Restanza, il coraggio di chi rimane

Scruta il mondo da San Nicola da Crissa da quando è nato settantadue anni fa: «Vivo nella casa in cui sono nato, l’unica che possiedo grazie a mio padre che è stato più bravo di me a ipotecare il futuro… dormo nella stanza in cui sono nato e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore… Le strade sono vacanti, assenti i rumori… Il paese che ho visto pieno adesso è vuoto. I compagni che partivano pensando a un ritorno poi non sono più tornati… Il luogo che volevo cambiare mi ha, forse, cambiato. L’esilio non l’ho scelto io, mi è arrivato a casa».

Poco più di un migliaio di abitanti, il piccolo paese è nel cuore della Calabria, sulle Serre Vibonesi, quasi a metà strada tra la tirrenica Vibo Valentia e la ionica Soverato. L’antropologia di Vito Teti nasce lì, nella stradina in cui è nata la sua famiglia poi disgregata dall’emigrazione con il padre andato in Canada e cementata da una madre, come nella tradizione di quella terra, forte e dolce, rigorosa e protettiva. San Nicola da Crissa diventa così l’ombelico del mondo, dove tutto e nulla cambia, da dove fare i conti con la cultura, i grandi “viaggiatori”, gli antropologi, gli umili, gli scrittori a partire da Corrado Alvaro, il più grande, del cui lascito culturale diventa il tutore. Intanto insegna, scrive, partecipa agli incontri da un capo all’altro della sua regione, del paese, del mondo, e giorno dopo giorno non molla la presa sui temi che dominano il suo orizzonte vasto per quanto scrutato dal finestrone del suo studio. E apprende rapidamente, senza allontanarsi da casa, che la storia entra dappertutto senza bussare: glielo ricordano la teca conservata nel municipio con un’aorta di Carlo Poerio e il Risorgimento che ritorna in primo piano con la storia di amore e di modernità del patriota Antonio Garcèa (rinchiuso più volte in carcere per la sua lotta contro i Borbone) e Giovanna Bertòla, giovane maestra piemontese e femminista ante litteram con il suo giornale «La voce delle donne».

Ecco, non si capirebbe Vito Teti, il maggiore intellettuale della Calabria, cresciuto alla scuola di Luigi Lombardi Satriani scomparso in questi giorni, se lo si estrapolasse da questo mondo di cui è diventato voce, interprete e protagonista. Ma poi si legge il suo ultimo libro, “La restanza” (Einaudi, pagine 160, euro 13) e si mette in fila, in una sintesi prodigiosa e stupefacente, il lavoro intenso di una vita, la vita stessa. Appena di qualche mese precedente la pubblicazione per i tipi di Rubbettino di “Homeland”, un grande volume fotografico (anche immagini di Salvatore Piermarini), quasi cinquecento pagine sulla “Little Italy” di Toronto dove nel ‘900 gran parte di San Nicola da Crissa si trasferisce, ricreando altrove la comunità, la nuova patria: «Mi sento “mio padre” – scrive – e penso a quanto sia stupefacente dover compiere un viaggio oltreoceano per tentare di ricomporre frammenti di un’identità spezzata, per potermi riconoscere meglio».

La restanza, dunque, è l’approdo di chi ha dedicato studi e ricerche ai luoghi e al loro senso, la restanza come un altro modo di viaggiare. Perché, ha scritto Mario La Cava, «non è necessario lasciare la propria terra per affermare il valore della propria creatività. In fondo chi decide di viaggiare, il mondo può solo guardarlo, mentre chi mette radici può capire di più il significato della realtà che lo circonda, può interpretarlo. Sono le idee che devono viaggiare, più delle gambe degli uomini».

In realtà gli uomini viaggiano per tanti motivi e, quando il viaggio diventa abbandono dei luoghi natii diventati troppo periferici e scarsamente serviti, la desertificazione dei piccoli centri diventa inevitabile. Gli emigranti, per esempio, partivano perseguendo “inconsapevoli strategie di non ritorno”. Cosicché a loro, “uomini senza donne” che hanno popolato le mille città del mondo, hanno dato un senso le “donne senza uomini” rimaste nei paesi e nelle campagne. L’emorragia, per motivi diversi e via via sempre più rapportati non solo al bisogno primario del lavoro ma anche ai modelli di vita della modernità, ha svuotato i piccoli centri di persone, di relazioni, di senso.

E quando il processo è quasi arrivato a un punto di non ritorno e mentre sul nostro percorso incombono i grandi mali del pianeta, ecco che si avvia un viaggio all’incontrario, non affollatissimo come quello della fuga ma significativo, di un bisogno di ritorno che sembra fondarsi sul sentimento della nostalgia.

Teti si e ci pone domande “fecondamente inquiete”: «Forse la nostalgia è davvero la natura dell’uomo che è condannato ad essa sia quando parte sia quando resta… perché l’uomo è un animale nostalgico sia che viaggi sia che resti fermo? Non sarà la nostalgia la condizione naturale e culturale del “sapiens”?». Pavese ci ricorda che “un paese ci vuole”, ma Teti avverte che “al paese non si torna”. E se prevalesse la “nostalgia restaurativa in cerca di un passato esemplare e ripulito da ogni contraddizione,” si seppellirebbe “quel poco che, del paese, resta”. E allora? «Se la nostalgia diventa una strategia per inventare il paese, se lo stesso ritorno è il paese da inventare, allora quel che resta è un universo mobile. Dinamico, che può essere riscritto nella sua feconda inquietudine “mitica”. Serve ascoltarlo. Riguardarlo, prendersene cura, nominarlo».

