, tanto privato. Da questa miscela di vita scaturisce una conclusione che è insieme una confessione e una riflessione: «Per tanto tempo, per molti di noi la vita coincideva con la politica, con l’agire collettivo, con la voglia di cambiare il mondo. La dimensione politica resta importante ma non può essere l’unica e nemmeno dominante. Combattere le disuguaglianze, valorizzare la qualità del lavoro e fare avanzare le forze deboli della società restano grandi finalità da perseguire in modo moderno e con animo appassionato. Ma senza la pretesa di caricare sulle nostre spalle l’intero mondo e l’illusione di cambiare perfino la vita stessa delle persone nelle sue diverse espressioni. Fuori dalla politica c’è tutto un mondo, c’è tanta vita, e forse cercare di cambiare la propria vita è anche un modo per mettere su basi più giuste un rapporto tra politica e vita.
Tutto questo appare forse più chiaro, perfino più naturale se si guarda il mondo con gli occhi dei figli, di quei propri figli ai quali non sono stati dedicati tutta l’attenzione e tutto il tempo che avrebbero meritato. Se si impara a guardare il mondo con gli occhi dei bambini che preparano il futuro!

Un acre odore di aglio

Quando sono stato invitato a presentare questo libro  di Mimmo Gangemi, non lo avevo ancora letto. Ho dato la mia disponibilità per stima e amicizia verso l’autore e anche per ricambiare la sua partecipazione alla presentazione di un mio libro a Gioiosa Ionica. Confesso che un po’ mi pesava il dover affrontare un viaggio da Napoli. Poi ho iniziato a leggere “Un acre odore di aglio” (Editore Bompiani) e man mano che andavo avanti ho quasi dimenticato il mio impegno a venire qui. Poteva essere, questo voglio dire, una lettura per così dire professionale, come le tante che capita di fare, ma così non è stato. Perché di libri se ne scrivono e se ne pubblicano tanti, direi troppi, che durano spesso il tempo necessario per leggerli e di cui presto si perdono traccia e memoria. Questo libro no, questo è un libro – ed è facile profezia – che resterà. Mi auguro che resti anche nelle future edizioni l’immagine di copertina, una mirabile foto in cui la cara Adriana Sapone ha messo tutto il suo mestiere e anche la sua passione civile, è l’opera di una grande artista della fotografia: nel volto, nelle rughe, nei capelli, nelle orecchie, nella mano, c’è la storia della Calabria, c’è il senso del libro, e la scelta del grigio è perfetta perché la Calabria ha tanti colori ma, se si osserva in profondità, il grigio è quello che prevale, che la tiene sospesa, quasi in bilico.

So, e ho letto, che sono molteplici i richiami che si sono fatti a scrittori e opere che hanno un posto di riguardo nella letteratura. Un po’ mi ci sono ritrovato, un po’ no. Ho pensato subito anche io a “Cento anni di solitudine” di Marquez (cent’anni di aglitudine?), dove si narra l’epopea straordinaria di una famiglia, che diventa speculare a quella di un popolo, meridionale anch’esso per quanto di un altro continente, con una lingua fresca e scorrevole, articolata magistralmente e che  segue i canoni classici della grande letteratura. Se dovessi pensare a qualche scrittore che, al di là degli esiti, si sia richiamato didascalicamente a questo modello penso soprattutto al lucano Raffaele Nigro, che con “I fuochi del Basento” vinse anche il Premio Campiello nel 1987. E ho pensato naturalmente alla roba, ai lupini, al verismo di Giovanni Verga, e all’altra roba, quella calabrese, vale a dire l’ulivo e l’olio di Gangemi, sacri e non sempre affidabili regolatori dell’esistenza dei protagonisti del suo romanzo.

Potrei anche dire che sull’opera aleggia la lezione sempre attuale del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: cambia tutto, poi non cambia nulla. E, volendo, non mancherebbero altri possibili riferimenti. Ne faccio ancora uno, che mi sembra più vicino a noi. Penso, infatti, a Saverio Strati, alla sua scrittura senza fronzoli e al suo guardare severo nell’animo dei suoi conterranei. Ma dopo averli fatti abbondantemente anche io, dico subito che qui siamo di fronte a un’opera originale, con una sua cifra non riconducibile a modelli per quanto di rango elevatissimo. Oso dire che una lettura comparata sarebbe sbagliata. Chi legge “Un acre odore di aglio” legge questo romanzo, legge un’opera che è il punto di maturità di Gangemi, colto in un periodo di fertile attività, ma anche la promessa di altri gioielli.

