Una poesia per la Calabria. Lo dice subito, lo ripete spesso e conclude con queste parole: «Dobbiamo fare una poesia per la Calabria, una poesia a quattro mani. Dobbiamo trasmettere cultura e positività». Davvero, un amore sconfinato per la sua terra. Appassionato, convinto, al tempo stesso amaro sul presente e propositivo per il domani. Il suo è un cognome simbolo della Calabria, rivendicato con orgoglio. Lo faceva Gianni, lo fa Donatella, lo fa lui, Santo Versace, oggi a capo di un impero economico che attraversa il pianeta da un capo all’altro. Un marchio indelebile del “made in Italy”, di cui Milano, capitale della moda, mena vanto e che, però, rimanda a radici profonde nella Calabria, alla sua bellezza di sempre e al suo passato mitico di terra della Magna Grecia, richiamato nel logo della casa.
Le donne sono una risorsa preziosa della Calabria, forse scendono poco in campo. Cominciamo da sua madre. Voleva fare il medico?
«Mia madre era del 5 giugno 1920. Nel ’30 prese la licenza elementare, la sua aspirazione era continuare a studiare, però mio nonno disse no: sei una femminuccia, è disonorevole che tu vada nei posti dove ci sono i maschietti, devi fare un altro mestiere. E lei scelse di fare la sarta. Andò dalla “Parigina” e cominciò la sua vita. Diventò bravissima, addirittura eccezionale, era la migliore in assoluto in Calabria. Venivano a Reggio Calabria da Messina, da Catanzaro, da ogni parte a farsi gli abiti da sposa da lei».
Come la ricorda?
«Era una persona forte, ma la cosa più importante era che lei aiutava sempre tutti. Era di una generosità, di un equilibrio, una trascinatrice, era veramente un leader. Come tante donne in Calabria».
Era un talento?
«I sarti sono artigiani straordinari. Lei addirittura si faceva il segno della croce e tagliava a mano libera, anche senza fare disegni».
E voi figli?
«Gianni ha sempre respirato l’aria della sartoria, io invece respiravo l’aria di mio padre, un’altra persona stupenda».
Che attività svolgeva?
«Negli anni Cinquanta mio padre mi ha spiegato perché gli italiani non amano la matematica. Lui vinceva le corse campestri, era campione regionale, poi era ciclista (nel ’38 batté nel Giro della Città di Reggio Calabria in volata Corrieri che aveva vinto l’ultima tappa del Tour de France, il primo vinto da Gino Bartali), fece come dilettante anche il Giro della Sicilia a tappe insieme a Nobile e altri. Dopo la guerra – lui era del 1915 – giocò nella Reggina, terzino mediano e ala sinistra, segnò anche dei gol in serie C, lo chiamavano don Nino ‘u carro armato. Nel ’30 a mio nonno, Santo Versace, nato nel 1870 a Santo Stefano Aspromonte, di cui ho l’onore di portare il nome, promise che un diploma se lo sarebbe preso anche se il tempo preferiva dedicarlo allo sport. Al quarto ginnasio lo bocciarono e allora si iscrisse alle magistrali: quattro anni, quindi scuola più corta. Mio padre mi spiegò: “Sai perché gli italiani non amano la matematica? Perché alle elementari ci sono le maestre che, non essendo mostri di cultura, la odiano e non la amano, la fanno studiare male ai ragazzi, così gli si crea un buco che va dall’asilo alla quinta elementare che poi non recuperano più”».
Ma che c’entra la matematica con la sua formazione?
«Mi fece capire come è importante lavorare, formarsi e tutto il resto. Lui era nel commercio, aveva iniziato con il carbone vegetale, quello che si fa dal legno, che all’epoca era l’unica fonte di energia: costava 36 lire al chilo. La tabellina del 36 la so tutta: 36, 72, 108, 144, 180, 216, 252, 288, 324 fino a 360. Poi passò mano mano a vendere il gas, le cucine a gas, quelle elettriche, e tutto quello che riguardava la casa, tutto. Anche lui aiutava tutti».
Faceva concorrenza a sua madre.
«Le racconto qualche episodio. Qualcuno gli diceva: don Nino, prendo la bombola ma non ve la pago, e lui rispondeva: hai figli, se la paghi bene, se no non fa niente. Poteva anche farlo perché stava molto bene. Una ragazza che lavora al Senato, nel gabinetto del presidente Marini, ha raccontato che due suoi cugini orfani avevano comprato il televisore da mio padre a rate, cinquemila lire al mese, e che quando mancavano ancora nove-dieci rate, si erano presentati per pagare e mio padre gli aveva detto che il debito era finito perché sapeva che erano orfani. Ho incontrato una signora a Udine, Caterina Giunta – suo figlio si chiama Nicolò -, che doveva dei soldi a mio padre, che non aveva voluto più nulla quando aveva saputo che il marito aveva avuto un incidente».
Dunque, questa è l’educazione avuta in famiglia.
«È l’esempio che forma i giovani. Dico sempre a mamme e padri che parlano dei figli, che prima di criticarli dobbiamo guardarci allo specchio. Se i giovani non sono bravi vuol dire che gli abbiamo dato un pessimo esempio».
Com’era la Reggio di quel tempo?
«Negli anni Sessanta fino alla rivolta del 1970, che l’ha segnata duramente e l’ha fatta arretrare, Reggio era una poesia, i locali tutti aperti, il lungomare, le palme… ma era una poesia anche il fatto che era una conquista tutto perché si usciva dalla guerra. Mi permetta un inciso: alcuni anni fa ad un’inaugurazione della Versace in Germania mi parlavano della loro situazione, di come erano depressi e io risposi con una domanda che li sorprese: ma noi dove siamo? Eravamo a Berlino in un albergo a cinque stelle con le macchine con gli autisti e stavamo vivendo nell’agiatezza e loro facevano domande preoccupate: se fossero tornati al maggio 1945, ai nostri genitori, ai nostri nonni, che si erano trovati su un cumulo di macerie e che non si erano mica messi a piangersi addosso, ma si erano rimboccati le maniche e avevano portato la Germania in Europa ai livelli che si vedono. Aggiunsi: smettiamola, facciamo meno vacanze e lavoriamo di più».
È una metafora per la Calabria?
«Certamente. Noi abbiamo il dovere di non piangere per nessun motivo. Abbiamo un clima straordinario, una regione bellissima, abbiamo due mari e dall’Aspromonte li guardiamo tutti e due, abbiamo una situazione eccellente, certo dobbiamo lavorare seriamente. Sa quale fu lo spartiacque della rivolta del 1970? Che dopo cominciarono a “sparare” Saline, quinto centro siderurgico e tutto il resto. Ci fu tanta roba buttata lì, tanti soldi allo sperpero e si è fatto capire a molta gente che per arricchirsi o per star bene non serviva lavorare. Questo è stato deleterio innanzitutto sul piano culturale. Poi la Cassa per il Mezzogiorno che con le decine di miliardi inviati ha inciso per lo zero virgola qualcosa. L’assistenzialismo non paga».
E che cosa paga?
«La fiscalità di vantaggio, la formazione permanente, le infrastrutture e non solo autostrade ma anche reti telematiche, banda larga per avvicinare la Calabria al mondo. Nella mia logica Reggio Calabria non è periferia, è il centro del Mediterraneo, è il centro del mondo».
In Calabria si incontrano eccellenze importanti che dimostrano che è possibile un’alternativa all’assistenzialismo.
«È assolutamente vero. Ne trova quante ne vuole. E se valorizziamo la Calabria operosa e produttiva trasformiamo questo sistema bloccato. Se fossi sindacalista, dopo aver difeso la dignità e il giusto salario del lavoratore, mi preoccuperei che chi ha un lavoro lo faccia bene. Se lo fa bene si arricchisce e crea posti di lavoro, se lo fa male avviene il contrario. Dobbiamo far tornare la passione e l’amore per il lavoro».
La stessa passione, pare di capire, che secondo il racconto che faceva era di sua madre e di suo padre.
«Da loro l’ho presa. Io sono del 16 dicembre 1944, anche se nei documenti sono del 16 dicembre 1945. Quando avevo sei anni mio padre mi disse: se vuoi puoi venire al negozio, ti autorizzo a dare una mano e a giocare. Per me era un gioco, però spalavo e impalavo il carbone, incassavo i soldi, 36 lire al chilo, all’ingrosso e al dettaglio».
Lei nel negozio di suo padre tra i carboni, Gianni in quello di sua madre tra le stoffe. Vi eravate divisi i compiti?
«Gianni ha sempre gattonato tra pizzi e merletti».
E Donatella?
«È venuta dopo. La prima figlia era, Pinuccia, che è morta nel 1953, poi sono venuto io, a seguire Gianni il 12 novembre 1946 e Donatella nel 1955. Lei era molto più piccola, è la coccola di tutti. Gianni l’ha voluta al suo fianco, sempre, da piccolina».
I rapporti tra lei e Gianni?
«C’era un’armonia tra noi, ma in quei tempi c’era un’armonia anche tra le famiglie, nella città, ognuno aiutava gli altri».
Lo sport è una sua grande passione. La prima tappa?
«Ho esordito a sedici anni nella pallacanestro».
Con la Viola?
«No, allora non era Viola, lo è diventata con la morte di Piero Viola, gemello del giudice Peppino. Scesi in campo il giorno di San Giuseppe, il 19 marzo del 1961, a Villa San Giovanni e vincemmo di sedici punti. Per la prima volta giocai una partita ufficiale di serie B. Lo sport è fondamentale, soprattutto la pallacanestro, che si gioca in dieci e dove è determinante chi rientra dalla panchina e ti fa vincere».
Gli studi?
«A Messina. Noi abbiamo avuto l’onore di studiare attraversando lo Stretto diverse volte la settimana. Un piacere enorme, il mare, la Calabria e il continente vicino perché la Sicilia non è una regione ma un continente. Lo scriva, il continente Sicilia. Gli arancini, i cannoli. L’anno scorso erano trentanove anni che mi ero laureato e mi hanno voluto all’università di Messina. È stato bellissimo».
Politica?
«Tessera socialista. All’università sono stato primo eletto della sinistra universitaria, consigliere nazionale Unuri, vicepresidente dell’Orun di Messina e tante altre cariche. Ero socialista, della sinistra lombardiana».
Gli scontri del 1970 li ha vissuti?
«No, per mia fortuna sono partito militare a ottobre se no finivo male. Prima del militare ho fatto altre cose. Appena laureato mi sono impiegato in banca, al Credito Italiano a piazza Italia. Assunto a ottobre, a marzo ero già fuori perché non mi piaceva. E fu uno shock per tutti: la prima volta che uno lasciava un posto di quasi 130mila lire al mese, poi uno che lasciava la banca. Quando stavo per andar via, il direttore mi disse: ti faccio dirigente in due anni. Risposi: no, me ne vado. Successivamente ho insegnato un anno: geografia economica nella mia sezione di ragioneria. Anche lì non ho presentato più la domanda perché non mi interessava. Poi sono partito militare. Sono tornato nel gennaio ’72 e, quindi, ho evitato i fatti del 1970».
Visto il suo profilo politico, ci si sarebbe trovato dentro fino al collo.
«Mi sono salvato. Li ci fu un errore della sinistra, perché non era una rivolta di destra, diventò di destra perché tutti gli altri si tirarono indietro, in particolari i socialisti e i democristiani schiavi dei vari ras cosentini e catanzaresi. E la piazza è rimasta libera. A quel punto è stata occupata. Ma la rivolta è stata popolare, di tutti i cittadini di Reggio Calabria. È una storia ancora da scrivere, ci vorrebbe un’inchiesta parlamentare, è stata una vergogna come i media nazionali se ne sono occupati, la televisione negava Reggio Calabria».
Tornato da militare che ha fatto?
«Ho aperto lo studio da commercialista».
Gianni nel frattempo che faceva?
«Quando sono tornato, trovai Gianni che aveva avuto l’offerta da un’azienda di Lucca. È partito e non è più tornato a casa. È stato prima in Toscana, poi si è trasferito subito a Milano alla fine del ’72. Quando decidemmo di fare la Gianni Versace i nostri amici imprenditori dissero: noi ci stiamo, ma tu devi venire per la gestione perché con Gianni va benissimo ma se non ci sei tu noi non partecipiamo come soci».
Gianni era il creativo, lei l’organizzatore.
«Gianni era un creativo straordinario, aveva una visione di tutto, una visione globale. Io mi occupavo del lato organizzato e industriale. Donatella ha sempre seguito Gianni anche nei primi tempi all’università fino al 1988, poi in azienda e ha sempre dialogato con Gianni».
È una grande storia di famiglia.
«Studiare Gianni Versace per i giovani è come studiare uno che ha una passione, un amore e realizza il suo sogno partendo da zero. È importante indicare Gianni Versace come uno che realizza i sogni. Può essere il simbolo della Calabria. Gianni aveva tre parole: lavorare, lavorare, lavorare. Che erano le mie, che sono le nostre. È stata una conquista continua. I manuali illustrano come si parte dal genio di un individuo e si arriva in cima, ad un marchio mondiale».
Prima ha detto che Gianni non è più tornato in Calabria. In che senso?
«In senso lavorativo, perché lui è tornato sempre, ha sempre detto “la Calabria è la casa mia”, ha sempre sostenuto di essere figlio della Magna Grecia. Andava a Scilla, passava con la barca a Chianalea. Per il lavoro era impossibile tornare da Milano. Si può fare moda in Francia solo a Parigi, in Inghilterra solo a Londra, negli Stati Uniti solo a New York».
Sua madre ha visto Gianni affermato?
«È morta il 27 giugno 1978, ha assistito anche alla prima sfilata di Gianni. Lei ha sempre pensato che fosse un genio. Infatti era genio lei, anzi lei sosteneva di essere più brava: Gianni sarà bravo, non come me, ma è bravo».
La vostra è una storia che affonda in radici lontane: lei e suo fratello che per vie diverse, il negozio di carboni di suo padre e la sartoria di sua madre, vi completate in un’azienda che conquista il mondo della moda internazionale, e l’eredità dello spirito creativo passa a Donatella che è stata la sorella piccola da coccolare. A fare da cemento non solo un’educazione alla solidarietà, ma anche la ricerca della bellezza. Lei vi ha accennato a proposito di Calabria. Può davvero essere questa la carta da giocare per creare un futuro diverso a questa terra?
«I bambini sono attratti dalla bellezza. Quando vedi un mare, quando guardi la Sicilia, le luci, le stelle di notte, quando fai una passeggiata, che cosa cerchi se non il bello? L’uomo è di per sé portato alla bellezza. Quindi, è necessario che queste cose che esistono non siano rovinate, non siano sprecate né infangate. Dobbiamo far capire a tutti che la Calabria è una terra che ha risorse incredibili».