Restare oggi presuppone che i paesi possano diventare “luogo di un possibile futuro” a condizione che siano pensati in maniera nuova, che si affermino diversi modelli di sviluppo, mutamenti di stile di vita, usi adeguati delle risorse, un rinnovato rispetto del territorio. «Non si prospetta – avverte l’antropologo – un improponibile ritorno al passato mitizzato del paese, ma si esprime la consapevolezza che le zone interne hanno un enorme capitale di risorse ambientali, paesaggistiche, culturali. Il paese potrebbe ripresentarsi come un corpo aperto, dinamico, capace di accogliere, meta per chi cerca “altro” quando la metropoli degenera in un’omologante monotonia».

Restare, partire, tornare, viaggiare. E forse con tutti i viaggi e i ritorni che compiamo, non si fa altro che restare. Con Teti lasciamo la parola a Giorgio Caproni: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato un restare / qua, dove non fui mai».

*Recensione pubblicata su foglieviaggi.com il 10 giugno 2022

https://www.foglieviaggi.com/_/pagine/mother/rubriche/recensioni/articoli/012_recensione_restanza_10_06_2022.html

«L’estasi di Chiara» passa anche per la Campania

Che la scelta del ricco Francesco di spogliarsi di tutti i beni e le vesti e vivere da povero al servizio dei poveri fosse clamorosa, quella dell’agiata Chiara di seguirne le orme fu a dir poco rivoluzionaria. Tanto da interrogarci ancora sulla genesi di quella rottura per quel tempo assolutamente incomprensibile ai più e intollerabile per la sua più che benestante famiglia, che visse un trauma sicuramente più doloroso e insopportabile della famiglia di Francesco esattamente per il fatto che la protagonista di tanto sconquasso fosse una donna. «Una donna che ha anticipato i tempi… la grandezza del gesto vale sia per l’uomo che per la donna… sull’esempio di Francesco ha dimostrato che la stessa strada, tra l’incredulità generale, poteva essere percorsa anche da una donna». Indipendenza, autonomia, emancipazione rivendicate con scelte difficili e sacrifici immensi di fronte a una società rigida e a famiglie possessive.

Dunque, ci si interroga e lo si farà chissà per quanto ancora, mentre quei luoghi, Assisi, Spoleto, le terre umbre, grazie ai due santi e al loro messaggio sempre vivo, sono diventati simbolo di dialogo, unione, fraternità, solidarietà, pace e quest’anno, con una guerra nel cuore d’Europa, ancora di più. E, dopo tanta letteratura e cinema, lo fa con un romanzo Raffaele Bussi, “L’estasi di Chiara” (Marcianum Press, pagine 160, euro 16), che in un gioco di rimandi, quasi una matrioska che, una dentro l’altra, svela tante storie e luoghi, da una panchina del lungomare stabiese al chiostro napoletano di Santa Chiara alla chiesa di San Damiano di Assisi. Uno sforzo ardito, non temerario però, sollecitato dal desiderio di capire, ancora dopo otto secoli, se ci sia «qualcosa di misterioso nella scelta della figlia di Favarone».

Quando lei «ha sei anni, vede Francesco, che ne ha diciotto, in tutto il suo fascino giovanile”. Lo amerà? Di sicuro la scelta di vita di Francesco non potrà non illuminare l’itinerario della ragazza che sarà una delle grandi sante, tra le più amate della storia di sempre. La tesi, non nuova, attorno a cui ruota il libro è che quando Chiara capisce che il suo sentimento non potrà mai essere quello che potrebbe intercorrere tra un uomo e una donna, “pur di non perderlo” decide di seguirlo sulla strada tracciata dal Vangelo. «Proprio per questo quella tra Chiara e Francesco – sostiene Bussi – è la più grande storia d’amore di tutti i tempi», una storia che mescola canoni di modernità sorprendenti e che non finirà mai di affascinare credenti e non.

*Recensione pubblicata il 7 giugno 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