Partirei dalla scrittura. Gangemi ha scarnificato la lingua, lavorando di cesello, parola su parola, aggettivi quelli che servono, periodi asciutti come le vite dei protagonisti, verbi che inchiodano i concetti. Mi permetto di dire, considerata la sua professione, che la sua è stata anche un’opera di alta ingegneria, una costruzione in cui risaltano la purezza delle linee, la solidità delle strutture, i collegamenti tra i piani, il rapporto con il contesto. Il risultato è impressionante. Se davvero si volessero fare confronti, direi che in duecento pagine a corpo grande ha raccontato i cento anni di una famiglia come altri hanno fatto, altrettanto mirabilmente, in lunghezze più che triple. 

La narrazione. Poteva scrivere molto di più, avrebbe potuto, per esempio, riempire gli intervalli con altre storie e vicende. Ma cosa sono quei vuoti? Piuttosto,  ci sono vuoti nel romanzo? Me lo sono chiesto immaginando che cosa uno di noi, persona normale e non dall’esistenza leggendaria, che volesse raccontare la propria vita, potrebbe scrivere di così originale. Sebbene la normalità della vita non sia mai banalità poiché anche una giornata ordinaria, come Joyce ci ha insegnato, può diventare memorabile. Ma la scelta di Gangemi, immagino, è stata quella del ritmo, di un ritmo incalzante, fulminante, che desse un senso all’inizio e un senso alla fine, che fosse coerente con la storia, in qualche modo esso stesso ritmo la storia. Il ritmo dà la sensazione che questo romanzo sia a tratti una costruzione in versi. Sentite: «Lei non rispondeva, se non con un sorriso lieve e la mano a carezzarlo». Leggiamo: «Si diressero verso la montagna, carovana appresso ai due muli condotti da Turuzzo e dal figlio quindicenne. Percorsero una ripida mulattiera, costeggiando dirupi da cui distogliere gli occhi e puntando la dorsale, dove ciuffi di alberi si opponevano, ombre più scure, al cielo che già aveva liquefatto la notte e si colorava di violaceo». E ancora: «L’orto davanti alla macchina induceva tristezza, incupito com’era da un cielo grigio e chiuso su ogni lato, indeciso di pioggia. I rami degli alberi da frutto vestivano poche foglie ingiallite, restie a lasciarsi cadere. I rugosi tralci di vite somigliavano a serpi scure attorcigliate ai pali di sostegno. Il pino verdeggiava solitario e stendeva al suolo un’ombra tenue. Dalle colline gli spari dei cacciatori rintronavano cupi». 

Ora, per quanto oggi la Calabria possa essere diversa da quella che Gangemi ci lascia nell’ultima pagina, sospesa nei “ragionamenti” di Peppe che non riconosce più i suoi luoghi di fatica e di vita devastati dall’alluvione, il suo romanzo è un affresco, duro e impietoso, dolente e amorevole, disperato e disperante, di una Calabria immobile nel suo essere eternamente piegata sotto il peso insopportabile di ricorrenti disgrazie. E’ anche la storia della fatica, della resistenza, della voglia di risalire la china, ma è altro a prevalere. Odore acre di disgrazia e di morte. I calabresi che Gangemi racconta, sono quelli da lui ben conosciuti, quelli della sua terra, del suo Aspromonte. Duri e determinati, perennemente vinti. C’è sempre un Generale che gli mette i piedi sul capo. E loro come reagiscono? Aggrappandosi a quello che hanno fino a farlo diventare fonte di vita, a trasformare un terreno irrecuperabile in un fertile campo, per poi perderlo per una fiumara che si incattivisce. Crescendo figli che si spera possano diventare quello che i loro padri mai hanno potuto essere e che poi guerre incomprensibili ti strappano come brandelli di carne dalla tua famiglia. Onorando le donne, madri e mogli, purché culture ancestrali e relativi pregiudizi siano rispettati, pena l’impossibilità di vivere al punto da insinuare il velenoso sospetto che sia meglio farsi da parte per sempre. Cercando giustizia laddove è possibile e non rendendosi conto che quella giustizia produce altra ingiustizia. 

I calabresi vinti ma presenti, vivi ma impotenti. E lo sono anche i personaggi del romanzo benché essi, pur isolati e deboli, siano portatori di modernità di pensiero politico. Sullo sfondo c’è un’assenza pesante, il silenzio assordante dello Stato. Che si mostra solo quando, vestendosi di Patria, chiama gli uomini per immolarli nelle guerre. La descrizione è inappuntabile. La natura ciclicamente ostile e lo Stato lontano e distratto stringono un’alleanza perversa che punisce una terra separata dall’Italia dalla barriera fisica e simbolica del Pollino. Ma gli uomini dovrebbero sapere difendersi dalla prima, la natura, e costringere il secondo, lo Stato, a fare la sua parte. Ciò non accade – e questa mi sembra la Calabria che Gangemi ci consegna al di là delle sue intenzioni – perché questi uomini sono prigionieri di una società chiusa, dallo scarso dinamismo, senza ricambi di qualità, incardinata in un modello di famiglia che è al tempo stesso protettiva e asfissiante. La resa di Cola, che dopo aver voluto per una vita il diritto al voto non lo esercita quando finalmente è stato conquistato, è la rappresentazione delle speranze e delle aspirazioni che si perdono nell’aria come il fiato che precede la morte e che, al pari dell’aglio, pervade le pagine del romanzo. Di questo romanzo che non si dimentica, che è un pugno nello stomaco e la carezza di un figlio alla propria terra, sovente più matrigna che madre.  