Per anni i grandi politici calabresi perseguivano l’obiettivo dell’industrializzazione. Lei pensa che avessero ragione?
«Non avevano una visione reale del territorio. Hanno fatto danni. Quando parlo con gli stranieri a nome del Comitato di sviluppo del Sud, che vorrebbe indirizzare gli investimenti, specialmente quegli americani, verso la nostra terra, tutti mi dicono che il primo problema è la burocrazia, poi la fiscalità, la sicurezza e le infrastrutture. Posso leggerle dodici righe di un’enciclica del 1987 di Giovanni Paolo II?
Faccia.
«Leggo: “Occorre rilevare che viene spesso soffocato il diritto di iniziativa economica. L’esperienza ci dimostra che la denegazione di un tale diritto o una sua limitazione in nome di una pretesa eguaglianza riduce e distrugge di fatto lo spirito di iniziativa, e lede la soggettività creativa del cittadino. Di conseguenza sorge un livellamento in basso e al posto dell’energia creativa nasce la passività, la dipendenza e la sottomissione all’apparato burocratico”».
Spesso si sente dire che la mafia vera è quella grigia della burocrazia.
«È la malapolitica. Un governo serio dovrebbe prendere alcuni provvedimenti seri. L’Irap potrebbe essere abolita in un minuto. Come? Lo Stato dà circa cinquanta miliardi di euro alle imprese. Quanto costa la raccolta? Qualche miliardo di euro: primo costo da abolire. I soldi dove vanno a finire? Metà agli amici degli amici e metà vanno sperperati. Tu li lasci alle imprese, togli l’Irap, non dai soldi a nessuno. Non si fa perché a questo punto non ci sarebbe nulla da gestire. L’altra misura dovrebbe riguardare l’esercito».
E che c’entra l’esercito?
«Abbiamo duecentomila uomini che paghiamo tutti i giorni dell’anno. Caduto il Muro di Berlino e finito il Patto di Varsavia – ricordo che ero in prima linea con il reparto di cavalleria a Palmanova, a venti minuti di carrarmato dal Patto di Varsavia, nel 1971 -, l’esercito anche tecnicamente va rischierato in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania dove dovrebbe restare definitivamente. Questo può creare ricchezza perché ogni soldato porta con sé due-tre posti di lavoro e anche quattro. Li fai stare sul territorio, li puoi far lavorare. Per dire, non ci sarebbe il problema degli incendi con duecentomila uomini sul territorio. Ma è solo un esempio».
Un sogno o, meglio, un’utopia?
«No, i sogni si possono avverare, lo dimostra Gianni che li ha realizzati tutti. Bisogna impegnarsi per cambiare la politica che deve essere la ricerca del bene comune e la più alta forma di carità. Non sono parole mie ma di Paolo VI. Lo dicevo con parole mie e non sapevo che erano sue».
Per avere successo si va via dalla Calabria. Lei che consiglia: andar via o restare?
«Si possono ottenere risultati anche in Calabria. Tre parole d’ordine: educazione al lavoro, al sacrificio, allo studio; legalità; meritocrazia. Il signor Marchionne, quando l’anno scorso spiegò a 250 persone venute da ogni parte del mondo come era risorta la Fiat, disse che era avvenuto per la meritocrazia. Si va via dalla Calabria perché la gente viene cacciata».
In Calabria tutto sembra dipendere dalla politica?
«No, non c’è politica. L’antipolitica è la nostra classe politica. Il cittadino vuole la politica con la P maiuscola, non gliela danno. È questo il vero dramma».
Ma il cittadino a volte non trova anche comoda la politica che c’è?
«Se l’esempio è quello… Gli inglesi dicono che se tu tieni pulito il tuo pezzo di marciapiedi, mano a mano si puliscono anche gli altri. Quando mi capita di vedere un cestino nell’arco di cinquanta metri, raccolgo carte, pacchetti di sigarette e bottiglie e tranquillamente le vado a depositare. Sulle spiagge ogni giorno raccolgo trenta-quaranta pezzi e li metto nei cestini. E gli altri mi vedono, probabilmente cominceranno a farlo anche loro».
I suoi due figli come conoscono e vedono la Calabria?
«La ragazza, Francesca, quando le chiedi di dove è dice che è milanese, il ragazzo che porta il nome di suo nonno come la sorella quello di sua nonna, risponde che è calabrese. Lui è nato a Milano, io sono riuscito a trasmettergli questo sentimento. Loro stanno studiando all’estero, sanno che la Calabria è una regione bellissima. La vacanza ideale, mi ripeto, è tra Calabria e Sicilia: l’Aspromonte, Scilla, Costa Viola, Eolie, costa ionica, capo Spartivento e dintorni, Ferruzzano. Una poesia! Per fare il turismo devi essere educato, devi esaudire la gente, non devi truffarla. Se metti i valori, se metti l’etica, tu vinci. E ci vuole gente positiva».
Non ne manca?
«Ce n’è, e come! Dove state voi col giornale c’è Orlandino Greco. Era stato eletto con il centrodestra, ma i notabili volevano costringerlo ad amministrare alla vecchia maniera, lui si è ripresentato agli elettori e la società civile lo ha rimesso al suo posto. Sono stato nella primavera scorsa a Castrolibero, un comune bellissimo, un’atmosfera positiva, questa è la Calabria che vorrei».
Per chiudere un ricordo di Gianni.
«Quando andava a fare i ricami a Messina dove erano molto bravi, passava lo Stretto, portava delle cose meravigliose a mia madre, mangiava il gelato, il lavoro diventava una poesia, una passeggiata, una scampagnata. Questa è la Calabria dei Versace, la nostra Calabria».
Michele Traversa
Da fascista a moderato di destra aperto al centro. O: dai soldatini di piombo a Mimmo Paladino e Gormley. O ancora: dai treni del sole al parco della biodiversità passando per un cruscotto. Un passato a tutto tondo di militante e esponente della destra estrema, un lungo corso di sindacalista, una significativa esperienza di assessore regionale al turismo, una più che solida performance di presidente della Provincia di Catanzaro, a cinquantanove anni Michele Traversa non smette di sorprendere.
Presidente, entrando in questo palazzo, la Casa delle Culture, più simile a un museo che alla sede di un ente, non si penserebbe mai che a dirigerne le sorti sia un uomo col suo pesante passato politico. Come nasce questo interesse per la cultura?
«Nasce nel momento in cui sono stato nominato assessore al turismo della Regione Calabria. Ero alle prime armi e cominciai a buttarmi a capofitto nel lavoro per il rilancio del turismo. E così feci delle cose di cui ancora si parla. Cercai principalmente di rilanciare l’immagine della Calabria».
Come sta cercando di fare l’attuale assessore Nicola Adamo con Oliviero Toscani?
«No, fu cosa ben diversa. Mi resi conto subito che la Calabria non era conosciuta neanche dal punto di vista turistico. In Germania ad una conferenza di operatori del settore pensavano addirittura che la Calabria fosse una provincia del Marocco. E poi ad ogni vigilia d’estate si registrava una costante denigrazione della regione anche dal punto di vista della viabilità. Quindi, decisi di puntare sulla cultura e sul turismo».
Così nacque l’idea dei Treni del Sole?
«Erano cinque treni che partivano ogni settimana da Torino, Verona e Milano, e portavano gratuitamente i turisti. I treni erano anche un veicolo pubblicitario perché erano allestiti magnificamente. Ricordo che erano tanto belli, così colorati che nella stazione di Bologna i turisti giapponesi scattarono migliaia di fotografie».
Dalla Regione alla Provincia, che cambiò?
«Intanto ho pensato molto alla città di Catanzaro che, diciamolo onestamente, non è tanto bella e neanche molto vissuta. Ci siamo posti il problema di far uscire i catanzaresi dalle loro case. La città dopo le 19 chiude completamente, non si trova più nessuno per strada. Realizzai giù, in questo palazzo, una buvette».
Ha fatto anche il ristoratore?
«No, non creavo concorrenza, stimolavo solo la crescita qualitativa. E poi accanto a questo ci doveva essere anche la ristrutturazione di piazza Prefettura che ancora non è avvenuta, per fare un gazebo stile liberty che desse la possibilità all’orchestra di Catanzaro di fare concerti. Pensai in contemporanea all’ambiente, alla necessità di un polmone verde, e realizzai il parco della biodiversità mediterranea all’interno della città, oggi apprezzato da tutti: cominciano ad arrivare pullman di turisti. E lì si è realizzato un percorso culturale perché ogni volta che realizziamo una mostra imponiamo agli artisti di lasciare un’opera che collochiamo lì».
Gli artisti che espongono a Scolacium. Nomi grossi dell’arte contemporanea. Ma chi le dà consigli?
«L’assessore alla cultura Rubino. Io non ho cambiato la squadra della Regione, nella quale Rubino era il consulente per la cultura e lo spettacolo. Il dirigente amministrativo che aveva alla Regione ora è nella stanza a fianco, ed è di sinistra, dei Ds».
Un presidente di An che apre alla cultura di sinistra…
«E si meraviglia? Abbiamo organizzato qui il concerto di Vasco Rossi davanti a quattrocentomila persone dimostrando che anche nel Sud si possono fare le grandi manifestazioni».
Dalla cultura alla gestione amministrativa. A lei piace sorteggiare i vincitori delle gare di appalto?
«Molto si parlò di due nostre pagine intere di pubblicità sul Sole 24 Ore per organizzare contemporaneamente un centinaio di gare consentendo a ciascuno dei partecipanti di non poterne vincere più di due».
Parli di quello schermo che ha lì di fronte alla scrivania. Funziona?
«Sì, il cruscotto informatico. Con quello controllo tutti i lavori pubblici della Provincia. I tempi sono calendarizzati: sessanta giorni per la progettazione esecutiva, trenta per la gara di appalto, trenta per consegnare i lavori all’impresa, e poi ci sono i tempi di realizzazione. Nel momento in cui si interrompe questa catena, mi appare una pallina rossa che mi dice che la pratica è bloccata. Allora verifichiamo se è una causa esterna, per esempio un ricorso, altrimenti la causa è interna ed è dovuta ad un dirigente che non ha fatto il suo dovere».
Ma come le venne l’idea di questo cruscotto?
«Avevo iniziato a farlo manualmente poi capì che non ce la facevo perché i lavori erano tanti, pensi che ora ci sono 1.056 appalti con 621 ditte».
Questo culto dell’efficienza lo ha coltivato da piccolo?
«No, nasce da quando facevo l’opposizione nel consiglio comunale negli anni Ottanta. Un’opposizione costruttiva ma dura. Avevo l’abitudine ogni anno, prima della legge finanziaria, di partecipare ai corsi di formazione per gli amministratori. E quando in Consiglio comunale si discuteva di bilancio tenevo inchiodata l’amministrazione per decine di ore».
È di destra perché nasce in una famiglia di destra?
«Mia madre era di destra. Mi portava ai comizi. Ero piccolino. Da lì poi è nata questa passione».
E suo padre?
«No, era un democratico Mia madre era fascista».
Di Botricello?
«No, veniva da Strongoli. La sua famiglia era composta da generali, prefetti».
Perciò la chiamano generale? Dicono che quando dà un comando batte i tacchi.
«No, non è vero. Ho il senso dello Stato che è una delle cose che manca in Calabria. Ho diretto uffici a Bergamo e lì un funzionario che arrivava con un minuto di ritardo chiedeva scusa. Qui neanche vengono».
Quando pesa nelle sue aperture politiche di oggi la sua vicenda politica di quegli anni lontani vissuti su una sponda storicamente destinata all’isolamento?
«Vede, nessuno di noi che stava nel Msi e poi in An poteva mai immaginare che un giorno uno come me potesse diventare presidente della Provincia o assessore alla Regione. La nostra era una scelta ideologica e non opportunistica. C’è stata una svolta impensabile».
E lei come l’ha vissuta?
«Noi abbiamo cercato di trasferire nelle istituzioni il nostro modo di agire, il nostro senso dello Stato che, sia chiaro, non porta, almeno qui, benefici elettorali. Se non fai clientele qui in Calabria i voti non li prendi, salvo che in presenza di un vero sistema bipolare».
Oggi cos’è il fascismo per lei?
«Il senso dello Stato, l’ordine».
Dei suoi anni giovanili che salva?
«Ho passato anche dei periodi difficili quando ero segretario giovanile, sono stato federale, responsabile del Fronte Nazionale della Gioventù…».
Ha fatto mai a botte con i comunisti?
«Sì, molte volte negli anni Settanta».
Le ha date e le ha prese…
«Le ho date e le ho prese. Negli scioperi delle scuole, ma poi qui a Catanzaro quando c’è stata la fondazione della Regione. In quell’occasione sono intervenuti fattori esterni. Infatti anche l’attentato all’amministrazione provinciale e la morte di Malacaria, a mio avviso, non provenivano né dalla sinistra né dalla destra ma da “Affari riservati” che cercavano di influire sulla scelta o meno di Catanzaro capoluogo. E furono strumentalizzate le forze di sinistra e le forze di destra».
Nostalgia per il passato?
«No, c’era molto da criticare anche se c’era l’entusiasmo giovanile».
Oggi come si definirebbe?
«Un moderato, molto moderato, di una destra più schierata verso il centro».
Lei spesso si muove molto spregiudicatamente. Alle ultime elezioni comunali un minuto dopo il voto annunciò che avrebbe votato al ballottaggio il candidato dell’Ulivo facendo poi eleggere sindaco Olivo.
«Ciò è dovuto principalmente al bene e all’affetto che ho per la città di Catanzaro. Si correva un grosso rischio, non per il candidato a sindaco Franco Cimino ma per coloro che erano alleati di Cimino e che avevano dimostrato il massimo del trasformismo e che ora si trovavano accomunati non si sa da che cosa. Non si poteva consegnare la città a personaggi di questa specie. Dovevo fare una scelta. O astenermi oppure… Nell’interesse della città optai per Rosario Olivo che conoscevo e che per il suo passato dava tutte le garanzie. Da una parte c’era la politica dall’altra non dico gli affari ma gli interessi c’erano di sicuro».
Pentito?
«Lo rifarei nuovamente anche se sono rimasto un po’ deluso da Olivo che avrei voluto più energico nei confronti delle liste che lo appoggiarono».
Quando non fa politica che fa?
«Sono un collezionista di soldatini di piombo».
Allora è per questo che sta per preparare il museo delle armi?