Speranza e coraggio civile nella regione dei diavoli

Sull’Aspromonte sono andato più volte salendo dalla piana di Gioia Tauro, dalla Locride, da Reggio Calabria. E sempre sull’animo insisteva inconsapevolmente la sensazione di avvicinarmi a una terra difficile e insidiosa. Talvolta quasi sorpreso, sempre irrazionalmente, di non essere incorso in un pericolo, in un incidente, in brutti incontri. E mentre dietro di me scompariva l’immagine del mare, di uno dei tanti mari su cui la montagna precipita imperiosamente o dolcemente, rimanevo affascinato e intimorito quando all’improvviso il mezzogiorno diventava mezzanotte e un tetto altissimo di rami e foglie non si lasciava attraversare neanche da un filo di luce.
Mi ci ha fatto pensare Simona, la protagonista in forma di io narrante di “Terra santissima” (Laruffa editore, pagine 178, euro 16), un romanzo di Giusi Staropoli Calafati. Lei è una giovane calabrese emigrata con i genitori a Milano e fa la giornalista. Il direttore la manda nella sua terra natia, appunto l’Aspromonte, con il compito di fare un affresco, come è d’uopo, a tinte fosche di quella terra maledetta notoriamente abitata da diavoli e per antonomasia sotto il tallone della ‘ndrangheta. Lei in verità ha ben altre intenzioni perché ha pochi ma indelebili ricordi della primissima infanzia, addirittura cerca, e lo trova pure, un sacchettino di nocciole nascoste in una fessura della casa quando partì per il Nord.
Incontra anche l’amore, un pastore che vive nella sua “casella” in solitudine. Lei si inoltra nella montagna aspra e oscura, bella e inquietante, si sofferma affascinata davanti al macigno di Pietra Cappa, un monolite alto centoquaranta metri circondato da una foresta che ancora lascia intuire i lamenti dei sequestrati, mentre rimbombano l’ululato dei lupi e il calpestio dei pastori e delle loro capre. Il suo è lo sguardo dell’innamorata che vede bellezza in ogni angolo e non riesce a trattenere la rabbia per come viene rappresentato quel luogo e per estensione la regione che lo contiene, la Calabria.
Il suo reportage, pubblicato senza che sia stato letto dal direttore, la fa licenziare su due piedi. Ma tempo dopo torna giù come inviata di un altro giornale. E questa volta il viaggio non è più a mezza strada tra la nostalgia, che rischia di falsare la realtà, e il lavoro giornalistico. Ritrova anche il suo uomo ma via via scopre che nel frattempo non ha retto alle lusinghe e, poi, alle “proposte che non si possono rifiutare” del capo locale della ‘ndrangheta ed ormai è finito, con soddisfazione, nel meccanismo infernale. Il racconto è denso e pieno di colpi di scena, gli articoli che vengono pubblicati lo sono anch’essi e, naturalmente, sono apprezzati dal giornale. In questa terra raccontata, senza blandizie, da Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava, Francesco Perri, lei vuole cocciutamente muoversi nella loro scia, che poi è il messaggio che l’autrice vuole lanciare con il suo romanzo che, quasi con una frattura, si conclude trasformandosi in un manifesto per il riscatto “culturale” di quella regione.
Appena qualche mese fa ho letto un altro libro, questa volta non di fantasia, sul profondo Sud della Calabria nella sua versione più drammatica e al tempo stesso coraggiosa. Il protagonista fu, tra l’altro, la mia guida in più di un attraversamento dell’Aspromonte. Si tratta di un libro-intervista scritto da Gabriella D’Atri, “La ribellione di Michele Albanese” (Castelvecchi editore, pagine 97, euro 13,50). Albanese vive dal 2014 sotto scorta. Corrispondente del “Quotidiano della Calabria” dalla Piana di Gioia Tauro, cronista puntuale di ogni fatto di quell’area martoriata, non solo di violenze e uccisioni, di politica e del porto. Nel suo cursus honorum l’articolo con il quale raccontò l’inchino della statua della Madonna davanti alla casa del capo della ‘ndrangheta a Oppido Mamertina che gli fece guadagnare l’odio del prete, della gente e naturalmente della ‘ndrangheta.Un giorno, poco prima di mezzogiorno, si trovava a Sinopoli nella Piana per raccogliere le notizie di un omicidio. Aveva appena disegnato la sagoma del cadavere tratteggiando anche i fori dei proiettili quando ricevette una telefonata dalla polizia che lo “invitava” a farsi accompagnare alla Questura di Reggio Calabria. Lui pensava di rinviare al giorno dopo ma l’invito divenne ordine e così scoprì che la ‘ndrangheta aveva deciso di ammazzarlo, si erano già procurati il tritolo per farlo saltare in aria. Le notizie, fresche di qualche ora, venivano da una cimice posta sull’auto di due ‘ndranghetisti sicuri di non essere intercettati: “U vogghju mortu. Forsi non capisciu cu cui si misi… Nc’è tritolu ammuncciatu nt ana cascina non tantu luntanu i ca’. Usamu chidu. Vogghiu nu lavuru pulitu. A bum andavi e siri mentuta sutta a macchina, sutta u latu da guida. Non avi aviri scampu du ‘mpamu. Apoi cu nu radiucumandu…buum”.
Michele pensò che stava accadendo ciò che temeva da anni, sicuramente da quando sua figlia appena uscita dalla scuola elementare gli chiese: «Papà, che significa ‘mpamu? Sai, un mio compagno di classe mi ha detto che non vuole giocare con me perché sono figlia di ‘mpamu». Tramortito, aveva risposto: «’Mpamu in dialetto calabrese vuol dire infame».
Da otto anni la sua vita è cambiata, quasi una prigione in cui, però, non è stato mai sfiorato dall’idea di un cedimento, di una resa tant’è che ha continuato, nelle condizioni che si possono immaginare, a fare il giornalista e a scrivere di quella zona e di tutto, fatti di ‘ndrangheta compresi.
Eroe suo malgrado, Michele è più precisamente, come dal titolo del libro, un ribelle civile che non ha pentimenti, ripete che farebbe esattamente le stesse cose che continua a fare e che lo hanno portato alla condanna a morte. Ci riesce anche perché la famiglia gli si è stretta ancor di più accanto e patisce le stesse sue restrizioni e paure.
Un’altra Calabria? Non esattamente. Quando mi accompagnava sull’Aspromonte aveva gli occhi lucidi per la gioia di raccontare la sua terra che conosce a menadito, non nascondendone i pericoli e le ingiustizie ma al tempo stesso vantandone pregi e potenzialità. Stavamo per arrivare a Polsi, mi avvertì: “Ora vedrai un altro mondo, scenderemo e in basso, proprio alla punta di un cono rovesciato, vedrai l’inferno e il paradiso”. Arrivammo a piedi fino al Santuario dove fede e mistero convivevano e un’umanità variegata si muoveva come un fiume in un solco tracciato. Il prete ci accolse e pranzammo con le nostre mogli (un’eccezione riservata a lui) nel refettorio con pasta con sugo di capra e capra. Dopo, su una panca, uno strano signore di una certa età, che subito vantò sue strane esperienze napoletane, ci fece dolcemente un terzo grado mentre i fedeli in fila entravano per inchinarsi davanti alla Madonna. Non saprei dire ma quello mi sembrò un sito che non poteva trovarsi altrove se non in quella vasta montagna.
Il romanzo e la realtà, la Calabria raccontata di Simona e quella vissuta di Michele. Il romanzo che diventa un manifesto: la cultura ci salverà; la vita che ci ammonisce: non mi arrendo. La prima è un auspicio, la seconda è sofferenza, dolore, impegno. Il pastore nella solitudine della sua “casella” non trova la forza di resistere e precipita nel vortice criminale, il giornalista che si è formato nel mondo del volontariato cattolico dice no e sacrifica la vita sua e dei suoi cari, ma lui e loro non mollano. E non è letteratura.