24 aprile 2015      

Macry e la nostalgia del domani

Letto da giorni, ho lasciato decantare la prima impressione per tentare una riflessione più fredda quando, per parafrasare altri mondi, il vino buono non ci nasconde più i suoi segreti. Perché il primo impatto con questo libro di Paolo Macry, “Napoli. Nostalgia di domani”, è potente, direi ubriacante: sarà per la brevità, poco consona ai testi di storia tanto familiari all’autore, sarà per la scrittura, ben nota per la pluridecennale attività di commentatore e, quindi, di giornalista, sarà per il tema, antico e straordinariamente sempre attuale, sarà per la chiave di lettura di una città e di un popolo, della sua storia e del suo presente, dei suoi vizi, inesauribili e incorreggibili, e delle sue virtù, sfacciate e compresse, sarà per il messaggio, nonostante tutto, di fiducia nel futuro, insomma sarà per tutto questo e altro ancora ma quando arrivi alle ultime due righe – la confessione di resa – resti frastornato. Devi riprendere fiato, sospendere il giudizio e, appunto, attendere.

La galoppata in duemila e cinquecento anni di storia è veloce e avvincente, dove il cavallo è la cultura materiale di Napoli, le sue “pietre”, le stratificazioni ripetute e sempre presenti per quanto spesso e selvaggiamente violate, e in groppa c’è il suo tormentato spirito, le “intelligenze”, tutte, quelle alte e altissime e quelle basse compresa l’arte dell’arrangiarsi, di infrangere le regole, di imbrogliare e di sopravvivere, di vivere anche nell’illegalità e di sottostare alle sopraffazioni della delinquenza organizzata e non. Le tre date su cui Macry sofferma lo sguardo hanno un preciso significato: 1799 (la “storia spezzata”), 1860 (spettatori della storia che passa), 1944 (la gente che non vuole morire). Tra queste c’è una trama evidente: il ruolo del popolo, a quello delle élite verrò più avanti. Il popolo che, quando i sanfedesti del cardinale Ruffo circondarono la città, si rivoltò e con atti prolungati di “barbarie inimmaginabili” sterminò la giovane repubblica del 1799; il popolo che il 7 settembre 1860, senza lo spargimento di neanche una goccia di sangue, volse le spalle ai Borbone e si consegnò festosamente a Garibaldi e alla nuova Italia nonché alla combinata piemontesizzazione; il popolo, stremato dai bombardamenti americani, dalla fame, dalle malattie, che nel 1944, dopo un sussulto spontaneo che in quattro giorni cacciò i tedeschi che si accingevano alla deportazione dei suoi uomini mentre gli alleati erano ormai alle porte, tra miserie morali e materiali inenarrabili e con incerta convinzione entrò nella nuova Repubblica.

Ci sono poi le altre Napoli come quelle dei sovrani repubblicani, dal comandante Lauro ai viceré del pentapartito, dal “principe rinascimentale” Bassolino al re dei dieci giorni, il Masaniello De Magistris. Dunque, le avanzate e gli arretramenti, le innovazioni e le conservazioni, in un ciclico rincorrersi della storia di una città che, scrive Macry, ha anche il merito dell’innovazione politica: basti il riferimento all’attualità, all’ascesa dei populismi che qui fecondarono in tempi non sospetti.

Una Napoli che i napoletani, come mamme con i figli, non tollerino che se ne parli male, semmai lo devono fare loro. L’autore, scegliendo fior da fiore con uno spericolato volo nel tempo, ricorda il trattamento riservato al Renato Fucini di “Napoli a occhio nudo” (il Grand Tour),  alla Matilde Serao de “Il ventre di Napoli”, al Curzio Malaparte de “La pelle”, all’Anna Maria Ortese de “Il mare non bagna Napoli” fino al Roberto Saviano di “Gomorra”. Perché Napoli è un’altra, e c’è sempre un’altra Napoli a cui appellarsi per togliere i presunti o reali schizzi di fango che ne deturpano l’immagine. Meglio, par di capire, lasciare che se ne occupino Benedetto Croce o Giuseppe Galasso, Pasquale Villari o Aldo Masullo.