«Sì. Nel rimettere a posto tutti gli archivi della Provincia, gli scantinati,le statue – ho inventariato tutto – ad un certo punto sono spuntati fuori una sciabola e un fucile antichi. Ho pensato: quasi quasi faccio un avviso pubblico per vedere se qualche catanzarese vuole donare le sue eventuali armi all’amministrazione provinciale per fare un museo delle armi. Hanno risposto in tanti: abbiamo circa seicento pezzi tra fucili, sciabole, pistole, bombe a mano. Abbiamo anche tra le duecento e le trecento divise antiche di valore immenso che vanno dal periodo di Napoleone alla Seconda Guerra Mondiale. Apriremo questo Museo Storico Brigata Catanzaro il 28 aprile».
Sarebbe stato bello che qualcuno avesse donato anche qualche lupara…
«Al questore ho detto che mi dovevano ringraziare perché stavamo togliendo dalla circolazione molte armi».
Torniamo alla collezione di soldatini. Quanti ne ha?
«Quattromila».
Ha anche gli scenari con le battaglie?
«Sì».
Perciò la chiamano generale?
«No, forse mi chiamano così per il modo di agire ma non perché comando».
Viaggi?
«No, mi piace stare qui».
Quanto tempo alla famiglia?
«Poco ai miei due figli. Mia moglie, che è di Brescia e che viene dal Msi, mi comprende».
Vi piace la vita dei salotti?
«No, mia moglie e io non andiamo quasi mai ai ricevimenti».
A chi di An è più legato?
«A Maurizio Gasparri, ma per affetto prima ancora che per la politica».
E Fini?
«Ho un ottimo rapporto, ma Fini ha un carattere completamente diverso da Gasparri, è un po’ più distaccato anche per il ruolo che svolge».
La cosa che la preoccupa di più?
«Non ho mai ricevuto un avviso di garanzia ma la cosa mi darebbe fastidio perché tutta la mia vita è fatta di trasparenza. Ma la cosa che davvero mi renderebbe infelice sarebbe che alla mia andata via dalla Provincia il parco della biodiversità fosse abbandonato a se stesso».
La gioia più grande?
«Che Catanzaro ritorni a fiorire come ai vecchi tempi. Era il centro non solo d’attrazione commerciale ma anche il punto di riferimento politico. In passato la politica era a Catanzaro, oggi non più».
Domenico Graziani
Chi è Domenico Graziani? Il vescovo che realizza un progetto di innovazione economica, o quello che scende in piazza e sfila contro i Dico? L’uomo di chiesa che si intenerisce nel racconto della sua vita e non alza mai il tono pacato della voce, o quello che con lo stesso tono pronuncia parole dure come pietre contro i responsabili del mancato decollo della Calabria? L’arcivescovo di Crotone-Santa Severina è una personalità complessa. Affondato nella sua sedia al primo piano della curia, mentre dal basso arrivano i rumori del vicino mercato, parla di Stendhal e del contadino della Piana di Sibari con la sicurezza della persona di raffinata cultura e dalle idee molto chiare sul da farsi. È nato sessantadue anni fa non molto lontano da qui, di fronte allo splendore dello Jonio.
Che ricordo ha del suo paese?
«Calopezzati è la patria dei miei genitori, io vi sono rimasto poco, praticamente un anno dal 1944 al ’45. Papà, maresciallo dei carabinieri, quando è ritornato dalla Croazia fu assegnato alla legione di Catanzaro, e fino a tre anni dalla pensione il suo servizio si è svolto in questa provincia, ma il nostro rapporto con Calopezzati è stato continuo».
Perché?
«Per l’estate, essendoci i nonni, i zii e poi soprattutto essendoci il mare. Un mare bellissimo, allora molto più bello con la baia intatta. Allora non c’era l’erosione e sulla spiaggia si vedevano sì e no una decina di ombrelloni».
Quindi, vi trasferiste subito da Calopezzati?
«Papà è stato a Nicastro, Sambiase, Gizzeria, Santa Severina, pochissimi mesi a Serra San Bruno, Strongoli e a Torino dove ha concluso il suo servizio».
Che persona era suo padre?
«È stato un uomo di legge, un uomo onesto, non ha fatto favori anche quando ha ricevuto qualche offerta lauta. Noi quattro figli siamo stati impegnati tutti nello studio, e pensi che lo stipendio dei marescialli di una volta non era lo stesso di quelli di adesso. Poi è stato un uomo che la disciplina l’ha vissuta a volte anche eccessivamente all’interno della famiglia».
Era severo?
«Non severo, diciamo molto riservato e molto rispettoso. Le regole le ha accettate e le ha seguite sempre. A quei tempi non c’era la possibilità di pagarsi il vestito in borghese, lo ricordo sempre con la divisa».
Veniamo a lei. Quando ha sentito la vocazione?
«Nella mia famiglia la sensibilità religiosa era notevole. Dalla parte di mia mamma che era orfana di padre a tredici anni e figlia a sua volta di una donna di fede molto robusta: cinque figli, l’ultimo in grembo, una tomolata e mezza di terra, una ciuccia e una casa di trentasei metri quadri con letto, telaio, focolare e il desco, un tavolinetto piccolo da cui tutti attingevano. Una fede biblica, che fa parte del tessuto vitale così come di questo fa parte l’aria. E poi c’era l’abitudine alla correttezza, al rispetto delle regole, delle leggi, al senso della rettitudine, all’indiscutibilità di una vita normata che veniva dal bagaglio culturale di papà, che l’aveva avuta dal nonno, da cui aveva recepito anche delle istanze di tipo operaistico perché nonno mio era comunista: diceva sempre che i preti se la fanno con i ricchi».
E quando seppe che voleva farsi prete?
«I compagni lo prendevano in giro: questo va a suonare le campane. Morì prima di vedermi prete».
Questo è il ceppo, ma bastava a farle avere la vocazione?
«No, c’è stata anche una circostanza soggettiva legata al trasferimento a Santa Severina, dove primeggiava la figura dell’arcivescovo don Giovanni Dadone. Lui, uomo del nord, letterato fine, che per diciassette volte aveva offerto la sua vita in cambio di quella di quaranta capifamiglia rastrellati dai nazisti; e non ci fu nessun eccidio perché i tedeschi per il suo coraggio indomito non procedettero. Ecco, lui si dedicava moltissimo a noi ragazzi chierichetti, ci accoglieva, ci portava a casa, aveva sempre un pensierino per noi, ci regalava anche i coltellini con i quali allora costruivamo i giocattoli».
E lui la scoprì?
«Notò una particolare assiduità mia e di mio fratello. Mandò il suo segretario, don Giovanni Cappogrande, che – felice nota – una volta che sono diventato vescovo si è trasferito con me in diocesi e adesso è in Calabria, a chiedere a papà e a mamma se poteva averci in seminario. Per inciso, di don Giovannino come di questo vescovo parla Carlo Levi in “Le parole sono pietre”: su don Giovannino una pagina intera, il vescovo gli diede un’impressione stendhaliana, lo vide come il funzionario prefettizio mandato inter leones, cosa che non era».
Lei come rispose?
«Dissi subito sì, mio fratello pure ma in terza media cambiò idea: evidentemente non era la sua vocazione, divenne medico».
E i suoi genitori?
«Erano rispettosissimi del vescovo al punto di ritenere che la sua chiamata costituisse la chiamata del Signore. Finita la maturità le scelte furono mie, sempre mie. Mi trovai bene in seminario, quella vita mi apparteneva».
Studiava molto?
«Ricordo che al seminario non c’erano le borse di studio per cui io facevo gli esami fuori per averli. E alla maturità fui il primo in assoluto al liceo Galluppi. Molti mi dissero: ma come, ti vai a sprecare tra i preti? Ma la mia scelta fu confermata e totale. La maturità, poi a Roma per la licenza in teologia, la Gregoriana e la licenza in scienze bibliche. Infine la sede definitiva al seminario di Catanzaro. Dovevo essere ordinato nel 1967, poi ho avuto un prolasso discale molto violento per cui fui ordinato il 5 gennaio del 1968».
Da quello che ha detto si intuisce che la sua non è stata solo una formazione religiosa. È così?
«Ho avuto la fortuna di trovare al seminario di Catanzaro, nonostante l’esiguità dei mezzi, un ginnasio e un liceo di alto livello. C’erano docenti reclutati in ogni parte d’Italia e che rimanevano stabilmente in seminario. Cosicché noi avevamo continuamente accesso alle loro camere: per una qualsiasi difficoltà tu andavi dal docente e questi te la chiariva».
Di qui lo stimolo alla conoscenza, alla lettura.
«Continuo».
Le sue letture preferite?
«Un difetto, se poi è un difetto, fu l’eclettismo. In effetti mi piaceva tutto perché abbiamo avuto professori che ci hanno entusiasmato in tutto. In quarto ginnasio un professore, Platì di Catanzaro, pretendeva che noi in classe con lui parlassimo solo in francese. Lei immagini, un ragazzino che viene dal paese, ambiente rurale, che si trova con altri sei ragazzi e per loro un corpo docente valente e stabile. Letteratura francese a livello scolastico, eccellenti corsi di letteratura italiana, ottimi professori che ci hanno dato il gusto delle lettere, delle lingue classiche».
Gli autori preferiti?
«Dalla letteratura latina alla letteratura greca. Della letteratura italiana soprattutto gli autori classici, della greca le tragedie, Platone. Ho coltivato molto la letteratura moderna afferente alle tematiche religiose, da Dostoievskij a Mauriac a Greene».
Prima di venire al 1999 e al suo arrivo a Cassano allo Jonio rapidamente qualche cenno sugli anni di mezzo che non sono pochi.
«Trent’anni. Gli anni significativi sono stati quelli romani all’interno delle parrocchie romane. I contatti con i gesuiti, formidabili. Un periodo intensissimo, anche di apertura al sociale perché le parrocchie romane macinano molto lavoro, soprattutto nel settore educativo. E lì mi sono divertito con gli scout. Poi c’è stato il periodo di Catanzaro, indicibile se lei pensa che io ho quasi settecento preti alunni dei mille e duecento che costituiscono il presbiterio della regione Calabria. In qualsiasi parte vado trovo gruppi di discepoli».
Dopo Catanzaro?
«Botricello, dove ho fondato gli scout. E lì c’è stata stata la novità di un modello educativo che si è allargato sulle famiglie di una popolazione rurale. Un’epopea. Poi sono diventato parroco di Botricello, costretto da monsignor Agostino. Proprio in quei giorni usciva un mio primo articolo sulla “Miscellanea” dell’Istituto Orientale di Napoli. Avevo tanti articoli pronti. A quarant’anni dovevo interrompere tutto? Dissi no. Ma lui mi obbligò. Da ricordare ancora l’insegnamento alla Certosa di Serra San Bruno e a Scutari in Albania: mi onoro di essere stato con don Raimondo Bertuci, che allora stava a San Lucido, il primo insegnante di teologia dopo il terrore di Enver Hoxha».
A Cassano all’Jonio arriva come vescovo nel 1999. Qui lei trovò un’azienda agricola nata dal lascito nel 1955 dell’ultimo nobile della famiglia Rovitti. Che cosa fece?
«Il patrimonio della Fondazione Rovitti non era della chiesa, ma veniva assegnato al vescovo pro tempore come esecutore testamentario. Oltre mille ettari nella Piana di Sibari, solo 180 ettari di macchia mediterranea, poi zone pianeggianti, irrigue, con colture di notevole rilievo. Il mio predecessore mi aveva lasciato tra le mani una scadenza: l’11 novembre 2002, quando in base alla normativa sui patti agrari in deroga i fittavoli, che erano degli esperti agronomi, avrebbero dovuto lasciare questi beni al vescovo in qualità di presidente della Fondazione. C’era una clausola: chi succedeva nel governo di questo patrimonio doveva garantire la continuazione delle colture altrimenti queste dovevano tornare nelle mani dei precedenti fittavoli».
Dov’era il problema?
«Con il provento di questi beni io vescovo dovevo garantire l’assistenza delle bambine e degli anziani che la chiesa raccoglieva in un istituto a Francavilla. Ma i fittavoli dell’azienda Terzeria, cinquecentosettanta ettari, davano per tutto cinquanta milioni di lire quando percepivano mezzo miliardo solo di integrazione, mentre io ero costretto a mandar via le bambine in terza media tuffandole in tessuti familiari terrificanti. Abbiamo proposto un adeguamento dei prezzi, ottenendo solo quattro milioni in più, per cui abbiamo deciso di gestire direttamente noi».
In tal modo siete diventati imprenditori?
«Dovevamo lavorare per lo sviluppo, ma io non sono né un imprenditore né un agronomo. La Provvidenza ha voluto che, insegnando per vent’anni religione in un istituto agrario a Catanzaro, potessi coinvolgere i miei colleghi. Poi ho trovato agronomi, manager formidabili, uno è il dottor Benito Scazziota di Cosenza, e manager della Compagnia delle Opere».
Per la quale non corrono tempi esaltanti, se pensiamo alla vicenda Why Not.
«Si sta facendo molta gogna mediatica sulla tanto vituperata Compagnia delle Opere. Li conosco ad uno ad uno, vengono dati per delinquenti, è un modo incivile. Proseguiamo. Ho coinvolto il sindaco di Altomonte, Costantino Belluscio, che mi ha detto di essere onorato di collaborare e di concludere i suoi giorni con gente perbene. Ho avuto la collaborazione dei Focolarini, nata dal cuore immenso del professore Luigino Bruni, di Milano Bicocca e di Oxford, che mi ha regalato un corso di economia e comunione frequentato da sessanta laureati. Infine la libera università San Pio V che mi ha dato un corso di metodologia dello sviluppo sociale. Tutti costoro non hanno avuto nemmeno una lira.».
Ha messo in moto un meccanismo virtuoso.
«Tutto quello che ho chiesto mi è arrivato, più qualcosa che mi deve arrivare. E ho trovato tantissima gente del mondo nostro e anche non nostro. Quando ho invitato il professore Pugliese dell’Unical, mi ha detto: guarda che non sono della tua chiesa. E io: non mi interessa, basta che sei competente».
Il risultato?
«Oggi abbiamo un’azienda autonoma, una delle più vivaci dell’Italia meridionale. Cinque tesi di laurea si stanno facendo su quest’esperienza. In due anni si è costituita un’organizzazione dei produttori, “Carpe naturam”, che coinvolge 475 aziende dell’Alto Jonio che dà lavoro a 140 persone, a cui va aggiunto l’indotto. Per la prima volta del nostro riso – siamo i produttori unici dell’ibrido karnak – abbiamo completato le fasi della lavorazione arrivando allo spaccio aziendale. Il riso di Sibari è il più antico di tutt’Italia: a parte il dato storico (nono secolo avanti Cristo), delle nostre risaie abbiamo documenti dell’Archivio di Napoli, con contratti di vendita del 1530».