  • Articolo pubblicato su fogli&viaggi.com

La vita di Mancini, le spine e il fiore

Prima o poi Paride Leporace avrebbe dovuto scrivere un libro su Giacomo Mancini. Ha colto l’occasione dei vent’anni dalla morte per consegnarci questo “Giacomo Mancini, un avvocato del sud” (Luigi Pellegrini editore, pag. 110, euro 13). Perché “prima o poi”? Per tanti motivi che attengono alla sua direi filiale frequentazione e collaborazione con Mancini, all’interesse per il politico calabrese più celebre di un’abbondante metà del secolo scorso (non si adontino gli estimatori di altri, per esempio Riccardo Misasi), al suo essere calato non solo per natali nella regione e soprattutto a Cosenza, ma anche per il cognome. Ci ho pensato spesso da quando ho frequentato assiduamente la Calabria ricordando che Mancini mi disse nel mio libro-intervista un passaggio decisivo della sua biografia, vale a dire l’arrivo a Roma dopo l’8 settembre a conclusione di un lungo pellegrinaggio tra università di Torino e servizio militare nell’Aeronautica fino all’aeroporto militare di Novi Ligure: «Il mio primo incontro con l’antifascismo romano – mi raccontò – avvenne in un appartamento di Largo Argentina, occupato da Craveri, dove arrivai la prima volta con un mio caro amico cosentino, oggi affermato avvocato a Cosenza, Mauro Leporace, anche lui ex-ufficiale di commissariato aeronautico, simpatizzante del partito d’azione». Questi era lo zio di Paride.

Ciò detto, mi chiedo se ci fosse bisogno di un altro libro dopo quelli di Orazio Barresi (non amato da Mancini), di Enzo Paolini e Francesco Kostner sulle sue travagliate vicende giudiziarie, del figlio Pietro Mancini, soprattutto la puntuale biografia politica di Antonio Landolfi che con Mancini aveva avuto un legame amicale e politico ininterrotto, e senza voler ricordare ancora il mio? La risposta me la sono data alla fine della lettura, che è filata liscia in un sol colpo dall’inizio alla fine: merito del mestiere, della conoscenza e anche del taglio. Per quanto Leporace abbia seguito il filo del tempo la sua non è una biografia, piuttosto un ragionamento sul Sud come chiarisce il titolo dove per “avvocato del sud” sembra riferirsi a prima vista, grazie anche alla prima lettera minuscola, letteralmente a un avvocato delle nostre terre, e del resto Mancini non solo si era laureato in giurisprudenza a Torino con Florian, giurista di fama, ma esercitò anche la professione difendendo la parte civile per i fatti di Portella delle Ginestre. In realtà la definizione ha un valore più pregnante che vuole il Sud non solo come un’entità territoriale.

Va anche ricordato che nella vita ricca e tumultuosa di Mancini potrebbe risultare azzardato localizzare il suo impegno perché si trascurerebbero periodi ed eventi rilevanti quali le attività di ministro (si pensi solo alla vaccinazione antipolio, alla legge urbanistica, all’impegno dopo la frana di Agrigento, alle grandi opere dei lavori pubblici), di partito (segretario del Psi con annessi e connessi), di vigile guardia a difesa dei diritti civili e contro le deviazioni (il ruolo dei Servizi, il Sifar, gli ermellini), la navigazione perigliosa nei paraggi del terrorismo, ma la cifra è che la difesa del Sud maiuscolo è stata sangue e vene del suo lunghissimo itinerario pubblico.

Leporace mette a fuoco in maniera intrigante i periodi essenziali, scegliendo fior da fiore, e, pur in un contesto comprensibilmente partigiano, con parole e aggettivi fulminanti non elude aspetti criticati del politico, come, tra tutti, il suo ruolo nella tragica e cruciale vicenda della rivolta di Reggio o il rapporto tra consenso e voti che nel Mezzogiorno ha fatto non pochi guai o ancora l’aver privilegiato figli e nipoti e non aver lasciato eredi politici. Ma alla fine il bilancio non è in rosso. L’autostrada, l’università di Arcavacata, il porto di Gioia Tauro per quanto sorto sull’aborto del Quinto Centro Siderurgico e sulla distruzione abominevole di un patrimonio ambientale e produttivo di prima grandezza, sono titoli che resteranno nel tempo.

Il finale del libro e anche della vita di Mancini, un “socialista inquieto”, è fatto di spine e di un fiore. La spina politica che lo turberà nel profondo è l’emarginazione nel partito, il parricidio da parte di Craxi che al Midas proprio lui aveva portato al vertice e che fu ripagato con una clamorosa deposizione al tribunale di Milano in un processo di Mani Pulite. L’altra, dolorosissima ferita, fu quella che avvelenò i suoi ultimi anni quando dovette difendersi dall’accusa velenosa e vergognosa di contiguità con la ‘ndrangheta. La rosa – la capacità di politico di razza che risorge dalle ceneri ad ogni caduta – fu la totale, piena e definitiva riconciliazione con la sua Cosenza. Sindaco amato e venerato, ha lasciato i segni indelebili di una visione riformistica nell’amministrazione, nella cultura, nelle opere, nella promozione coraggiosa di uomini e donne anche scomodi. Leporace si commiata con un’immagine forte dei funerali in cui si evocano e rimpiangono i simboli di una tradizione politica unica, dai proletari del “Quarto Stato” al feretro accompagnato dalle bandiere rosse, e chiude con due righe dolenti: «…quel socialismo umano e garantista di cui in forme moderne sentiamo ancora il desiderio e il bisogno». Quella sua statua appena installata davanti al Palazzo dei Bruzi sta lì a ricordarcelo.