Ma che cos’ è Napoli? Macry, con questa sua “Napoli universale”, paga il suo debito di riconoscenza come mi pare di capire nelle prime pagine e in quelle conclusive nelle quali ricorda il suo impatto, cinquant’anni fa, quando vi giunse da giovane laureato in storia provenendo dalla sua “patria abruzzese”. Universale e “generosa”. Generosa e accogliente come poche altre città. Non riservata e chiusa, senza il riserbo di una cultura forte, e, quindi, mai presuntuosa e ostentata, una sapienza, la sua, debole, dove questo aggettivo sembra fare il paio con quello della cultura forte.

Dunque, “essere napoletani è facile”. Perché Napoli è una città inclusiva, intelligente, paziente, svelta come la sua gente. Ma è così davvero? Forse. A condizione, però, di abituarsi, affidarsi al suo ritmo e alla sua sregolatezza e, alla bisogna, comportarsi come gli altri nella vita pubblica che troppo spesso ha codici diversi da quella privata. Lasciando che, tranne rare e limitate eccezioni, vi sia una corrispondenza al ribasso tra amministrati e amministratori, tra classe dirigente e popolo. E qui vengo alle ultime due righe del libro: «E poi, volendo ci sono le élite. Raffinate e aperte, sebbene talvolta senza parole. Napoletane anche loro». In parte, aggiungo io, ancora incapaci di metabolizzare la “storia spezzata” del 1799, in larga parte comodamente dimentiche della stessa, tante volte acconciate a immagine e somiglianza del popolo con tutti i suoi peccati, spesso partecipi di un banchetto delle pubbliche cose e disinteressate all’interesse generale. Tranne, naturalmente, lodevoli eccezioni che purtroppo non cambiano la storia.

«Non vergognatevi di me»

 

Nei giorni scorsi, ancora scosso dalla diciottesima assoluzione di Antonio Bassolino (diciotto come diciotto sono stati i processi intentati contro di lui in questi anni), mi è arrivato dalla Calabria un libro pubblicato da qualche mese dall’editore Luigi Pellegrini. Me l’ha mandato l’autore, Antonio Chieffallo, che ho conosciuto come collaboratore del “Quotidiano della Calabria” dalla zona di Lamezia. La copertina mi ha immediatamente incuriosito. Titolo: Non vergognatevi di me. E una foto di tre righe scritte a mano: «Non vergognatevi di me – sono innocente! papà». Ho iniziato a leggere e ho smesso quando sono arrivato alla fine. Questo non solo per dire che è ben scritto, ma perché sono entrato dalla porta principale in una tragedia familiare provocata dalla giustizia.

Nel 1993 il “papà” di Antonio, Leopoldo, era assessore regionale calabrese, più noto come sindaco storico (lo è poi stato fino al giugno scorso) di San Mango d’Aquino. Nasce socialista, di quella generazione di uomini potenti in Calabria, capace di strappare uno svincolo della Salerno-Reggio per il suo paese. Fu un personaggio della Prima Repubblica e, nonostante e, chissà, forse anche grazie alla sua assurda vicenda giudiziaria, ha potuto svolgere anche in questi anni funzioni pubbliche ed esercitare un potere reale nella comunità locale e regionale, con collocazioni politiche diverse. Ora è alle prese con un processo per reati tributari che avrebbe commesso da presidente di una società. Sicuramente l’attuale governatore della Calabria, Mario Oliverio, come precedenti governatori, lo tiene presente nella sua trama di governo. Ho riassunto per brevi cenni, per quanto con i rischi di una sintesi estrema, mi auguro non celebrativi né dispregiativi, il suo profilo per sgomberare il campo da un giudizio politico, che non è lo scopo di questo scritto, e lasciarlo libero per il racconto di ciò che gli capitò venticinque anni fa.

Antonio Chieffallo racconta da figlio il dramma del padre e, quindi, il suo e quello della famiglia, in particolare della madre che per i quattro mesi di detenzione del marito visse e non visse. Era il 20 dicembre del 1993, pochi giorni prima delle feste natalizie: «Non avevo sentito nulla. Nessun rumore, nessuna voce, niente di niente. Ma quando scesi in soggiorno, poco dopo le sette, trovai mia madre seduta sul divano con il viso stravolto. “Sono venuti due agenti in borghese, lo hanno portato in segreteria per una perquisizione.”». Antonio, che aveva 23 anni, si avviava a vivere i quattro mesi più brutti della propria vita.

Lo avevano arrestato, il padre, per l’appalto di una strada. Erano i tempi di “Tangentopoli”. Per settimane la famiglia brancolò nel buio, gli avvocati rassicuravano ma i giorni trascorrevano senza novità. Il primo contatto fu un biglietto portato quasi clandestinamente da un agente penitenziario, mosso a pietà, ed è quello riprodotto nella copertina e che dà il titolo al libro. Un capitolo è dedicato a uno “sbirro” che, nel notificare un documento, gironzola per la casa con commenti sarcastici sui tappeti costosi, i mobili di qualità e le altre piacevolezze della casa.