È la chiesa, anzi il vescovo che gestisce l’azienda?
«Il vescovo, la chiesa, soprattutto i componenti laici. Il miracolo lo hanno fatto loro».
Il terreno è di proprietà della fondazione, l’azienda di chi è? Di una cooperativa?
«No. Ho un’equipe di manager che hanno lavorato con me, per questo progetto di sviluppo. Il lavoro si svolge non per cooperative ma per compartecipazione. Abbiamo intercettato degli imprenditori seri che hanno aderito ai nostri progetti».
Voi gli assegnate un pezzo di territorio?
«No, non facciamo contratti di fitto ma di compartecipazione con un rapporto alla pari. A noi interessa che il progetto vada avanti, a loro interessa realizzare i loro affari».
I profitti a chi vanno?
«Alla Fondazione. E noi in tre anni abbiamo raddoppiato perché dai cinquanta milioni di lire siamo passati ai cinquantamila euro di entrate per le bambine e le anziane ospitate a Francavilla».
A conti fatti alla chiesa ritorna un guadagno tutto sommato limitato anche se prezioso per lo scopo assistenziale che si prefigge.
«Esatto. La novità è che la chiesa in questo modo diventa volano di sviluppo della Piana di Sibari. A Cantinella, per esempio, prima si lavorava tre mesi l’anno, ora tutto l’anno. Produciamo carciofi, ortofrutta. Rana, il re dei tortellini, veniva a comprare da noi, ora mi hanno fatto benedire un camion con rimorchio pieno di teste di cavolo destinate ai tedeschi».
La vostra esperienza nella Piana di Sibari fa pensare a quella di vostri vicini, i Nola, che hanno promosso una cooperativa che coltiva 3.200 ettari e che dà lavoro a 3.500 persone. Da loro la cooperazione, da voi la compartecipazione, tutto avviene qui in Calabria e funziona. Dunque, in questa Calabria si può fare?
«Sicurissimamente. E le posso dire che partendo da questa esperienza e da quella realizzata a Locri da monsignor Bregantini che ha insistito sulla cooperazione, abbiamo elaborato delle linee progettuali per la pastorale del lavoro già approvata dalla conferenza episcopale calabra».
Dell’azienda lei si è occupato come vescovo di Cassano, ora che è arcivescovo di Crotone, se ne interessa ancora?
«No».
Ma ne parla come se fosse ancora lei il responsabile.
«È una mia creatura. Da vescovo mi sono trovato a gestire un settore a cui ero totalmente estraneo. Ho amministrato anche male il mio stipendio di insegnante che non è andato mai oltre le dodici ore, non ho una lira, e adesso come chiesa mi sono ritrovato con i miliardi».
Sulla base di questa sua esperienza, di altre che abbiamo citato e di tante altre di analogo segno positivo, cosa pensa della Calabria che si piange addosso?
«Si piangono addosso quelli che hanno diritto di piangersi addosso, perché non hanno la libertà che fornisce la cultura, sono succubi delle loro situazioni e soprattutto della prepotenza di chi si trova ad avere posizioni di vantaggio inaudite nelle singole città, governate da pochi centri di potere, diciamo da poche famiglie. C’è il pianto serio che muove dall’angoscia delle persone, e che è il pianto di gente desolata, sfruttata, vilipesa, i più miseri dei miseri. A questi bisogna dare voce».
E poi?
«Ci sono quelli che piangono perché sono chiusi in un moralismo bieco, perché in fondo chi piange crede in una missione catastrofica della vita e della storia anche se non se ne rende conto. E quando uno parla in termini apocalittico-catastrofici al presente sciopera. L’ho detto a Isola Capo Rizzato: sono trent’anni che non riuscite a fare un’organizzazione dei produttori di finocchi, tanto sapete che provvedono i sindacati. Li portano a Catanzaro, qui interviene l’assessore di turno e li paga. E conviene lavorare? Quindi, la corruzione di un sistema che ha praticato l’assistenzialismo in una maniera tale che alla povertà ha aggiunto anche la miseria morale».
Chi governa che fa?
«Intanto viene scelto dal cittadino. Qui è l’emergenza culturale vera della Calabria, perché i progetti di bonifica culturale e sociale vanno fatti non in base a un pio desiderio ma con una rigorosa metodologia. In Italia abbiamo dei master, delle sezioni di specializzazione della metodologia dello sviluppo che sono di grandissima valenza. Una mia collega di Napoli, Giuliana Martirani, assistente prediletta di Compagna, mi diceva: tu vuoi le cose ed essere libero dalla mafia? Vola alto, perché se tu voli alto e con te ci sono persone che sono competenti la mafia non ti tocca».
stato così?
«La mafia non mi ha toccato mai, mi hanno toccato alcuni o, meglio, hanno cercato di toccarmi alcuni colletti bianchi. La burocrazia è la vera mafia, la burocrazia parassitaria, pigra, che non fa avanzare i progetti. E poi c’è un discorso sui politici. C’è molta gente seria, però ognuno è isolato e qualcuno per farsi avanti ha avuto bisogno di mettere negli armadi qualche scheletrino per cui non è libero dai poteri forti, che in questa regione sono forti, forti, con situazioni di schiavitù che sono inimmaginabili, anche tra chi occupa posizioni apicali».
Massoneria?
«Tra i massoni bisogna fare una distinzione. Posso dire anche che all’interno della massoneria va avanti una revisione critica. Dove arriverà non lo so. Non ho paura dell’intelligenza perché questa porta con sé la verità. L’uomo intelligente di fronte alla verità si inchina».
Per Crotone quali progetti ha?
«Ne ho tanti. Crotone è una città più desolata rispetto a quello che si immagini. Però c’è anche più ansietà e più disponibilità alla speranza. C’è un esercito di persone che vengono a portarmi i loro progetti e le loro idee, mi coinvolgono in tutto».
Per Crotone potrebbe esserci una nuova stagione?
«In cinque anni potremo avere novità sul tema della reindustrializzazione. Da Brescia e Ivrea ci hanno assicurato collaborazione. Abbiamo un modello – penso al mio amico Savino Pezzotta – che è quello di suscitare l’interesse delle persone. A Cassano in un mese ci ammazzarono quattro ragazzi. Era gennaio, il tre febbraio c’era la festa di San Biagio, la sera precedente mi telefonò un signore che non volle presentarsi e che mi chiese per l’indomani una parola di speranza. Lo feci. Dopo quattro giorni sono arrivati esponenti di associazioni, ci siamo uniti ed è nato il forum delle associazioni. Non sono un sognatore».
Monsignore, apertura al sociale, innovazione, lotta agli usurai (ha creato una fondazione), associazionismo, viene da pensare al nonno comunista, e poi lei sfila in piazza contro i Dico…
«Come la mettiamo? Le dico subito. Per la stessa esigenza di libertà. Intanto non ho guidato la sfilata organizzata dalla consulta diocesana per l’apostolato dei laici, li ho accompagnati. Nel mio intervento ho detto che la mia ribellione non era contro una proposta di legge ma sul metodo. Perché pur essendoci tanti modi di difendere le convivenze omosessuali, si voleva in tutti i modi farle entrare nel diritto familiare. E questo aveva un carattere prettamente ideologico. Io manifestavo la mia opposizione a questo carattere ideologico. Vogliono convivere da omosessuali, certo non da cristiani? Io rispetto la loro decisione perché il mondo è vario, però non dovete venirmi a dire che l’unico modo da adottare per queste unioni sia quello del diritto familiare. Ho compiuto un’inversione di campo? Ho semplicemente esercitato la libertà di cittadino italiano che manifesta le sue opinioni. Faccio politica? Manco per sogno. Tant’è che il Family Day di Roma ha ricalcato quello di Crotone. Un’autentica festa, e se un gruppetto di giovani ha messo uno striscione non l’ho commissionato io».
Migrantes. Lei se ne occupa con precise responsabilità.
«Sono responsabile nazionale per gli zingari. Ne arriveranno a milioni dalla Romania e dal mondo nomade in genere. È un’emergenza epocale. Penso che non siamo pronti. Ma non possiamo risolverla con i soldati e con i kalashnikov sulle spiagge. Occorre innanzitutto stabilire delle relazioni con i paesi di origine e modificare i caratteri dell’Unione Europea che ora è un mercato comune europeo. Il primo diritto da salvaguardare è quello alla vita».
La carità. Nel caso delle sue esperienze economiche quanto c’entra?
«C’entra tutta ma nel significato più propriamente biblico. Carità non come assistenza, come elemosina, ma come amore o, meglio, come trasparenza dell’amore di Dio dal quale una persona si sente invaso. Le confido un particolare. Quando stavo per nascere, mi dovevano uccidere perché mi ero messo in posizione sbagliata. Le conoscenze ostetriche erano molto limitate. Mia mamma Michelina si accorse che stavano preparando la stanza e che si accingevano ad andare a prendere con un calesse a Rossano il professore Casciano che doveva uccidermi. Si è ribellata, si è alzata, sarà stato il movimento ma io sono nato, tant’è che una zia che faceva la mammana disse: ma che lo chiamate a fare, non vedete che il bambino sta nascendo. E sono nato. Bastava niente, un attimo di distrazione di mia mamma e non c’ero. Lei adesso ha 94 anni, piena di dolori, non le diamo medicine perché, con due femori e un braccio rotti, sopporta le sofferenze, e quando le chiedo come sta, risponde: io ringrazio Dio faccia ‘n terra».
Quanto vuole bene a sua madre?
«È indicibile, è indicibile».
E a Cristo?
«Gli ho dato tutta la vita. Tutta».
Maurizio Barracco
È il barone calabrese per antonomasia. Il latifondo di suo padre si estendeva dalla Sila a Cotone, oltre trentatremila ettari che da una sera alla mattina, con la riforma Gullo, diventarono poco più di duecento ettari. Storici e saggisti, politici e giornalisti nel tempo hanno citato il cognome della famiglia per associarlo all’idea della rendita parassitaria, deleteria per l’economia calabrese e per i suoi abitanti. Solo da qualche anno è in corso una revisione del giudizio anche perché la frantumazione della grande proprietà, che si esprimeva anche con i caratteri di azienda pre-capitalistica, si è dimostrata un fallimento al punto che se qualcosa di buono sta accadendo da qualche tempo è solo perché si vanno riformando grandi aggregazioni di terre, uomini e risorse anche nella vicina piana di Sibari, capaci di tenere il passo con il mercato nazionale ed internazionale. Maurizio Barracco non si sottrae a questo discorso, anzi è prodigo di documentazione per dimostrare che il latifondo, e quello della sua famiglia in particolare, non era il ricettacolo di tutti i mali. Lo fa, come anche sua moglie Mirella più volte ha voluto sottolineare, con lo spirito in ogni caso di onorare un debito nei confronti della Calabria. Il fatto è che lui è un calabrese fin nel midollo. E dire che a Napoli ha attività imprenditoriali di primo ordine, ha fatto miracoli nel trasformare un’azienda come l’acquedotto di Napoli da un colabrodo con 250 miliardi di lire di debiti in un gioiello che ha ridotto la dispersione della rete al 17 per cento e ha investito 125 milioni di euro, e ha una dimora bellissima, forse la più bella della città. Il suo orizzonte è amplissimo: ha interessi nell’editoria, dal Corriere della Sera al Corriere del Mezzogiorno, è amministratore di una banca al Cairo, è presidente onorario di Federculture e ricopre altre innumerevoli cariche il cui elenco richiederebbe buona parte dello spazio di quest’intervista. Naturalmente parla di tutto questo, ma è come se descrivesse la cornice, il quadro a cui tiene è questa terra che di fatto considera la sua casa.
Anche se non è nato in Calabria.
«Sono nato a Roma per il pericolo dei bombardamenti. Roma era una città esente da questo rischio in quanto sede del Vaticano. L’unico bombardamento, anche se lieve, ci fu il 7 agosto 1943 quando sono nato io».
Da dove venivate?
«Mia madre era piemontese, figlio di un generale del Corpo di armata, la Quarta, a cui molte volte si attribuisce la disfatta di Caporetto: lui era un signore molto simpatico, viveva a Torino e aveva naturalmente anche una casa a Roma. La madre di mia madre, famiglia de Robilant, era proprietaria del Palazzo del Grillo, un edificio famoso del vecchio Marchese del Grillo, che era stato caserma dei carabinieri e che poi mia nonna aveva comprato e ristrutturato».
La sua educazione dove è avvenuta?
«I primi dodici anni, cioè elementare e media, al Pontano di Napoli. A dodici anni purtroppo mia padre morì, mia madre rimase sola, con tutti i guai che derivavano dalla riforma agraria con pagamenti di tasse e cose assai gravi, e io andai in collegio in Veneto: sono stato educato, vicino ad Asolo, a Paterno del Grappa, nel collegio di monsignor Filippini, dove sono stato cinque anni facendo il ginnasio e il liceo. L’università, ho fatto prima Legge a Napoli, poi un master a New York in “business administration”, poi Scienze politiche di nuovo a Napoli ma ho interrotto quando mi mancava solo la tesi di laurea. Avevo ventisei anni lavoravo a Roma e quel giorno non andai: il mio relatore era Paolo Tesauro».
In questo caleidoscopio di regioni e stati che posto aveva la Calabria?
«Era la mia patria di origine. In fondo io sono un bambino latifondista, ho sentito raccontare il latifondo e l’ho visto parzialmente fino all’età di sette-otto anni. Era una cosa rivolta al passato. Venivo molto spesso, delle volte i miei esami più impegnativi di legge li ho fatto studiando a Capo Rizzuto dove avevamo una casa. E ogni anno venivo a passare sia agosto che il Capodanno qua. Un legame continuo, di affetto e non di interessi perché ormai questi erano pochi».
A proposito di latifondo, quali difficoltà ricorda per la sua famiglia?
«Erano molto grosse. Vivevo soprattutto l’amarezza di mio padre, nato nel 1885 e morto nel 1955, a settant’anni, quindi cinque anni dopo il grande esproprio. Un’amarezza profonda che gli fece fare anche dei gesti simbolici molto forti».
Ne racconti uno?
«Noi avevamo una magnifica razza di vacche podaliche, mio padre fece affogare tutti i tori a Isola Capo Rizzuto purché non si diffondesse la razza. Finito per finito, visto che sono stati così ottusi tutti i tori simbolicamente furono affogati».