* Articolo pubblicato sul Quotidiano del Sud il 7 maggio 2022

 

Michele Albanese il ribelle

«Papà, che significa ‘mpamu? Sai, un mio compagno di classe mi ha detto che non vuole giocare con me perché sono figlia di ‘mpamu». Tramortito, rispose alla figlia che era appena uscita dalla scuola elementare: «’Mpamu in dialetto calabrese vuol dire infame». Vai poi a spiegare a una bambina che il papà, che è un giornalista, per il suo lavoro viene considerato un amico degli sbirri, quindi un infame. Ma il colpo allo stomaco fu forte perché evidentemente nella famiglia del compagno di classe si parlava di lui e del suo lavoro, e si poteva pensare che fosse una famiglia ‘ndranghetista ma in caso contrario non sarebbe stato meno grave perché si sarebbe trattato di un’evidente manifestazione di subcultura mafiosa. E non potette, il padre, non pensare alla sua infanzia, di quando all’età di sette anni fu testimone di un delitto: «Allora ho conosciuto l’orrore del sangue e il fuoco delle armi». Lui è Michele Albanese, giornalista del “Quotidiano della Calabria”, cronista che da sette anni vive sotto scorta perché, solo per un pelo, non saltò in aria con la sua macchina. La sua storia è ora raccontata da Gabriella D’Atri in un libro (La ribellione di Michele Albanese, Castelvecchi editore, pagine 97, euro 13,50) che è consigliato a chi vuol capire, al di là dei luoghi comuni, che cosa è la Calabria.

17 luglio 2014. Prima di mezzogiorno Albanese si trova a Sinopoli, nella Piana di Gioia Tauro, per prendere le notizie di un omicidio, ha appena disegnato la sagoma del cadavere tratteggiando anche i fori dei proiettili sul corpo quando riceve una telefonata: deve essere condotto urgentemente alla Questura di Reggio Calabria. Da Sinopoli a Reggio pensa alle più svariate ipotesi, anche quella “di essere arrestato”, ma non immagina che da quel momento la vita sua e della sua famiglia sarebbe cambiata per sempre. «Lei è in pericolo. Il piano per ucciderla era pronto. Si erano già procurati l’esplosivo. L’intercettazione è chiarissima. Inequivocabile». Poche ore prima i due ‘ndranghetisti parlavano al telefono, certi di non essere ascoltati perché erano andati in zone senza campo, ma non sapevano di essere intercettati da una microspia di ultima generazione sistemata sull’auto. «U vogghiu mortu”, poi prendono accordi per un “lavuru pulitu”, il tritolo da mettere sotto la vettura “sutta u latu da guida” e poi “nu radiucumandu… buum”.

Dava fastidio, Michele Albanese, perché ogni giorno i suoi articoli erano strali che si conficcavano nel corpo della ‘ndrangheta: non cronaca arida, ma relazione tra fatti, uomini e cose, analisi delle strategie, un lavoro giornalistico completo, a tutto campo, dalla cronaca nera alla giudiziaria, dalla politica all’economia, che goccia dopo goccia aveva riempito il vaso di chi, non solo la ‘ndrangheta, riteneva intoccabile il suo potere. Ricorda il metodo di Giancarlo Siani che, se ai suoi tempi ci fossero stati gli strumenti di oggi, probabilmente non sarebbe diventato un martire. Cattolico militante dall’infanzia, conosce vita e miracoli della sua terra. Quando raccontò l’inchino della processione del santo davanti alla casa del capo della ‘ndrangheta locale si guadagnò l’odio del prete e della gente, ma poi la chiesa di papa Francesco cambiò le regole e gli inchini sono finiti. Dice Federico Cafiero De Raho, procuratore capo di Reggio Calabria che dispose la scorta: «Aveva dato parecchio filo da torcere, e chi conosce Michele Albanese sa che nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo».

È cambiata la sua vita ma non il mestiere. In condizioni ben più complicate fa il suo lavoro dalla Piana. «Quello che ho sempre più apprezzato in Michele Albanese – scrive don Luigi Ciotti – è aver fatto dell’impegno a testimoniare la verità una scelta non solo professionale ma di vita». Ed è forse ciò che non gli perdonano quelli che sminuiscono – lo fanno anche per altri colleghi sotto scorta, purtroppo – i sacrifici quasi insinuando che sia comoda la vita sotto scorta. Bisognerebbe parlare con la moglie e le figlie senza il cui sostegno perfino commovente non si sa se lui avrebbe retto, ma si rimanda a una lettera molto bella che Michele scrive ai tantissimi poliziotti che si sono succeduti a proteggere lui e la famiglia in questi anni ricordando che all’inizio li vedeva come “intrusi”, «poi sono diventati amici e infine fratelli». Non c’è nel libro una cosa sentita dalla sua voce: il suo piacere più grande da sempre, fare un bagno nel “mare di Omero”, «ma non ne faccio uno da sette anni perché non me la sento di tuffarmi mentre i “ragazzi” in divisa che mi proteggono se ne stanno sotto il sole e gli sguardi dei bagnanti».

Testardo sicuramente, ma non fino al punto, come spesso si sente dire dai denigratori, di “essersela andata a cercare”. Per capirci non una testa calda ma una persona responsabile. Valga questa testimonianza di chi scrive. Il dirigente della squadra di calcio di Rosarno, poi finito in galera con tutto il vertice del clan dei Pesce che erano i padroni della società, aveva proibito al corrispondente, non gradito, del “Quotidiano della Calabria” di accedere al campo. Mi recai da Michele a Polistena e gli dissi che pensavo di andare simbolicamente io allo stadio per fare la cronaca della prossima partita. Stemmo a lungo a parlare e lui, in tutti i modi, quasi fino alla commozione, mi disse che non me lo avrebbe consentito perché non si poteva esporre il direttore del giornale. Tornando a Cosenza convenni che aveva ragione lui perché la ‘ndrangheta si combatte con i fatti e non con gesti simbolici.