Alla famiglia Chieffallo, va detto, venne risparmiata la gogna pubblica perché, in netta controtendenza con quanto accadeva a quei tempi in situazioni analoghe in altre città, vasta fu la solidarietà della comunità, non solo quella socialista che in quel periodo non se la passava bene ma anche tra la popolazione e gli avversari politici. E pagine toccanti sono quelle in cui Antonio racconta la sua prima uscita, dopo l’arresto, nelle vie fino alla piazza del paese: temeva il peggio, il fastidio o l’indifferenza dei concittadini, il disprezzo e, forse, anche l’odio soddisfatto degli “altri”, ma scoprì che il dramma del padre aveva provocato incredulità e dolore e ne ebbe segni tangibili e confortanti.

Il 4 marzo 1994 Leopoldo tornò a casa. Il 6 maggio 1998 la sentenza: «La Corte assolve Leopoldo Chieffallo perché il fatto non sussiste». Nessuno dei pubblici ministeri che avevano dato avvio all’inchiesta era presente, solo un giovane magistrato, in servizio da pochi mesi, parlò per pochi minuti. Uno degli avvocati dell’imputato, Ernesto d’Ippolito, concluse la sua arringa con queste parole: «Sono anni che faccio questa professione. Ma poche volte mi è capitato di affrontare un processo in cui gli errori si sono ripetuti in un modo così incomprensibile. Ho studiato tutti i documenti, avendo sempre presente la sete di verità di un uomo che mai avrebbe dovuto trovarsi qui… Un uomo che ha subito un’ingiustizia tale da non poter essere sanata da alcuna sentenza di assoluzione. Un uomo che da quattro anni aspetta la restituzione dell’onore e della dignità con le quali ha sempre condotto la sua vita». Anni dopo lo Stato gli ha risarcito 75mila euro.

Ora, c’è da dire che il sindaco di San Mango d’Aquino nella sventura è stato un uomo fortunato, perché ha potuto difendersi con i migliori avvocati sulla piazza e ha avuto la forza di riprendere il suo cammino, ma questa vicenda fa pensare soprattutto alle ingiustizie subite nel silenzio e nella vergogna da chi non ha poteri e potenza, alle storture di un sistema giudiziario lento (a Napoli quattro anni per la prima udienza di un appello) e farraginoso e alle caratteristiche del processo che in fase istruttoria vale già come una condanna per chiunque, per colpevoli e innocenti, specie per questi ultimi se noti perché al pubblico disprezzo contribuisce inevitabilmente (ma non sempre) la mia categoria dei giornalisti, per lo più impotenti a contenere il delirio di onnipotenza di qualche magistrato. Non voglio generalizzare perché mi sono note l’umanità e la professionalità di tanti magistrati che si sono dedicati al delicato e insopprimibile compito di fare giustizia con abnegazione e saggezza e, tanti, fino al sacrificio della propria vita. Ma penso anche alla sofferenza di un amico come Antonio Bassolino che, sempre ribadendo fiducia nella giustizia (io al suo posto qualche parolina la direi a tal proposito), lamenta i dieci anni persi della propria vita. Anni persi anche per il contributo, comunque lo si potesse giudicare, che avrebbe potuto dare alla nostra comunità. La giustizia è un nodo cruciale, il più aggrovigliato del nostro Paese, che non sarà mai effettivamente moderno e giusto se non lo scioglierà con determinazione, concretezza e equilibrio. Una riforma, serve una riforma vera e non condizionata da interessi particolari ma solo dall’interesse generale, una riforma capace di coniugare giustizia e verità, tutela dei diritti e rispetto della dignità delle persone.

Il Gran Capitán e il mistero della madonna nera

Di Consalvo Fernandez di Cordova si è scritto tanto. La sua vita è un’epopea che dalla Spagna attraversa il Mediterraneo e si dipana nelle tormentate terre italiane, soprattutto in quel Meridione che nel lontano Cinquecento è un boccone succulento sulla tavola delle grandi potenze europee. È il tempo della cattolicissima Spagna e dell’Inquisizione che diffonde un acre odore di carne bruciata per mezza Europa, roba che con il senno di poi fa risultare angioletti anche i più feroci giustizieri dell’Isis. Il fatto è che quando si governa e si fanno guerre in nome di Dio il destino dell’uomo prima o poi diventa tragedia collettiva. Anche Consalvo, il grande condottiero, diede il suo contributo facendo arrostire e impalare i mori nel periodo della sua ascesa in Spagna, poi però, quando divenne viceré di Napoli, impedì che l’Inquisizione diffondesse più di tanto i suoi miasmi nelle nostre terre. Evidentemente presentiva che anche la sua amata Carlotta sarebbe finita su un rogo in quel di Seminara, nella profonda Calabria. Consalvo è soprattutto uno stratega militare che introduce nella guerra una tecnica che non solo consentirà alla Spagna di espandere la sua forza in ogni direzione ma che sarà studiata e adottata nel corso dei secoli a venire. Non a caso è a lui e a Cristoforo Colombo, per scenari e caratteristiche differenti, che la Spagna, dagli orizzonti vasti e dalle mire sconfinate, deve il dominio e l’egemonia di cui ancora si sentono tracce – vedi la sua lingua, che dopo il cinese è la più parlata – sul pianeta.