In realtà suo padre pagò un passato che era diventato emblema di sfruttamento parassitario del territorio e degli uomini.
«Pagò tutto affettivamente. Mio padre era non particolarmente vicino all’insieme perché si è sposato molto tardi, dopo i cinquant’anni, e quindi pensava ad una vita in cui quello che aveva era sufficiente per lui. Uno dei problemi veri è che non ha mai pensato ad un futuro sia della famiglia sia di un eventuale figlio sia della moglie. Incontrò mia madre a Parigi, e mia madre pensava di aver sposato un uomo ricco e che invece nel tempo sarebbe stato pieno di guai, che lei da donna piemontese dovette affrontare in prima persona in Calabria».
Mi parli di questi guai.
«Il primo fu la patrimoniale progressiva nel 1950 su terreni che ormai non avevamo più. Quindi, l’indennità di esproprio, soprattutto dei boschi che erano circa cinquemila lire a ettaro, in parte non fu sufficiente anche perché buoni terra che furono dati in cambio in effetti non avevano un gran valore sul mercato: dovemmo ricorre a una banca finanziaria, che era la Scaletti, che li scontò col 35 per cento in meno. E le cinquemila lire meno questo 35 per cento furono utilizzate per pagare la patrimoniale, che nel ’50 ammontò a un miliardo e cento».
Una mazzata per suo padre.
«Mio padre soffrì moltissimo innanzitutto perché come tutti i calabresi parlava pochissimo e soffriva internamente. E siccome era un padre vecchio dedicò gli ultimi dieci anni della sua vita a crescere questo figlio che gli era capitato per caso: mia madre aveva 47 anni quando io sono nato, e mio padre quasi 57».
Come le raccontava questa vicenda?
«Era più mia madre a farlo. Mio padre comunicava affettivamente. Lui era un ottimo cacciatore e mi insegnò a sparare. Vivevamo assieme. Era bravo in latino, le mie prime difficoltà di latino durante le medie le abbiamo affrontate assieme. Aveva una vecchia radio e si appassionò molto al campionato di calcio, si scriveva i risultati delle partite per farmeli vedere quando tornavo il sabato e la domenica perché sapeva che mi faceva piacere. Lui visse per me, mentre mia madre correva da tutte le parti affrontando i guai come le liquidazioni dei tantissimi dipendenti».
Mi fa capire quale fu l’opinione che lei si fece all’epoca dell’esproprio e se poi e quando l’ha sistemata storicamente in maniera più accurata?
«La mia prima reazione è di carattere istintivo che mi ha fatto scegliere un’impostazione di vita di lavoro non calabrese. Ma non era un giudizio di merito sul latifondo, piuttosto un giudizio pratico perché non ci sarebbe stato futuro per uno che avrebbe voluto fare una carriera su un’impresa che non c’era più, e il latifondo era un’impresa. Poi man mano nel tempo gli animi si sono placati, le avversità erano superate e anche con quelli che avevano occupato le terre, da Fermariello al senatore Poerio, abbiamo avuto tanti rapporti e ripensamenti vedendo le colpe di quello che era stato il latifondo, soprattutto nell’ultimo periodo dopo le leggi protezionistiche di fine Ottocento fino al 1950, da una parte, e dall’altra parte anche l’occasione perduta della riforma agraria che era stata una buona idea, quella di colpire pochi e di effettuare un vero salto di qualità nel governo di un programma di sviluppo della Calabria, ma che per la fretta di vincere le elezioni e tutta una serie di ragioni fu fatto male. Sbagliò anche il professore Rossi Doria perché la fretta non è mai una buona consigliera».
La sua critica più concreta?
«Le dimensioni degli appezzamenti espropriati erano troppo piccole, l’idea di vivere con una casetta isolata sul proprio podere mediata dal fascismo in Calabria non andava bene perché la sera volevano tornare tutti in paese, quindi tutte le case sulla costa sono state abbandonate da Isola Capo Rizzato fino a Catanzaro, e quelle montane in questi piccoli villaggi di venti-trenta case anche quelle avevano poderi troppo piccoli perché cinque-sei ettari di bosco non errano sufficienti per vivere, e anche questi sono abbandonati (oggi a Croce Magara c’è una famiglia ogni trenta case e a Pino Romito è lo stesso). Una buona idea mal realizzata, e per di più con la trasformazione dei prodotti e la commercializzazione in mano all’Ovs (l’Opera Valorizzazione Sila) diventate un fallimento. Hanno fatto consorzi per la produzione del vino o delle patate, ma tutto questo non era dentro un piano strategico, il nostro mercato dell’offerta era troppo debole».
Una conclusione amara per lei e per la Calabria?
«È quella cui sono giunto prima da solo e poi parlandone con altri, e infine c’è il libro di Marta Petrusewicz, “Il Latifondo”, che è il risultato di una ricerca durata undici anni e che è stato pubblicato in America, perché dopo i libri di Kula è estremamente interessante vedere che cosa fosse il latifondo. Perché il latifondista nasce dopo le leggi che distruggono il feudalesimo. Il latifondo era un’impresa, e il latifondista non era né un borghese e né tutto sommato un feudatario ma un impresario, un vero capitano d’industria, che fra l’altro aveva il consenso di tutti: noi avevamo un migliaio di dipendenti, alcuni veri e propri dipendenti e altri tra il 1806 e il protezionismo gente a cui si dava la terra per un’ampia gestione».
Questo era l’aspetto positivo, ma…
«No, l’aspetto positivo era anche la flessibilità e la modernità perché non era solo un’azienda agricola perché noi avevamo la seta e la liquirizia che erano prodotti di particolare interesse internazionale. E la gestione nostra era diretta, facevamo perfino i noli per portare la merce sui mercati sia di Genova sia di Milano sia per l’esportazione per l’America e l’Inghilterra: la liquirizia era fondamentale per la birra scura, poi dopo si trovò il surrogato e calò il mercato. Ma fino al 1870, anzi fino alle leggi protezionistiche, per ottant’anni il latifondo è stato anche un ammortizzatore sociale perché era garante dell’ordine pubblico e dello sviluppo sociale».
Nessuna colpa?
«Una che si ritrova in quel periodo e che si accentua sempre di più dopo, è che è stato responsabile dell’arretratezza culturale, perché il latifondista, essendo un imprenditore illuminato, curando troppo i suoi interessi non ha mai preso in carico l’aspetto sociale della gestione del territorio. Aveva solo interesse a che ci fossero più abitanti. Il nostro latifondo esprimeva un’idea moderna di territorio, che andava dalla Sila fino a Isola Capo Rizzato in continuità: quindi, la transumanza avveniva senza bisogno di chiedere il permesso ad altri. Siccome vigeva il maggiorascato (tutti i beni al primogenito, ndr) nelle mani di mio padre confluì la più grande estensione di proprietà mai avuta in Italia: trentatremila ettari».
Quanti ve ne sono rimasti?
«Duecentosettanta. E centosettanta ettari che erano l’uliveto di Isola Capo Rizzato che non riuscirono ad espropriare perché non era trasformabile. Le due condizioni per l’esproprio erano: da una parte che era un riequilibratore sociale e dall’altra che erano terreni abbandonati che si potevano trasformare».
Ma se era un’azienda moderna perché c’era bisogno di riequilibro sociale?
«Era modernissima, poi dopo il 1887 il sistema protezionistico determinò il decadimento del latifondo. Noi esportavamo i prodotti migliori sui mercati esteri e vendevamo sul mercato interno i prodotti di largo consumo, la legge protezionistica ci inimicò tutti i mercati esteri e a quel punto il latifondo andò in crisi. Noi non avevamo più possibilità di fare società perché i prodotti non si vendevano e quindi ci fu un esborso di capitali molto più ampio per tenere in piedi le attività. Bisogna anche aggiungere che la famiglia di mio padre, come forse altre famiglie, vivevano poco qua e quando ci fu l’ultima guerra e l’Italia fu tagliata in due, noi per cinque anni non venimmo qua».
Suo padre dove viveva?
«Normalmente a Napoli. Non aveva un interesse alla Calabria, essendo poi solo e vecchio, ma anche gran parte della propria vita la visse parte a Napoli parte a Milano e parte a Parigi. Il suo era un interesse soprattutto di carattere culturale e dello svago. Non aveva più stimoli. Non gli interessava neanche il debito o la cambiale perché il latifondo era molto vasto».
Veniamo a lei. È napoletano, non ho capito se più napoletano o più calabrese…
«Io mi sento profondamente calabrese, di napoletano c’ho una moglie».
Mirella, che è un incontro fondamentale?
«Sì, da molti punti di vista».
Quando l’ha conosciuta?
«Nel 1964. Quando torno dal master in America e mi offrono un lavoro meraviglioso di amministratore delegato della Veedol Lubrificanti con sede a Roma e mandato di risanarla e venderla in due anni, cosa che feci. Poi avevo avuto delle offerte in varie aziende a Milano, e con mia moglie, che ancora non lo era perché ci sposammo nel 1972, dovemmo fare una scelta di fondo, se vivere a Napoli dove avevamo una grande attrattiva che era la casa e i parenti di Mirella (io di famiglia avevo poco), e decidemmo di vivere a Napoli».
Fu un amore a prima vista?
«Sì. Ormai sono quarantatré anni che stiamo insieme».
È stata lei a trascinarla in tante iniziative con la sua vivacità culturale?
«È stata fondamentale. Lei insegnava prima a scuola e poi letteratura inglese all’università, e ha sempre avuto passione per le iniziative culturali e mi ha fatto capire quanto fosse importante lavorare in questo campo. Voglio dire l’analisi degli aspetti negativi del latifondo e penso a quello che noi ex latifondisti avremmo potuto fare se avessimo preso in carico dallo Stato l’aspetto culturale e sociale. E questo è valido per il latifondo come per l’Italia. Nel nostro paese siamo senza un progetto di sviluppo, e un progetto di sviluppo che prende la cultura come base che viene dal passato e ci proietta nel futuro sarebbe fondamentale, lo sarebbe stato per l’agricoltura, lo sarebbe stato per l’industria, lo sarebbe stato anche per l’ambiente. Non l’abbiamo mai fatto perché siamo sempre protesi al presente e non pensiamo alla grande».
Che è l’idea di fondo della nascita della Fondazione Napoli Novantanove. Mi sbaglio?
«Nasce nel 1984 e ci fa capire l’importanza del collegamento della città attraverso la cultura con l’estero, e mi riferisco anche a città solitamente avverse a Napoli. E questo non era capito molte volte dagli intellettuali. La Capria ci disse: ma perché non vi preoccupate di monnezza e di traffico? Noi pensavamo che l’esigenza era più ampia. Il nostro primo presidente è stato l’inglese Fancis Haskell, uno dei più grandi storici dell’arte. Il secondo è stato il francese Maurice Aymard».
L’idea era di ridare a Napoli un ruolo all’altezza dell’antico ruolo di capitale europea?
«Certo. E pensammo di farlo con il restauro dei beni culturali che allora non si faceva. La Soprintendenza spendeva 250 milioni l’anno, noi portammo tanti soldi: il restauro dell’Arco di Alfonso di Aragona costò un miliardo e trecento milioni. Era un modo di recuperare l’identità che è un problema del Mezzogiorno e anche della Calabria. Se non si recupera l’identità di amare di essere calabresi con un programma di sviluppo non c’è nessun futuro».
Da Napoli alla Sila, un metodo di intervento che viene trasferito nel parco Old Calabria. Come avviene?
«La Fondazione apre spiragli internazionali, prima con “Monumenti porte aperte” si portano circa un milione di persone a Napoli nel 1992-’93 e poi con l’iniziativa “La scuola adotta un monumento” che è stata introdotta in tredici paesi d’Europa e in 330 comuni italiani. L’idea calabrese nasce un po’ per caso perché mentre a Napoli non ci siamo mai voluti dotare di una struttura stabile e puntavamo sull’elasticità e la possibilità di cambiare i programmi, in Calabria abbiamo pensato che fosse necessario qualcosa di stabile, un luogo fisico, un simbolo, anche perché non avevamo nessuno qui, perfino odiati per certi aspetti del latifondismo, però certamente debitori nei confronti della Calabria. Il nostro, quindi, è un ritorno verso il pagamento di un debito, ed è l’impegno più grande. Prima è nato un parco letterario che unisce un territorio abbastanza ampio e va dal Pollino ad Isola Capo Rizzato, con cultura magno-greca, cultura bizantina, cultura brutia. La seconda cosa che nasce insieme a Gian Antonio Stella, ed è il Museo dell’Emigrazione, che racconta la storia drammatica del grande esodo che inizia proprio dalle leggi protezionistiche, quando i proprietari terrieri, con Giovanni Barracco in testa, furono dissenzienti perché capirono che avrebbero rovinato le loro aziende però non votarono contro ma si assentarono».
Nella sua ricchissima biografia si ritrovano innumerevoli responsabilità di gestione di aziende, banche, giornali. Si è fatta un’idea di come la Calabria possa uscire dall’isolamento?
«Vedo le difficoltà dell’imprenditore da imprenditore. Quella dell’imprenditore del Sud è un’esperienza ad ostacoli. Ha un handicap colossale. Il primo è rappresentato dalle difficoltà infrastrutturali: tra quindici anni avremo un’autostrada che avrà una corsia di emergenza, si parla di aeroporti ma non sono a regime e non c’è un piano, i treni per la distribuzione delle merci manco a parlarne. Siamo degli handicappati. Il secondo handicap è la burocrazia che non se ne può più: se devo mettere un impianto fotovoltaico non so quando mi danno la concessione, se me la danno, che infrastrutture servono? Tempi della burocrazia eterni e la mediazione della politica non facilita il compito dal momento che c’è un tale frazionamento del potere perché prima il latifondista decideva, qua non decide nessuno. Terzo handicap, ed è il maggiore, il sistema bancario».
Da amministratore di banche importantissime, l’affermazione è impegnativa.
«Infatti, io conosco da dentro il sistema bancario. In Italia le banche non hanno mai operato come meccanismo d’impresa, ma hanno sempre fidato il loro fido sul patrimonio e mai sul progetto. Questo ha comportato l’arretratezza del Mezzogiorno negli ultimi cinquant’anni. E i tassi sono più alti, ed è anche giusto se uno non analizza il rischio. A monte di questi tre handicap c’è la mancanza di una strategia sul territorio, anzi c’è la sua devastazione. A completare il quadro ci sono in Calabria ammortizzatori sociali che non incentivano lo sviluppo: qui ci sono sessanta tipi di provvidenze. È un sistema che non funziona. Chi vuol sopravvivere può farlo restando a casa, gli altri, quelli capaci, sono costretti ad andar via».