*Recensione pubblicata il 18 dicembre 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

 

 

Ferrara, indagine su piazza Spartaco dopo cento anni

Ci deve essere un motivo se cento anni dopo ancora serve ricostruire storicamente eventi che, grazie alla medicina del tempo, dovrebbero essere acclarati. È la prima riflessione nel leggere il libro di Antonio Ferrara, il giornalista stabiese che già in passato si era occupato dell’argomento anche per conto del Comune (Violenze e fascismo nel Napoletano-Il caso di Castellammare di Stabia: Piazza Spartaco 1921-2021, editore Francesco D’Amato, pag. 240, euro 16). Una lastra marmorea posta sulla facciata del Municipio nel 2001 ricorda che quello spazio un secolo fa sanciva l’intitolazione della piazza Municipio a Spartaco da parte dell’amministrazione rossa. Ma evidentemente c’è ancora bisogno di verità, di passare, come scrive l’autore, dalla memoria alla storia. Di quella giornata sono rimaste le macerie, i morti, i feriti, gli arresti e un processo dal quale tutti gli imputati uscirono assolti. Ne scrivo sapendo che quella storia è patrimonio anche divisivo di tutti gli stabiesi, probabilmente di una certa età, come ho potuto constatare su queste colonne a inizio anno quando un collega e concittadino, Gimmo Cuomo, l’ha raccontata diversamente da me. E nel libro di cui parliamo intuisco che lo spazio dedicatogli sia anche forse uno dei motivi per cui è stato scritto.

Ferrara ha raccolto i materiali grazie a un lungo lavoro certosino presso l’Archivio di Stato di Napoli consultando e pubblicando documenti, articoli, memoriali. sentenze con relativi dispositivi e perizie, dando conto di tutte le posizioni, non esclusa quella del fascista Piero Gerace e del suo “Diario di uno squadrista”. La domanda ricorrente è una: chi sparò uccidendolo al maresciallo dei carabinieri Clemente Carlino a cui seguì la “fucileria” che lasciò sul selciato altre cinque vittime, di cui tre operai? Quale fu l’antefatto? Da qualche mese a Palazzo Farnese si era insediata una giunta socialista, minoritaria perché il partito popolare di Silvio Gava non volle allearsi con la destra fascista, e aveva approvato delibere “rivoluzionarie” (bolsceviche per gli avversari) soprattutto in tema fiscale colpendo i ceti più agiati e favorendo quelli popolari in un clima di confusione tra scelte ammnistrative e ingerenze politiche e sindacali smisurate. Le tensioni già profonde esplosero quando il Comune deliberò l’intitolazione della piazza a Spartaco in onore dell’omonima Lega dei rivoluzionari tedeschi Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. La reazione della destra, locale e provinciale, non si fece attendere.

Una manifestazione con corteo fu promossa per il 20 gennaio. Le autorità di polizia prevedendo incidenti imposero ai manifestanti un percorso che doveva circumnavigare la piazza del Municipio. Non andò così perché mentre dentro e fuori Palazzo Farnese si trovavano centinaia di persone pronte a difenderlo, il contatto ci fu dopo che dall’alto di un edificio partirono dei colpi di pistola, uno dei quali colpì alla testa il maresciallo Carlino che stava parlando con il vicesindaco Pasquale Cecchi. Chi aveva sparato? Dal Municipio o da una terrazza del palazzo del Seminario dove era stato visto un noto fascista, Andrea Esposito detto Raimo? Anni dopo, il 20 gennaio 1932, in occasione della posa di una lapide in memoria di Carlino, in un articolo de “il Mattino” venne rivendicato a tale “Raimo, “comandante la squadra di azione del Fascio di Stabia”, il merito di aver preparato e condotto l’assalto a Palazzo Farnese e fu scritto che «la morte di Carlino stabilisce la data storica per l’avvento del fascismo in quella contrada… la piazza fu conquistata, la città fu consacrata al Fascismo… i fascisti napoletani con Aurelio Padovani erano a Castellammare a fare magnifica prova di solidarietà a testimonianza precisa che niente poteva fermare il passo dei legionari di Benito Mussolini». Almeno questa verità storica, come la raccontarono i vincitori di allora, si può dire acquisita.

Ferrara ricostruisce una per una, atti giudiziari alla mano e materiali inediti, le testimonianze dell’una e dell’altra parte. Significativi i memoriali inediti scritti da Cecchi, che poi fu sindaco dopo la Liberazione, dai due carceri in cui fu subito ristretto insieme a tutta la giunta comunale e a centinaia di “compagni” che si erano asserragliati nel Comune: una testimonianza rilevante perché quel proiettile che uccise il carabiniere forse era diretto a lui. Le indagini andarono in una sola direzione ma ciò nonostante tutti gli imputati, come si legge dalle due sentenze – Corte di Assise del 3 ottobre 1921 e Corte di Appello del 10 luglio 1923 -, furono assolti perché non si trovarono prove a loro carico.

L’altra verità storica che si ricava da quei fatti è tutta politica. Si scontrarono in una città del Sud, come avvenne in altre parti del paese, lo squadrismo fascista e una sinistra che, con le sue contraddizioni, divisioni e tante avventate fughe in avanti per quanto idealmente esaltanti, si indeboliva isolandosi e spaventando i ceti moderati. Il “biennio rosso” era ormai alle spalle e da Bologna a Castellammare fu l’ora della resa con la violenza dei comuni amministrati dai socialisti e comunisti, un’altra tappa dell’avanzata irresistibile del fascismo.

*Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 21 ottobre 2021

Il commissario e il comunista

«In quel quadrato di mondo Annone non intercettò un filo di disperazione. Non c’erano fabbriche rumorose, volti ermetici di operai incalliti dalle fatiche, massaie che si spaccavano i piedi sul selciato per riempire mezzo litro d’acqua. Pure i pescatori, che dal mare si arrampicavano in piazza Tasso scalando vicoli angusti, si portavano dietro una calma e una fiducia che i loro simili a Castellammare avrebbero solamente sognato; non c’erano sirene di fine turno, grida, muri diroccati e cortei di manifestanti del Fronte Popolare con i fazzoletti intorno al collo e la faccia di Garibaldi sbandierata ai quattro venti. Da quando era sceso dal treno il commissario si era imbattuto solo in una sfilza di manifesti con il simbolo dello scudo crociato. Erano affissi a ogni angolo della città e sembravano una corte di legionari pronta a contrastare l’avanzata dei rossi della penisola.  Su uno di questi, in parte annerito dalla pioggia, si leggeva: “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!”».