Si è scritto tanto, ripeto, ma mancava il romanzo che ben si attaglia alla sua vita appunto romanzesca. Ora questo libro c’è, ed è probabile che, come è accaduto per “Artemisia Sanchez”, anche questa nuova opera di Santo Gioffrè, “Il Gran Capitán e il mistero della Madonna Nera” (Rubbettino editore), finisca sullo schermo. E, se così sarà, ne potrà venir fuori un colossal alla vecchia maniera. La materia, come si è detto, è storia, storia nostra, europea e mediterranea, meridionale e napoletana, molto calabrese. E il libro, che si legge tutto d’un fiato, è già una perfetta sceneggiatura, precisa e feconda di avvenimenti e personaggi, condita e colorita di amori, sesso, vagine accoglienti e falli imperiosi e instancabili, supplizi atroci e crudamente descritti, tradimenti, campi di battaglia, misteri. Il fatto che anche io sia qui a parlarne credo sia dovuto alla mia recente attività in Calabria, che qui entra dalla porta principale nella grande storia, al mio vivere a Napoli, che compete con la prima nell’animo del Gran Capitán, e al mio essere stabiese, perché in un paio di pagine, con l’artificio di un incontro diplomatico, Gioffrè descrive il “mirabile scenario” di “Castel di bell’aria a Stabia”.   Soprattutto consiglio la seconda edizione che ha depurato e reso più fluido il racconto.

L’io narrante è lui, il Gran Capitán, don Consalvo Fernandez de Cordova, che racconta, con la sua lingua elegante e non fastidiosa benché aulica, al suo contabile Juan Franco la sua avventurosa esistenza che volge al termine. Ne scaturisce, inevitabilmente, una lettura partigiana di sé e degli avvenimenti che lo videro ad un passo dal diventare re di Napoli, compresi quelli che l’avrebbero visto protagonista di speculazioni e malversazioni. Credo che questa sia stata una felice soluzione trovata dall’autore: Gioffrè, nel romanzare una materia così viva e complessa, poteva rischiare di suo direttamente, ma delegando la piena responsabilità al protagonista del romanzo ha potuto dare libero sfogo, nell’ambito di un quadro storico definito e certo, alla fantasia che rende viva e palpitante una grande fase storica.
Viceré di Napoli, Consalvo, lo diventò sull’onda delle battaglie combattute nel nostro paese per conto della Spagna e dei suoi regnanti impegnati a fronteggiare la Francia che, ottimamente organizzata sui campi di battaglia, appariva invincibile. Se ne accorse Consalvo bevendo l’amaro calice della sconfitta in una battaglia che riteneva di aver vinto prima di combatterla. Alle porte di Seminara il suo esercito fu letteralmente annientato dal generale Robert Stuart d’Aubigny. Consalvo, ferito gravemente, vagò lungo il fiume Petrace e  si salvò per l’intervento di Carlotta, una bellissima calabrese, molto più giovane di lui, che aprì a lui il cuore e tutti i pertugi del suo bollente corpo e nel cui letto tornò innumerevoli volte per tutto il tempo che restò in Italia e fino alla morte tremenda, che lei e i suoi figli trovarono per la vendetta dei Baroni umiliati e spodestati dal Gran Capitán.
Gioffrè introduce un motivo che diventa titolo e trama sottile e profonda del romanzo. La Madonna Nera, meglio nota come la Madonna dei Poveri, che si trova nella basilica di Seminara a lei dedicata. Nella fantastica narrazione di Gioffrè, alla quale rimando affinché resti integro il piacere della scoperta, è lei, questa Madonna, che insieme al figlio avrà il volto scuro per volontà dello stesso Consalvo, che in essa aveva visto la madonna Nera di Montserrat, che ispira e guida le scelte del grande condottiero, che tale diventa dopo aver studiato i motivi della sua sconfitta militare nello scontro con il generale francese.