Ma come si potrebbe ovviare?
«Anni fa il deputato Barbieri ha fatto una proposta saggia: facciamo un solo tipo di provvidenza. Se perdi il lavoro, io ti assisto e ti formo per un anno e ti indirizzo verso settori in via di sviluppo».
Prima parlava di banche. Lei ha anche un’esperienza in Egitto come amministratore di una banca di sviluppo con seimila dipendenti. La situazione è diversa?
«In Egitto c’è un problema assai interessante di politica: finché non c’è una democrazia di tipo occidentale ed esiste un controllo abbastanza totalitario, il rischio del fondamentalismo non c’è. Oggi i paesi che si affacciano sul Mediterraneo (Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco) hanno bisogno di uomini di governo molto forti altrimenti il fondamentalismo nel tempo con un processo democratico tradizionale prende la maggioranza. È un’analisi della democrazia totalmente diversa, è l’analisi che ha spinto l’America a finanziare Saddam Hussein e poi, non si sa perché, a buttarlo giù».
Questo è lo scenario politico, ma a livello di banche e di imprese che succede?
«Il modello di impresa purtroppo deve essere proiettato sui quattro-cinque anni per cui il momento della decisione deve essere rapidissimo. Quindi, dal momento in cui l’imprenditore fa la domanda nell’arco di dieci giorni deve avere la risposta».
E voi gliela date?
«Certo. Questa è la regola in Egitto, al massimo possono trascorrere quindici giorni».
Non lo dica in giro altrimenti tutti gli imprenditori vengono al Cairo.
«In Italia tutto è più complicato. Abbiamo un sistema ingessato».
Oltretutto l’Italia è un paese lento se si pensa alla velocità della Spagna. Per non parlare del nostro Sud.
«Poi se passa attraverso la mediazione politica tutto diventa ancora più complesso. C’è troppa ingerenza. La politica è una delle cose più nobili, ma nasce per programmare non per gestire né in proprio né per conto terzi. È tutto qua».
Cambiamo argomento. Come si vive in una casa, la sua villa di Posillipo, dove vengono ospitati uno dietro l’altro i presidenti della Repubblica? Per esempio, Ciampi.
«Mi ha fatto grande ufficiale. È un’antica amicizia prima che diventasse capo dello stato. Non aveva cariche allora, e venne per cinque anni, ogni Capodanno, da noi».
L’amicizia con Napolitano è più facile trattandosi di un napoletano.
«È stato il primo che come presidente della Camera affidò i monumenti ai ragazzi delle scuole di Napoli nella Cattedrale di Santa Chiara. Aveva una sensibilità particolare. Lui si ricorda ancora quel momento molto commovente davanti a oltre mille ragazzi: ognuno ebbe una pergamena dalle sue mani con l’affidamento temporaneo di un monumento. Lui ci conosce abbastanza bene. Io spero che venga in Calabria».
Ecco, ricordo che poco dopo la sua elezione una delegazione calabrese andò a visitarlo e Loiero disse dopo che la prima visita che Napolitano avrebbe fatto sarebbe stata in Calabria. L’attesa continua.
«Credo che è un momento particolarmente difficile per la Calabria e anche per la leadership nel senso che qui gli intrecci sono infiniti. Non credo che il presidente napoletano venga per questo ma certamente la situazione è particolarmente complessa in Calabria ma anche in Campania. Ci sono dei dati impressionanti. L’investimento totale che viene dai fondi europei è di 76.997 milioni di euro. Ma dove sono, se il divario tra Nord e Sud aumenta? Sono una valanga di fondi. Le agevolazioni a fondo perdute sono state pari a 32.968 milioni di euro. Ma dove sono andati a finire questi soldi? C’è una responsabilità politica di tutti. Conosco il pensiero del presidente Napolitano e noto un certo imbarazzo».
Tra i suoi fiori all’occhiello ci sono i risultati della presidenza dell’Arin, l’acquedotto di Napoli, che, stando ai numeri, presenta un bilancio anomalo per Napoli e per il Mezzogiorno. Come ha fatto? Sembra quasi un’azienda privata.
«Il comune di Napoli è proprietario del cento per cento delle azioni. Sull’acqua ho idee particolari. Serviamo circa due milioni di persone, abbiamo quattrocentomila contratti, una situazione molto diversa dalla Calabria dove non ci sono concentrazioni demografiche ed esistono aziende piccole e spesso obsolete. Mi meraviglio però che a fronte di una ricchezza d’acqua straordinaria qui in Calabria possa mancare l’acqua. Se non pensi al futuro e non pianifichi, questi sono i risultati. A Napoli abbiamo costituito una società di lavori, la più grande del Sud, con cento dipendenti e attualmente 140 milioni di investimento, per migliorare la rete sia di Napoli che dell’adduzione».
Dalla Calabria le è mai venuta qualche proposta di collaborazione o di lavoro?
«No, no, mai. Delle volte si richiedono degli interventi che sono più rivolti all’immagine e che non una vera compartecipazione alle idee. È singolare per un calabrese come me, spero in un cimitero a Camigliatello Sila per andarci, si farà, si faccia a tempo…».
Secondo lei, la bellezza è una risorsa della Calabria?
«No, io credo che il territorio sia una grande risorsa che però va attentamente valutata. Come Federculture abbiamo avviato un progetto di valutazione, di rating del paesaggio su parametri obiettivi. Questo sarà l’aspetto più difficile perché i finanziamenti si daranno ai Comuni che tengono all’eccellenza».
Cosa le piace della Calabria?
«Intanto rispetto al napoletano la grande differenza è la profondità umana che il napoletano ha di meno. Invece qua se si passa l’esame è duratura. Dietro la scorza c’è la possibilità di avere rapporti profondi».
Ha molti amici qui?
«Pochissimi, però ho la sensazione che si possano creare delle vere amicizie, anche in vecchiaia».
In gioventù in America lei ha fatto corse automobilistiche?
«No, facevo il pilota di aerei privati. Volavo, se serviva, anche per conto terzi».
Le cose che ama fare di più?
«Mi piace molto l’attività della Fondazione e del nostro impegno per la Calabria, che è il risultato di un dovere verso la Calabria e anche per la passione che Mirella mette in queste cose trascinandomi e obbligandomi al dovere di calabrese».
Che sarebbe stata la sua vita senza l’incontro con Mirella?
«Una vita dissoluta, come quella di mio padre fino all’incontro con mia madre. Sono stato fortunato ad averla incontrato a ventitré-ventiquattro anni».
Andate sempre d’accordo?
«No, abbiamo molti conflitti ma mai sulle scelte».
Il difetto di Mirella?
«Sogna di essere una decantatrice ma in effetti è un’accentratrice».
Il pregio?
«Una grandissima umanità, un senso del dovere e una capacità d’amore infinita».
Il suo difetto?
«Uno solo? Il mio pregio è la curiosità sia per le persone sia per le cose, che mi spinge ancora adesso dappertutto. Il mio difetto principale è aver pensato un po’ troppo o sempre a me e poco agli altri. L’egoismo è uno dei miei difetti principali. Ne ho anche molti altri».
Se dovesse dare un consiglio a chi governa la Calabria che direbbe?
«La Calabria non ce la può fare da sola. Deve rientrare in un piano strategico nazionale che sia fondato sulla cultura del progetto. Altrimenti l’Italia è destinata a un regresso sia economico che qualitativo di vita e a una futura seria povertà se non riduce i consumi invece di aumentarli».
Una visione spartana del futuro.
«Le racconto un episodio. Ero l’amministratore delegato di una società tedesca dell’Est, Zeiss Jena, che versava in condizioni pietose e che andava salvata, e vivevo tra Lipsia e Weimar, che mi piaceva moltissimo. Una delle ultime volte che andai venne con me Franco Piperno, che a modo suo c’aveva provato nel sovvertire le ingiustizie. Io guardo con rispetto ogni tentativo di cambiare l’attuale. Quando tornammo in aereo gli dissi: Franco, se tu volessi un sistema di governo che cosa sceglieresti oggi? Lui mi guardò e mi rispose: l’autodeterminazione. Pensai che era del tutto irrealistico, ma ogni tanto mi viene la tentazione che forse aveva ragione. L’autodeterminazione è un principio anarchico. Venendo da lei mi sono chiesto: che cosa devo in estrema sintesi dire? Ecco, ho un dubbio, forse… Io penso che se non ci fossero i semafori a Napoli non succederebbe nulla. Intendiamoci, penso che sia utile ridare all’individuo la propria responsabilità civile e non delegarla».
A me sembra un’utopia.
«Certo, sarà così. Però ad un certo punto se ognuno facesse il cittadino… Se la Calabria non partecipa ad un progetto di carattere generale è morta. E poi serve un cambiamento generazionale».
Non abbiamo mai parlato di delinquenza. È davvero questo il male principale di questa terra?
«È un problema che sta diventando assai grave perché è più grave l’indebolimento della struttura decisionale. La ‘ndrangheta ha adottato una strategia più di carattere internazionale che nazionale. Ed è un gran serbatoio di soldi accumulati. Mano mano si vedono degli acquisti straordinari, dei personaggi che oggi in grande evidenza, e nel tempo si vedranno sempre di più acquisizioni magari da catene internazionali di piccole filiali. Non credo che sia un meccanismo irreversibile. Con una politica forte si potrebbe anche tentare una riconversione».
In che senso?
«Riportando determinati investimenti di natura illegittima in forma legittima. Ma bisognerebbe avere molto coraggio e oggi non c’è nessuno che l’abbia. Diciamo pure che alcuni inizi di riconversione, in Campania ma forse anche in Calabria, sono avvenuti nel campo dei rifiuti o della movimentazione dei mezzi di terra con imprenditori che hanno il certificato antimafia pulito. È già un fatto che riguarda le seconde generazioni».
Più che di coraggio si dovrebbe parlare del rischio che i malavitosi così ripuliti finiscano poi con il prendere il sopravvento. Non le pare?
«Sì, però mi domando: oggi è molto diverso?».
Lei è molto pragmatico.
«Perché lei crede che oggi quelle persone non abbiano il controllo totale del territorio?».
Proviamo a finire con un po’ di speranza. Suo padre in un gesto di disperata amarezza affogò i tori per far sparire la pregiata razza di mucche. Lei ha mai pensato di far rinascere quei tori?
«No. Non ho mai rivolto lo sguardo dietro. Mai, non mi interessano le fotografie, né i filmini di quando eravamo piccoli».
La sua Calabria ora è su quella Nave del museo dell’emigrazione.
«È su quella nave. Un progetto di sviluppo si potrebbe immaginare. Ma con chi farlo?».
Lei ha due figlie. Si chiamano?
«Chiara e Sila».
Più legame di così.
«È eterno. Anche loro lo sentono abbastanza».
Giacomo Mancini jr
Era la sua casa, nel cuore di Cosenza antica, a pochi passi da quella piazza delle Vergini dove dal suo balcone aveva visto il fervore che animava la Camera del Lavoro e nascere la sua voglia di far politica. Una dimora vecchia, consumata dal tempo, che si affaccia sul liceo Telesio, tappezzata di libri, i suoi e quelli del padre Pietro. Libri non di arredo, ma consumati dall’ansia di sapere, approfondire, conoscere. Libri che fanno ricordare la casa di un altro grande socialista, da lui non proprio amato, Francesco De Martino, e che parlano di un modo di fare politica che prima di ogni altra cosa era cultura.
Giacomo Mancini, lei porta un nome importante, pesante. Quanto pesante?
«Con mio nonno ho sempre avuto un rapporto molto bello e corretto, senza alcun retropensiero né da parte mia né, ancor di più, da parte sua. Tra l’altro superando entrambi difficoltà di tipo caratteriale: lui era una persona anche molto chiusa, come in qualche modo lo sono io, timido, riservato. L’ho visto sempre come un grande esempio. Per tante vicende della mia vita per me è stato un genitore».
Pensava mai a cosa significava fare politica con questo nome?
«No. Lui ha fatto una quantità enorme di battaglie. Non c’è luogo – in Calabria molto di più – dove non mi dicano: tuo nonno, lui aveva grinta. Queste osservazioni rappresentano per me una sorta di balsamo ma anche uno stimolo per tentare di fare meglio».
Ma com’era Giacomo Mancini con suo nipote?
«È stato sempre considerato una persona molto difficile, un carattere scontroso, irascibile, vendicativo. Con me, ma devo dire con tutta la sua famiglia, è stato proprio il contrario. Persona molto attenta, premurosa, anzi anche timorosa a volte di invadere le sfere di pertinenza. È stato sempre una figura presente. Ero io a stimolare i suoi suggerimenti e mai lui a interferire nelle mie scelte. Mia moglie mi ha sempre rimproverato di non dirle quello che pensavo, invece con lui riuscivo a parlare. Un rapporto molto bello, molto vero».
Si preoccupava dei suoi studi?
«Sono sempre stato coscienzioso, non ho mai dato problemi. I genitori in genere sono sempre un po’ scoccianti, lui niente. Mi stimolava a essere curioso perché lui lo era. Voleva conoscere, sapere, vedere, apprendere. Fino alla fine. Una curiosità smodata».
Che libri leggeva?
«C’era la letteratura russa da una parte e la francese dall’altra. E poi il meglio di tutte le esperienze politiche. Era un uomo con una marcia in più. Non si fermava mai alla prima impressione».
La seguiva nelle sue prime esperienze politiche?
«Io abitavo con lui in questa casa, al piano di sotto. Ho iniziato nel Savuto, una zona di origine della famiglia. La sera tornavo qui e gli dicevo: sono stato a Malito, ho incontrato tizio, caio, i compagni… E lui iniziava a raccontare la storia dei compagni, tizio aveva un papà, caio faceva quella cosa, uno ad uno. E la cosa bella era che la storia del partito socialista narrata in quel modo diventava una storia di famiglie, di sentimenti, di passioni, di emozioni, anche di contrasti e di odi, ma una storia di famiglie».
Come visse la vicenda giudiziaria?
«All’epoca ero studente di giurisprudenza. Nel vedere mio nonno che soffriva per questa persecuzione scattò in me una molla che mi fece accelerare gli studi per essere utile e poter seguire la causa».
Fu un colpo duro per lui?