Castellammare, anche anni dopo quel periodo tempestoso, era considerata –  così la racconteranno i dirigenti nazionali del Pci calati con assiduità nella città – l’Emilia rossa in un Veneto bianco dove questo ultimo era esattamente la Penisola Sorrentina. Dopo il cantiere navale e Pozzano, appena entrati nella Statale 145, con il Vesuvio a destra che si specchiava nel mare, non cambiava solo il panorama. Che distanza siderale tra la tranquillità di Sorrento e la città delle fabbriche, dei partiti, della lotta politica, degli scontri, della cronaca ad un passo da diventare storia! Angelo Mascolo con il suo nuovo romanzo (“Il comunista”, Homo Scrivens editore, pagine 258, euro 15) fa di questo contrasto il pretesto per attraversare e scandagliare Castellammare e svelarne nel bene e nel male la sua valenza nazionale.

Il suo è un giallo, il secondo con il commissario Vito Annone, costruito come un congegno ad orologeria che ruota attorno all’omicidio del candidato del Fronte Popolare alla Camera nella settimana infuocata delle elezioni del 1948.

Rossi, bianchi e neri. Le macerie materiali e morali della guerra sono più che un ricordo anche se non si sentono più i fragori delle bombe sul cantiere navale e sulla città ma nuovi ordigni hanno minato l’unità nazionale, alimentato la divisione, avvelenato il clima politico. La campagna elettorale a Castellammare ne è la prova, il delitto di Catello Savarese, il candidato del Fronte, fa il resto.

Personalità complessa, una sorta di candidato “indipendente” di altri tempi, operaio del cantiere navale, sindacalista, intraprendente, orfano, un matrimonio eccellente che fa scandalo: sposa una donna ricca e bella, di una delle famiglie più in vista della citta. Mascolo fa dire a uno dei suoi personaggi: «Ai compagni poteva andare bene che uno di loro, uno che lo stesso partito aveva scelto per la sua lunga militanza nel sindacato, se la facesse con i borghesi?» (vent’anni dopo, tanto per stare ai ricordi personali, ancora faceva discutere che un giovane dirigente comunista potesse fidanzarsi con una ragazza di una nota famiglia democristiana).

Il commissario si muove in questo mondo. La sua investigazione mette a fuoco le varie ipotesi e si sviluppa in piena campagna elettorale fino a due giorni prima del voto quando con un colpo di scena, esemplare per il significato storico e politico, scopre l’assassino. Sul suo cammino incontra il fascista irriducibile che, finita la paura della sconfitta e approfittando della generosa amnistia togliattiana, baldanzosamente rialza la testa e le mani, l’imprenditore che di un orfanatrofio devastato da un crollo vuol fare un affare di cemento sul mare (tema ricorrente e sempre attuale nella città), il medico che disprezza i bolscevichi e chiede voti scambiandoli con promesse e favori, l’avvocato comunista, il professore del liceo classico trasformatosi in ghostwriter di Savarese… La fabbrica, i cortei, i pestaggi, le minacce, i depistaggi: lo sguardo di Mascolo mette a fuoco situazioni e persone ma soprattutto un clima incandescente, quasi una guerra come di fatto sostiene.

Ma era davvero una guerra? Era l’odio il sentimento prevalente? Si potrebbe rispondere affermativamente se si pensa soltanto che appena tre mesi dopo ci fu l’attentato a Togliatti che non si trasformò in un’insurrezione perché il segretario del Pci dalla barella ordinò ai compagni di stare calmi. In quei giorni a Castellammare accadde di tutto, si pensò addirittura, scarseggiando armi e bombe a mano, di prelevare del tritolo dalle cave di Pozzano. In realtà la “Stalingrado del Sud”, in sintonia con il paese, era dentro un passaggio della storia, dal sogno della rivoluzione proletaria alla piena consapevolezza democratica quando il partito che più di tutti aveva combattuto contro il fascismo e i nazisti l’acquisì nel 1956 con la linea della “via italiana al socialismo”. Un po’ alla volta se ne convinsero tutti, dal compagno che per anni, munito di martello e scalpello, andava in giro per i comuni confinanti e “cancellava” dai pali della luce gli stemmi del fascio, all’altro che, appena dopo la nascita dell’Msi, si fece espellere per aderire al neonato partito e rubare gli elenchi degli iscritti.

La città non era e non è mai stata monocolore. Neri, rossi e bianchi si sono battuti e confrontati, ma non solo odio e violenza, perché la passione politica e ideale è stata il sale e il pepe della sua storia. Il libro di Angelo Mascolo, un giallo ben scritto, con la precisione dell’archeologo qual è e il ritmo del podista, come quello sicuro e determinato del suo commissario, un personaggio ricco di dolore e di saggezza, ne racconta un bel pezzo. Annone è tornato e ne è valsa la pena.

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La saggezza è condizione della felicità

Parricidio, incesto, infanticidio… il pensiero va a Edipo e alle tragedie di Sofocle che ne hanno reso eterno il dramma. Storia nota, visitata e rivisitata, assurta a gettonata materia scientifica nell’omonimo complesso freudiano, memorabile l’omonimo film in cui Pasolini confessa, alla sua maniera, di essere Edipo. Si può ancora scriverne senza correre il rischio di ripetere cose risapute? Evidentemente sì se non si smette di produrne. Appena qualche mese fa Luciano Violante con “Insegna Creonte” ha ricomposto con un’intrigante lettura la sua esperienza di magistrato e di politico. Ma già prima, tre anni fa, insieme a Marta Cartabia aveva affrontato il tema con “Giustizia e mito”, qui facendo i conti con Antigone, Edipo e Creonte, e i rispettivi conflitti tra coscienza individuale e ragion di stato, tra colpa e errore, tra la legge e la sua violazione. Ed ecco fresco di stampa un nuovo libro, “Cháos“ (editore Marcianum Press, 102 pagine, euro 13). Lo ha scritto Raffaele Bussi che ritorna, dopo l’intermezzo del libro sul suo concittadino stabiese Michele Tito, all’amata cultura classica greca già raccontata in “Ulisse e il cappellaio cieco”.