Rinato grazie alle cure e alle amorevoli prestazioni di Carlotta, Consalvo riflette sui motivi della cocente sconfitta ed elabora una tecnica militare, il cosiddetto tercio spagnolo che si rifaceva alla legione romana, che attuerà da quel momento in poi sui campi di battaglia, passando di vittoria in vittoria, fino alla sconfitta a Cerignola e sul Garigliano del generale francese che l’aveva umiliato a Seminara. Scrive Giuseppe Galasso: «Per Napoli quella guerra significò la conferma dell’ incapacità del Regno di resistere alle offese esterne. Era stato così nel 1266, nel 1442, nel 1494; sarebbe stato così nel 1707, nel 1734, nel 1799, nel 1806, nel 1821, nel 1860: una serie impressionante di cedimenti che dovrebbe dare molta materia di riflessione agli allegri revisionisti della storia italiana. Significò anche l’inizio del legame napoletano con la Spagna, durato per duecento anni: un terzo dell’ intera esistenza del Regno tra l’avvento degli Angioini e la caduta dei Borboni».

Il 16 maggio 1503 Consalvo entrò in una Napoli acclamante, preceduto dall’accordo con i rappresentanti della città. Fu viceré e fece molto sentire la sua mano nel governo del regno, soprattutto ai Baroni che lo tenevano sotto torchio e senza speranza. Ma il suo cruccio fu di non diventare re. Lo poteva diventare, ma non accadde sia per le grandi manovre di «monarchi insolenti – fa dire Gioffrè a Consalvo –  che erano sicuri che il proprio io corrispondesse a Dio» e che si giocavano con cinica spregiudicatezza i destini del mondo conosciuto a quel tempo come una partita a scacchi tra un letto e un convivio, sia per i tradimenti e le congiure dei Baroni che così consumarono la loro vendetta. Consalvo rimane «a guardare quelle teste coronate ed a pensare quanto inutile fosse stata l’immensa strage di Cavalieri e Fanti, in tutti i campi di battaglia», e li bolla pensando «ai miei soldati morti e mangiati dai cani perché…(quelle teste coronate) potessero dirsi Re, senza che mai avessero annusato l’odor del sangue, impastato con la terra, sotto cumuli di cadaveri».

Il legame tra Consalvo e Napoli fu molto saldo, come testimoniò la folla che lo accompagnò al porto per salutarne la partenza e il ritorno in Spagna. Machiavelli parla esplicitamente di ingratitudine quando scrive: «Ne’ nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel regno di Napoli contro a’ Franciosi, per Ferrando re di Ragona, conquistassi e vincessi quel regno; e come, per premio di vittoria, ne riportò che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto a Napoli, in prima gli levò la ubbidienza delle genti d’armi, dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco in Spagna; dove poco tempo poi inonorato, morì».

E forse è questa ingratitudine che spinge Gioffrè a ritenere che il ritorno in Spagna del Gran Capitán, a cui fu costretto per non ostacolare i giochi delle grandi monarchie europee, segnò la fine di un sogno, se si può dire, di autonomia del Meridione. Tesi ardita, ma da lui motivata soprattutto con il legame fatto di carne e di fede che Consalvo stabilì con il Sud e soprattutto con la Calabria. E qui, più che la Madonna Nera, una delle tante sparse nella regione, in Italia, in Europa e nel mondo, è Carlotta la straordinaria protagonista del romanzo. Lei è dominatrice e pecora, un corpo accogliente e sempre pronto, ma anche colta e avveduta, fidata. E da lei il condottiero prende amore, sesso, intelligenza, consigli. Ed è lei che viene punita, con una vendetta trasversale feroce, per colpire lui. Una metafora, probabilmente, che tiene Santo Gioffré saldamente ancorato alla sua città natale, Seminara, e al suo presente, una ricerca non a caso chiusa alla maniera di Proust, sebbene Consalvo non ritrovò il suo tempo e continuò, come dice, la sua navigazione «tra un tempo sparito ed un altro smarrito…».

Da Voltaire a Baudelaire tra vampiri e jettatori

«Non si sentiva parlare che di vampiri fra il 1730 e il 1735: se ne scopriva dappertutto, gli si tendevano agguati, gli si strappava il cuore, li si bruciava. Qualcosa di simile a quanto era capitato agli antichi martiri cristiani. Più se ne bruciavano e più se ne trovavano. Si ebbe la prova che i morti mangiano e bevono. La difficoltà era se a nutrirsi era l’anima o il corpo. Fu deciso che erano tutti e due: le vivande delicate e poco sostanziose, come meringhe, panna montata e frutti canditi, andavano all’anima; il roast-beef al corpo. Mentre i vampiri menavano la bella vita in Polonia, in Ungheria, nella Slesia, nella Moravia, in Austria e nella Lorena, non si avevano notizie di vampiri nelle città di Londra e di Parigi. Debbo ammettere che in queste due città ci fossero speculatori, strozzini e altri affaristi che succhiavano il sangue del popolo, e in pieno giorno, ma non erano certo morti, benché indubbiamente corrotti. Le vere sanguisughe non abitavano nei cimiteri, ma in palazzi assai confortevoli».