«Certamente. Uno che per tutta la vita si era battuto contro la mafia e sentirsi accusato di esserne amico vedeva negato l’impegno di una vita. Quella vicenda andò a intersecare la vicenda amministrativa impedendogli alla fine di fare il sindaco. E c’era la difficoltà oggettiva nel difendersi. Ho partecipato a gran parte delle udienze tra Palmi, Roma e Padova e ho sentito pentiti che dicevano: Mancini era d’accordo con Freda nel mettere la bomba sotto il ponte della Fiumerella a Catanzaro. Come ci si poteva difendere mentre poi sui giornali si pubblicavano i verbali di questi pentiti. Aggiunga il suo profondo rispetto per le istituzioni. Più volte venne il presidente Cossiga, suo amico personale, ma mio nonno se ne stava venti passi indietro».
Ebbe solidarietà importanti?
«Chiaramonte, Macaluso, Cossiga andarono a testimoniare per lui. Da una parte i padri della Repubblica dall’altra i pluriomicidi. Ce n’era uno che diceva: ho ucciso quaranta persone. Se queste erano le referenze…».
Era con lui quando ci fu l’assoluzione?
«La prima vicenda si svolse a Catanzaro dove venne cancellata la sentenza di condanna per incompetenza territoriale. Ma il momento più bello fu a Catanzaro quando il gup Calderazzo, morto poi giovanissimo, lo assolse perché il fatto non sussiste leggendo tutta la motivazione. Un’emozione molto, molto, molto forte».
Una pagina terribile?
«Anche dal punto di vista fisico. Consideri che questo accadeva quando aveva 86 anni».
Anche il lavoro di sindaco si svolse tra queste difficoltà fisiche. Eravate preoccupati?
«Vittoria è sempre stato un punto di riferimento, presente e amorevole in tutta la sua vita. Ma naturalmente le difficoltà erano oggettive. Lui tornava dal Comune. Alle tre si sedeva a tavola, mangiava, riposava un pochino, poi riprendeva o convocando qui in questa stanza i suoi collaboratori o ritornando al Comune. A muoverlo era sempre il profondo, viscerale amore per Cosenza e per i cosentini. Girava molto in macchina, si fermava, chiamava a sé le persone più semplici, più umili per chiedere che cosa succedeva in quella zona, di cosa c’era bisogno, cosa si poteva fare per migliorarla. Si attaccava al telefono al Comune e imbufalito gridava: qui c’è la buca, non c’è l’acqua, c’è questa perdita, c’è erbaccia, sporcizia, non ci sono luci. E pretendeva che ogni cosa fosse fatta immediatamente. Il giorno dopo ripassava per vedere se era stato fatto. Era un carro armato. Dalle piccole cose alle grandi strategie, si occupava di tutto, per esempio di urbanistica: diceva che avrebbe voluto essere un grande architetto».
Amava Cosenza e i cosentini. Un ricordo?
«Il 24 dicembre con i ragazzi delle cooperative a via degli Stadi nel centro della manutenzione del Comune. Il brindisi, e subito dopo un operaio si mise a cantare la strina nostra, cosentina. Lui scoppiò in un pianto a dirotto che fece pensare alle sue difficoltà fisiche. Ma c’era dell’altro e lo si capì quando disse: dovrei fare di più, ci vorrebbe più attenzione per gli anziani, in fondo io sono un fortunato, ma loro no. Era un sentimento, era la pratica socialista».
In definitiva la cosa più importante per lui era la carica di sindaco. È così?
«Sì, diceva proprio questo: sono stato ministro, sono stato segretario nazionale del partito, ho avuto tanti onori, ma sono convinto che poi alla fine si ricorderanno di me come sindaco della città. E la migliore soddisfazione è stata quella di migliorare la città. In un’intervista disse: l’esperienza di sindaco mi dà la possibilità di tradurre tante parole della mia vita in cose concrete».
Sulle donne precorse i tempi…
«Fu innovativo. Ricordo l’8 gennaio 2002 quando in una bella manifestazione fu lanciata la candidatura di Eva Catizone. Lui parlò del quartiere, della città, del Primo Maggio, e anche di sua madre, una nobile De Matera, che gli aveva insegnato la Marsigliese. Fu una sorta di testamento perché morì l’8 aprile».
Mancini egemone a Cosenza, Francesco Principe dominatore a Rende. Una bella gara in casa socialista?
«Ci sono stati scontri violentissimi, ma c’era anche la capacità di capire che in alcuni momenti bisognava fare fronte comune. All’inaugurazione della scala mobile del centro storico Principe ebbe la cortesia di partecipare. E mio nonno fece un discorso sul centro storico che si prolungava a Cosenza e poi a Rende: dobbiamo – disse – rendere navigabili il Crati e il Busento, avvicinarli a Campagnano, così io arrivo con una barchetta da Cecchino. E Cecchino apprezzò».
Questa casa parla di lui. Che effetto le fa?
«Ogni tanto prendo i plichi con le sue interviste, mi metto qui, le leggo e lo sento vicino».
Lui dove si sedeva?
«Dall’altra parte, lì dove io leggo i giornali. Si svegliava presto, ci trovavamo la mattina qui. Lui si sedeva a capotavola da quella parte per fare colazione, una zuppa, io mi mettevo lì dietro. E iniziavamo la giornata commentando i fatti sui giornali. La prima selezione riguardava lo sport».
Era tifoso?
«Era appassionato di calcio, non era tifoso di una squadra, aveva delle infatuazioni, una volta per esempio per Ericcson. Mi sfotteva perché sono romanista. Era molto appassionato di cavalli, soprattutto trotto. La prima cosa che faceva era tirare fuori dalla mazzetta la Gazzetta dello Sport e andare all’ultima pagina dove all’epoca, non so ora, c’erano i cavalli».
Scommetteva?
«Sì. Andava all’Arc de Triomphe a Parigi, a Agnano, a Montecatini. E a Montecatini, diceva, non ho mai bevuto un bicchiere d’acqua, non ho mai fatto un trattamento, un massaggio. C’andava per i cavalli, era un conoscitore, un professionista».
Un cavallaro. Vinceva?
«Sì, un cavallaro. Qualche volta vinceva, qualche volta perdeva, io vincevo sempre perché se gli andava bene mi dava una percentuale».
Era generoso?
«Molto. Una volta lo feci arrabbiare. Quando superai l’esame di terza media mi regalò la sua Treccani, la mitica Treccani. Reagii senza entusiasmo. E lui: ma come io ti faccio un regalo importante e tu…».
Quanto le manca?
«Tanto. Inquadrava il singolo fatto in un contesto più ampio, aveva una visione alta delle cose».
Un grande ricordo che qui si sente anche fisicamente…
«Sì. Non c’è rimpianto perché purtroppo la vita è questa. Nostalgia sì. Quando sono stato eletto deputato, il risultato si seppe la mattina dopo. Lo chiamai, poi salii al piano di sopra, ci abbracciammo. Ero felicissimo, lui ancor di più. Disse: adesso posso morire contento».
E lei lo ringraziò mai?
«Capivo che la fine era vicina. Una sera ero tornato da Roma, contento per come era andata la giornata. Gli dissi: ti sono grato per tutto quello che hai fatto per me. Lui disse: sapessi… Un po’ era commosso, un po’ mi ero commosso io, se ne tornò verso la sua camera. Quella è stata l’ultima volta».
Rocco Princi
Lo chiamano l’Armani del pane. La definizione è azzeccata per almeno due motivi. Intanto perché Armani per puro caso c’entra con la svolta impressa alla sua attività, in secondo luogo perché quando si entra nelle sue panetterie milanesi si può perfino dubitare che lì dentro si faccia il pane come effettivamente avviene. E forse ce n’è anche un altro che riassume e sublima i primi due: la ricerca di una perfezione assoluta con un’idea del made in Italy applicata al più tradizionale e buono dei prodotti del nostro paese. Rocco Princi, 47 anni, è di Fiumara Calabra. La sua vita non è una storia, è la fiaba di un giovane che fa il garzone, il muratore e altri mille mestieri e che oggi è oggetto di studio di un master della Bocconi dove lo chiamano a tenere lezioni. Decisivo è il carattere: la cocciutaggine, il non arrendersi di fronte alla difficoltà, ripartire sempre e pensare cose nuove. Come si vede, la Calabria c’è tutta ma il percorso di crescita è avvenuto fuori dai suoi confini. Di amaro ci sono anche le parole del protagonista che, a differenza di tanti altri suoi conterranei baciati dal successo in Italia e nel mondo, non guarda alla sua terra con nostalgia bensì con odio e amore dove non è chiaro quale dei due prevalga. Un sentimento duro come quello di un figlio tradito.
La sua è una famiglia di panettieri?
«Assolutamente no».
E come mai ha deciso di fare il panettiere?
«Fin da ragazzo era il mestiere che mi affascinava di più».
È nato in Calabria, dove?
«Fiumara Calabra in provincia di Reggio l’otto marzo 1970. E sono vissuto in Calabria fino a ventisei anni. Avevo un panificio a Villa San Giovanni, che ho aperto quando avevo vent’anni».
Suo padre che cosa faceva?
«L’autotrasportatore, mia madre casalinga. Siamo tre figli».
Ha studiato a Fiumara?
«Sì, ho fatto lì la scuola elementare e la media, se si possono chiamare scuola elementare e scuola media».
Perché?
«Se penso adesso a come si svolgevano le lezioni c’era veramente da denunciare tutti quanti».
Ci faccia capire.
«Durante l’anno scolastico la maestra ci faceva fare lezione all’aperto portandoci nei giardini per stare con le sue commare, noi giocavamo la maggior parte dell’anno. Arrivi alle superiori che non sei zero ma meno di zero».
Dopo la scuola media che studi ha fatto?
«Mi ero iscritto al professionale come meccanico navale, ma non avevo le basi per poter andare avanti. Diventava tutto difficile…».
E addio scuola?
«Sì. Il mio titolo di studio si può paragonare ad un’istruzione di seconda elementare, forse terza. Però, si faccia una chiacchierata con Paolo Preti, che è un professore della Bocconi, e le dirà che mi chiamano durante l’anno a dare lezioni a centocinquanta laureati. Rimangono per due ore a seguirmi, l’ultima volta battevano le mani ad ogni passaggio del mio discorso».
E che gli insegna?
«Come nasce un’impresa e come si fa innovazione. E glielo spiego praticamente».
Verremo più avanti alla sua impresa, ripercorriamo gli inizi. Abbandonata la scuola si è messo a lavorare…
«Non parliamo di lavoro, questa parola non esiste nel mio vocabolario. Per fare quello che faccio, o lo apprezzi, l’ami, altrimenti…».
Non parliamo di lavoro, che ha fatto dopo la scuola?
«Il muratore, ho raccolto le arance dagli alberi come le scimmie, ho fatto di tutto nella zona di Villa San Giovanni».
Come arriva al panificio?
«Fiumara mi stava stretta, non c’erano sbocchi, un paesino di un migliaio di abitanti. Villa era il paese più vicino. Per un anno avevo fatto il garzone mettendo qualcosa da parte. Lo spirito del commercio l’ho preso dai miei zii che sono venditori ambulanti di tessuti. La mattina alle cinque andavo con uno di loro in giro per la provincia di Reggio, dalla Piana di Gioia Tauro a Seminara».
E così alla fine rileva il panificio?
«A Villa. Ma nel frattempo mi documentavo. Andavo in altre parti del paese, spesso a Milano, e vedevo che cosa c’era in giro. Qualche novità la portavo a Villa, cambiando alcuni tipi di pane perché da noi in Calabria la varietà è limitata. E vedevo che le modifiche avevano un grande successo. Però, osservando quello che accadeva altrove mi sembrava un’attività limitata, una cosa morta a parte i periodi estivi. Per lo più rifornivo le rivendite, e quelle ti pagavano, non ti pagavano, dovevi andare a riscuotere e ritornare. Lavoravi per gli altri, non per te, non come ora a Milano che ho clienti dall’albergo a sette stelle al ristorante Carlo Cracco».
Le stava stratta Fiumara, poi Villa. Le stava stretta la Calabria?
«Esatto. Non avevi via di sbocco, volevi svilupparti e dove andavi? A Bagnara? E poi non voglio entrare nel merito di altri problemi che ho avuto, preferisco non parlarne per non alimentare invidie e cattiverie».
Quando si trasferisce a Milano?
«Nel 1986. Già nel 1985 ero venuto a fare dei sopralluoghi. Tramite un mediatore ho perlustrato i posti in vendita. Una parte di rabbia che mi ha preso è stata anche determinata dall’approccio che ho avuto con Milano. A proposito di razzismo, il settanta per cento dei milanesi quando sentivano che ero di Reggio si chiudevano un po’ come i ricci nel vendermi l’attività. Anche perché la licenza non viene pagata mai per contanti ma una parte in contanti e una parte a rate, allora c’erano le cambiali. E le cambiali si fondavano sulla garanzia della persona».
Dov’era il panificio che poi ha rilevato?
«In piazzale Istria. Capii subito che tutto era diverso. Per esempio, a livello di norme igienico-sanitarie da noi in Calabria se non conosci l’amico o il cugino dell’amico devi aspettare, invece qui appena hai fatto il trasferimento di licenza in automatico fanno il sopralluogo e ti impongono di realizzare i lavori per rientrare nella norma. L’impatto fu più che duro perché il personale del vecchio titolare mi piantò subito. E nell’appartamento dove abitavamo e che era collegato col forno, non avevamo mobili, non c’era niente. All’inizio io e mia moglie, anche lei di Fiumara, dormivamo su una brandina».
E gli affari come andavano?
«Il panificio faceva di incasso 400 mila lire al giorno. Ce l’abbiamo messa tutta, dormivo tre ore al giorno, e l’ho portato nel giro di tre anni a cinque-sei milioni al giorno di incasso facendo fare la fila fuori del negozio. Davamo i numerini e c’era la gente lungo il marciapiede in attesa di comprare il pane. Era la rabbia che avevo dentro che mi portava a fare il massimo».
Il segreto di questo exploit?
«Ho scommesso sulla qualità e sulla professionalità, l’amore per il proprio lavoro, la passione. E giorno per giorno tu vedevi la tua bottega crescere. Le altre famiglie andavano in vacanza, i miei figli restavano in mezzo alla farina. Mia moglie, quando ogni tanto sentiva qualche botto perché qualcuno era caduto, si scusava col cliente di turno e riprendeva il figlio da terra. Una situazione estrema. Non lo rifarei».
Però lo ha fatto, e i risultati la ripagano, con i suoi cinque locali e novanta dipendenti.
«Ogni anno investivo costantemente sull’arredamento, sugli spazi e quant’altro. Dopo quattro-cinque anni mi sono sentito più sicuro e mi stava stretto anche piazzale Istria e così mi sono guardato in giro, soprattutto al centro dove arrivavano tutti i miei sogni. Contemporaneamente mi rendevo sempre più conto che il consumo di pane cominciava a rallentare, non era più come prima, poiché la grande distribuzione aveva inserito nella propria produzione anche il pane surgelato ed era presuntuoso pensare di scontrarsi con i colossi. Alla lunga se lasciavi solo la panetteria non ce l’avresti fatta».