Si sa, Laio, re di Tebe e marito di Giocasta, apprende dall’oracolo di Delfi che il suo prossimo figlio lo avrebbe ucciso e avrebbe sposato la madre. Crede alla profezia, e fa deportare il figlio in una foresta. Salvato da un pastore e allevato poi dal re di Corinto, Polibio, il bambino viene chiamato Edipo per il piede gonfio a causa delle ferite procurate dai morsi delle bestie. Da grande Edipo incontra Laio e, ignorando che fosse il padre, lo uccide. Diventa poi re di Tebe, dopo aver risposto all’enigma della Sfinge, che impediva a chiunque di entrare nella città, ricevendo in cambio il trono da Creonte e sposandone la sorella Giocasta, ignaro che fosse sua madre. Dal matrimonio nascono quattro figli dei quali lui è padre e fratello. Quando si scopre la verità Giocasta si impicca e lui si acceca e poi se ne va mendicando nell’Attica accompagnato dalle figlie Antigone e Ismene.

Bussi inizia da qui il suo viaggio “sui passi di Edipo”. La forma è quella agile e serrata del dialogo platonico che, con uno sguardo sull’oggi, ricostruisce il tormentato percorso di Edipo, il quale sa che «la sventura farà ricadere la colpa anche sui figli” che pagheranno gli errori di chi li ha generati. Moriranno, infatti, i due figli-fratelli nel contendersi il potere a Tebe e morirà Antigone, “murata in una grotta”, per aver disobbedito all’ordine di Creonte di lasciare insepolto il fratello Polinice che gli si era opposto.

La tragedia mescola colpe ed errori, ma è al tempo stesso – questo il filo del libro – espressione di un mondo disordinato, il “cháos”, che è inevitabile quando «la mente cancella le norme del buon governo… barattandole con le proprie… Creonte non ha esitato a proporci una tirannia che di democrazia aveva solo la facciata». All’arroganza del potere si oppone la sola Antigone infrangendo la “legge” del re. Il capo dei saggi può concludere: «Tebani, la saggezza è la prima condizione della felicità. Attenti a commettere empietà contro gli dei, ma anche contro gli esseri umani, come ha fatto Creonte contro il povero Edipo venendone ripagato con la stessa moneta». Violante la spiega così: «La democrazia non esiste in natura, essa è frutto di una costruzione dell’intelligenza, della voglia di libertà delle persone». E saggezza e intelligenza non fanno mai rima con il delirio di onnipotenza in pubblico e in privato.

*Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 14 aprile 2021

 

 

Padre Pio, un miracolo della fede e degli affari

di PIERO ANTONIO TOMA
La bufala sulla cultura che non paga potrebbe essere assimilata a quella sulla fede. Matteo Cosenza, giornalista di lungo e autorevole corso, ce lo conferma nel corso di un ampio reportage pubblicato la prima volta sul ” Mattino” e cadenzato in 18 tappe dal 23 settembre 1998 al 2 luglio 2004: qui si snocciolano nascita, vita e morte di Padre Pio e soprattutto ciò che è successo fino agli onori degli altari. Lungo questo straordinario viaggio nello spazio e nel tempo ci sono vicende umane che ci toccano nel profondo. Non è solo uno scandaglio nelle certezze della fede, ma anche nei dubbi che essa alimenta.
Fra i tanti pellegrini ( in questi anni più di Lourdes e di Loreto), che a San Giovanni Rotondo vengono anche a piedi, e col desiderio di sapere che muove anche da paesi lontanissimi, si aggiungono non credenti e agnostici ( a farne parte è lo stesso autore che non va alla ricerca della verità ma della conoscenza e delle ” storie di sofferenza e di ansia”).
Perché? «La chiesa è l’unica istituzione che dà speranza alla gente», spiega un vecchio ateo. Ed è proprio questo un altro miracolo della fede che non solo paga con ospedali, chiese (specialmente quella di Renzo Piano, la prima della sua carriera), volontari, pellegrini (otto milioni all’anno) e commercianti di oggetti, rosari, statuine, olio, vino, eccetera; ma anche con i suoi eccessi: cementificatori con duecento alberghi e interi quartieri, finanziatori senza scrupolo, e col rischio di un “Padre Pio fenomeno da baraccone”.
Oltre ai tantissimi miracoli in vita (nonostante l’ostracismo del Sant’Uffizio) e da morto, egli paga anche con la sua statua che suona le campane e soprattutto con “la fede (che) dilaga come un fiume in piena”. Interessanti poi le differenze fra San Giovanni Rotondo arricchitasi “esageratamente” e Pietrelcina, dove egli nasce, rimasta più povera e che ogni tanto raccoglie le suppliche e le affida a un “portavoce” perché le porti a Padre Pio.
Esemplari, tra i tanti, due miracoli. Il primo ci racconta di un ragazzo di sette anni guarito all’istante da una meningite fulminante. Il secondo riguarda il cardinale Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, che nel 1962 gli invia una lettera affinché preghi per una donna affetta da un irredimibile cancro alla gola. “Il frate dei miracoli e delle stimmate”, diventato ” un mito planetario”, risponde di sì. All’improvviso il cancro sparisce “misteriosamente. E quindi per una dovuta coerenza, è lo stesso cardinale, una volta eletto papa, a beatificarlo e a santificarlo nel 2002. Qui a San Giovanni ” i miracoli se non li cerchi, sono loro a inseguirti”, commenta l’autore .
°Articolo pubblicato su “Repubblica” il 15 febbraio 2021