Così parlò Voltaire quasi tre secoli fa ironizzando sulle teorie del filosofo Dom Calmet che nei vampiri trovava “una prova irrefutabile della resurrezione”. Si deve pensare che i vampiri non siano mai morti – del resto per natura sono morti-non morti, morti-vivi – se i loro gemelli, gli zombie, per quanto teatralmente acconciati, sabato prossimo sfileranno in via Toledo.

Gioirà Vito Teti che ha appena ripubblicato, con sostanziosi ampliamenti, aggiornamenti e note a piè di pagina che di fatto costituiscono un secondo volume, il suo libro “Il vampiro e e la melanconia” (Donzelli Editore, pagg. 382, euro 34). Libro attuale se è vero che l’epidemia settecentesca produce ancora i suoi frutti, non ha mai cessato di farlo come documenta la sua puntuale e vasta ricognizione delle forme e dei caratteri che, dalla letteratura al cinema, dalla psicologia all’antropologia, dal teatro e ora alle “maschere” napoletane, raccontano un fenomeno che accompagna il rapporto dell’uomo con la morte e con la vita nonostante le differenze di cui le più vistose: i vampiri si nutrono di sangue e gli zombie di carne umana, i vampiri sono eleganti  e perversamente belli e gli zombie orrendi e mostruosi.

A Teti, autorevole antropologo di una scuola che nel Mezzogiorno ha annoverato Ernesto de Martino, Alfonso Mario Di Nola e Luigi Lombardi Satriani, interessa ricostruire il rapporto, richiamato nel titolo, tra il vampiro e la melanconia, perché «il vampiro è mutevole, cangiante, errante, ambiguo e dovunque si trasferisca, dovunque si nasconda, si presenta con un’insopprimibile melanconia». Scrive Baudelaire: «Sono del mio cuore il vampiro,/ – uno di quei grandi derelitti/ condannati all’eterno riso/ e che non possono più sorridere!». «È – chiarisce Teti – la melanconia dell’individuo che si avverte condannato a una “non morte” e a una “non vita”, di chi non può vivere una “vita normale” e di chi non può morire una “morte normale”, di chi deve vegliarementre gli altri riposano».

Irrazionale, inconscio, magia, potenze nascoste in una città “patria dello spirito” come Napoli, dove trovi più fantasmi che vampiri, la melanconia può assumere il volto dello jettatore. Teti torna indietro nel tempo, a un’opera del 1857 che «narra la potenza distruttrice ed eversiva dello sguardo»: “Jettatura” di Théophile Gautier. Nel celebre racconto di Paul, giunto a Napoli dall’Inghilterra per incontrare la fidanzata Alicia e accompagnato da una fama di jettatore che troverà tragiche conferme, lo scrittore ci dice che «erano soprattutto straordinari i suoi occhi… Allor che non erano particolarmente fissi su qualcosa, appariva in essi una vaga malinconia, una tenerezza languente in un’umida luce; se si fissavano su qualche persona o su qualche oggetto, le sopracciglia si ravvicinavano, si contraevano, scavando una ruga perpendicolare sulla fronte; le pupille grigie diventavano verdi, si picchiettavano di punti neri, si striavano di fibbrille gialle; lo sguardo diventava acuto, quasi micidiale…».

E Napoli torna come “luogo di esotismo e magia” in “Varney il vampiro, ovvero il festino di sangue”, di Preskett Prest e J. M. Rymer nel quale il melanconico Varney anticipa la disperazione di celebri vampiri della letteratura contemporanea e del cinema (si pensi al “Nosferatu” di Herzog) quando per porre fine alla sua drammatica condizione, «stanco e disgustato da una vita di orrore», decise di distruggersi gettandosi “nella bocca infuocata” del Vesuvio evocando le pratiche delle aeree europee dell’epidemia vampirica, il fuoco purificatore quando non bastavano il paletto conficcato nel petto, la croce e l’aglio. Teti ci ricorda che i morti ci parlano sempre. Come i luoghi, anche quando – e qui la sua calabresità è evidente – sono vuoti come i paesini deserti delle montagne appeniniche: continuano a vivere se solo noi ci prestiamo ad ascoltarli.

Occhio e malocchio, ci sarà ancora spazio per la materia nella città del Totò jettatore: tra tre mesi all’ex base Nato di Bagnoli si terrà il ”Napoli Horror Festival”. Il precedente, nell’agosto 1985 a Padova, ebbe grande successo, in particolare la “festa horror” che gli organizzatori definirono “un carnevale col diavolo”.

Ma dove e chi è oggi il diavolo? Ecumenicamente, dopo aver rievocato “i fiumi di sangue” che, nel nome della giustizia, i dittatori hanno sparso in Russia e nel mondo, Amos Oz si chiede: «Certo, Wall Street è un vampiro che ciuccia il sangue del mondo, e allora? Con il sangue versato nessuno ha mai cacciato via i vampiri, anzi li ingrassi, li nutri con altro sangue innocente!».