Che cosa ha fatto?
«Contro il parere del mio commercialista ho giocato d’azzardo prendendo in centro un posto in affitto per solo un anno. Un rischio senza una rete di protezione. Anche adesso che sto per svilupparmi all’estero, mi gioco sempre tutto quello che ho. Fino a questo momento il Signore mi ha dato la salute per farlo».
Per un anno, quindi, ha lavorato al centro della città. Che cos’è cambiato?
«Panetteria, caffetteria e gastronomia. Sono stato il primo, almeno qui a Milano, a farlo intercettando i clienti della pausa-pranzo. Poi ho preso un posto più grande e da lì è partito il successo».
Dal suo curriculum emergono tante invenzioni.
«Attenzione, io non ho inventato il pane, ho inserito cose nuove. Un esempio. Tutti i bar a Milano hanno le brioche, ma nessuno ha la possibilità di farle e, quindi, ti vendono le brioche surgelate. Io addirittura le ho messe in vetrina mentre le faccio, al momento. Questo è un rischio perché o sei professionale fino in fondo e hai un gran consumo oppure fallisci. Ho rivoluzionato un altro aspetto del pane. La maggior parte dei miei colleghi faceva il pane di notte per venderlo la mattina alle sette. Per cui chi andava a comprare il pane a mezzogiorno o a mezzanotte aveva quello sfornato al mattino. Invece io ho modificato un po’ tutto, sono stato il primo a sfornare il pane alle otto di sera, la gente che usciva dall’ufficio lo trovava ancora caldo. E questo non per un giorno: tu provi, non va, constati che non è andata bene e torni indietro. No, io questo l’ho fatto per mesi buttando via tanto pane e alla fine dopo tanta semina ho cominciato a raccogliere. Sfornavo pane dall’alba alla notte».
E la qualità?
«Pane cotto a legna e a lievitazione naturale. Fin da piccolo me ne andavo in Aspromonte a mangiare il pane cotto a legna con il filo d’olio sopra e un pizzico di sale. L’ho portato a piazza Duomo a Milano. Sono stato premiato come miglior esercizio d’Italia. A New York mi hanno eletto come miglior negozio alimentare del mondo. Tutto documentato».
Cottura a legna e lievitazione naturale non sono modalità di produzione rare. C’è stato dell’altro?
«Il fatto è che il pane è diventato un elemento di contorno della tavola. Una coppia normale, sempre di fretta, esce dall’ufficio, viene qui e mangia il pane con le melanzane, invece di andare a casa e riscaldare “quattro salti in padella”. Io continuo a servirgli una cucina tradizionale. In più ho fatto una cosa che un centro commerciale non può fare. Sono andato alla ricerca di farine biologiche, che insieme alle cose dette prima, mi ha portato a risultati importanti. Solo che devi stare attento, più che attento, è come fare una cucina da tre stelle della Guida Michelin. Tutto questo ha un costo. Il prezzo del pane si raddoppia, ho accettato la sfida e sto avendo ragione».
Della serie che se un prodotto è di alta qualità il prezzo può non essere un ostacolo. Viene da pensare ai produttori in crisi della pasta di una zona storica per il settore come Gragnano: hanno scommesso sulla qualità e producono fusilli che negli Usa si vendono a 25 dollari al chilo.
«Non potevano competere con la Barilla. Il prezzo è un problema, ma ci sono persone che vogliono mangiar bene. Qui vicino ho una delle più importanti aziende gastronomiche del mondo, che vende anche il pane, ma la gente va a fare la spesa lì e il pane poi viene ad acquistarlo da me. Per fare questo lavoro abbiamo puntato sulla qualità, ma sia chiaro che è buono anche il panino da cinquanta centesimi».
La qualità e l’immagine. Le sue panetterie sembrano atelier. Lei ci ha puntato molto. Per esempio, il cliente è al banco ma è anche nel forno dove tutta la lavorazione è in corso ed è visibile.
«In questo momento il forno riscalda l’ambiente nel quale cinquanta persone comodamente sedute stanno facendo colazione, avvolti da un’atmosfera vera e reale. Per arrivare a questo devi avere gusto».
E lei per arrivare a questi risultati si è affidato a un nome importante dell’architettura.
«La scelta è scaturita dall’osservazione. Sentivo che era il momento di andare oltre il negozio tradizionale. Un giorno ero in via Sant’Andrea e sono entrato nel negozio di Armani… ah, prima che mi dimentico, tra i nostri clienti c’è Donatella Versace, e a lei come ad altri mando il pane a domicilio».
Stava dicendo del negozio di Armani.
«Sì, lì dentro c’era una pietra da cui mi sono sentito attratto, un’atmosfera particolare. E mi sono immaginato quella pietra col suo colore e il suo calore in un negozio del pane. Ho chiesto alla responsabile il nome dell’architetto, ma non lo sapeva. Conoscevo la Rosetta Armani, nipote del signor Armani, ho chiesto a lei l’informazione. E lei gentilmente mi ha fissato un appuntamento con Claudio Silvestrin, il loro architetto di fiducia di immagine. Sono andato a Londra a convincerlo. È stata la svolta. Dovevo aprire un nuovo locale in piazza 25 Aprile, crocevia di tutte le discoteche, e per sfruttare il popolo della notte avevo bisogno di un’immagine forte. Questa scelta mi ha dato visibilità anche all’estero».
Ecco perché la chiamano l’Armani del pane?
«Oltretutto il signor Armani mi ha regalato la linea delle divise. L’ha disegnata apposta per me, cosa che non farebbe per tutto l’oro del mondo».
Ovviamente Giorgio Armani è un suo cliente.
«Veramente sì. Io gli mando il pane sempre».
In parole povere il suo pane a Milano è anche uno status symbol?
«Io sono diventato il numero uno e dopo di me, ma non lo dico io, c’è il vuoto. L’altro giorno ne ho parlato con l’onorevole Piero Fassino a proposito della possibilità di creare esperienze del genere anche in altre città. Ma ora sono impegnato in altri progetti».
L’operazione di Londra?
«Sì, ma non lo scriva. Lì ho solo un contratto di affitto e c’è una trattativa in corso. Ma ci sono ancora difficoltà per alcuni permessi. Certo, dopo Milano essere sulla piazza di Londra, che è la porta del mondo… Intanto pago un affitto che è un costo alto che non posso prolungare a lungo. Ma preferisco non parlarne perché se poi non realizzo l’operazione non mi va di sentirmi dire che sono uno buffone. Non per altro. In ballo ci sono tanti negozi, da cinquanta a cento, ma non è nei miei sogni perché a me piace fare alcune cose e farle bene, non voglio diventare il McDonald’s del pane».
Ci parli un po’ della Bocconi. Lei ha a malapena la terza media, dice di avere avuto un’istruzione da terza elementare, che ci fa nel tempio dell’istruzione economico-finanziaria?
«C’è un libro di marketing della Bocconi sul caso Princi».
Dunque, è oggetto di studio?
«È così. Non le racconto i premi e i riconoscimenti avuti per decisione dei professori della Bocconi».
Tiene anche delle lezioni?
«Sì. E alcuni professori mi hanno spiegato che quando vanno La Valle o Montezemolo, tutto si svolge con numeri, grafici, tot investimenti, tutte cose normali dello studio, mentre con me c’è il racconto di un’esperienza fuori dalla vita normale: sacrificio iniziale, mettersi sempre in gioco. Pensi a Londra e a me che mi confronto con gli avvocati inglesi. Anche se l’operazione non andrà in porto questo equivarrà a un anno di università. Io non sono avvocato ma mi so difendere, ne ho fatto di esperienza, ho preso tanti calci in culo qui a Milano».
Che cos’è per lei il pane?
«La mattina quando guardo l’impastatrice in movimento so perfettamente se ci vuole acqua o se non ce ne vuole, quando sforno il pane capisco se c’è un piccolo difetto. Il pane è tutto, è la mia vita».
In questo resta un uomo del Sud. Tradizione e innovazione. Pensi ai buoni pani del meridione. In fondo, è farina, acqua…
«Va fatto come va fatto, come è nato. Farina, acqua e lievito, con i tempi suoi, non con quelli della vita di corsa di oggi. Una volta mettevi il pane a tavola ed era la vita, un simbolo. Nel pane c’era tutto, invece oggi non senti altro che bisogna evitare di mangiarlo. I dietologi la prima cosa che dicono: non mangiare pane e pasta. Il mio pane, quello che faccio ora, è molto differente da quello che loro pensano che faccia ingrassare. Se consumi un pane sano, non mangi il lievito di birra che ti fa gonfiare la pancia ma un pane digeribile».
Ha parlato sempre di Milano. Si sente milanese?
«Quando torno da Londra e atterro a Linate mi sembra come quando tornavo da Milano a Reggio. Mi appare come una città ferma. Ma amo Milano, ho dato, dato, dato, e ho avuto riconoscenze, per cui non potrei mai parlar male di Milano. Non sono di quelli che dicono di voler scappare dallo smog. Io giro la città di inverno e d’estate, mi alzo alle quattro quando i netturbini spazzano, mi piace il rumore delle serrande quando aprono i primi bar, la vedo svegliare tutte le mattine e osservo come si evolve durante la giornata. Poi ho scoperto il fascino della notte, anche se non mi sono fatto prendere dalla bella vita. Non la cambierei con un’altra città italiana, Milano è bella».
E la Calabria?
«La amo e la odio. Se penso a Scilla mi viene da piangere. Quando stavo giù, la notte facevo il pane e il giorno me ne andavo sotto le barche a dormire: il profumo dell’acqua, del mare, Chianalea…».
Però c’è anche odio.
«Quando ci conosceremo meglio le racconterò delle cose private, le spiegherò tutto il male che mi ha fatto quella terra. Mia madre, il mio papà, mia sorella sono giù, solo io sono a Milano».
C’è futuro per la Calabria?
«No. Finché non eliminano le teste, che sono ramificate di padre in figlio, non ci sarà mai uno sbocco. Ci sono tantissime belle persone, belle realtà, ma c’è quel dieci-venti per cento di farabutti, appoggiati dai politici, che non fanno crescere nulla. Ricordo a quindici anni a Fiumara, mi serviva il certificato di nascita perché dovevo imbarcarmi, e ci volevano due giorni e bisognava andare dal sindaco per averlo. Se ci penso adesso… era un mio diritto, me lo doveva dare subito. È solo un esempio. E poi c’è la mentalità del posto fisso. Per anni stanno disoccupati, restano disoccupati, in giro con questo e con quello. Così non si cresce, ma non perché non hanno le capacità. Se le persone malefiche che stanno giù attivassero la loro intelligenza nella legalità cambierebbe tutto».
Bisogna togliere il tappo che non fa sprigionare il positivo?
«Ce la si può fare se ci si basa sulle proprie capacità. Bisogna provarci. Fuori dalla Calabria ci facciamo valere. Abbiamo la cultura del rispetto verso gli altri, l’educazione, l’umiltà. L’umiltà è la cosa più importante. E la famiglia. Senza la famiglia vicino non avrei potuto fare nulla. Il mio unico sogno è trasmettere ai figli questi valori».
Un suo figlio un giorno potrebbe aprire una panetteria a Reggio Calabria?
«Non credo, lo escludo categoricamente perché non c’è l’utenza. Forse a New York. A Reggio andremo a mangiare il gelato da Cesare».
A un giovane calabrese consiglierebbe di lasciare la sua terra?
«Non sono la persona che può dare questi consigli. Però se ha delle ambizioni deve uscire dalla Calabria».
Agazio Loiero
Di Santa Severina, dove nacque sessantasette anni fa, ricorda il mercante che ogni anno, puntuale, arrivava da chissà dove per vendere la stoffa ricavata da tre o quattro rotoli sistemati sulle spalle. Un richiamo alle origini e alle tradizioni per rivendicare una calabresità mai messa in discussione nonostante le assidue frequentazioni romane. Parlamentare, sottosegretario e ministro nei due governi D’Alema, Agazio Loiero soffre dell’immagine negativa della Regione che governa, ne dà la colpa un po’ alla storia e un po’ ai giornali. Storia nota e ampiamente dibattuta, che sfiora soltanto la conversazione, a tratti quasi una confessione sul presente e sul futuro di questa terra.
Governatore, il suo è un itinerario tormentato nell’area di centro, ma attraversandola tutto. Dopo tanti partiti, è sempre al centro?
«Sì. Al di là dei punti geografici, sono portatore di una visione del mondo che non è mai cambiata. Abbiamo avuto una terribile diaspora che ha imposto a tutti di riposizionarsi per sopravvivere. Però, i valori che ho abbracciato da ragazzo, hanno ancora una loro modernità».
Quali sono?
«Intanto una grandissima tolleranza, un grande rispetto per le idee degli altri. Sono poco dogmatico, molto aperto, non vedo cliché da cui non si può derogare. Poi la scelta atlantica. E la grande solidarietà per quelle fasce che sono ancora sofferenti. Sono, e faccio fatica a dirlo, anche cattolico, un cattolico con tutto quello che questo comporta in un paese come l’Italia. Queste idee non le ho mai cambiate, magari sono stato costretto a cambiare qualche partito».
È rimasto democristiano?
«Sì, ma senza nostalgie anche se allora c’era una scuola della politica con delle regole. Adesso non c’è più nulla. Tangentopoli, il referendum hanno fatto saltare il banco. Ed è nata una società nella quale, senza per questo essere vecchio, faccio una fatica del diavolo a riconoscermi».
Esattamente in cosa non si riconosce?
«Per esempio, nella tv ma anche nei giornali. Non dovrei dirlo essendo il presidente di una Regione difficile, ma dove sono le grandi inchieste che faceva “Il Giorno”? Si è esaltata a dismisura l’esibizione. E si perde di vista la grande questione di un mondo che si regge su un equilibrio precario. Pensiamo di bloccare i clandestini alle frontiere e dimentichiamo che questi scappano da paesi dove il 50-70 per cento dei bambini non supera il quinto anno di vita, dove ci sono pestilenza, malattie, guerre tribali. Ci sono milioni di persone che vivono con un dollaro al giorno e noi in Europa diamo un contributo di due dollari e mezzo a una mucca che nasce. Tra trent’anni ci sarà ancora questo assetto? Io per fortuna non ci sarò».
Intanto lei governa, ha un potere. Che cos’è il potere?
«È la capacità di cambiare la vita delle persone. Poi è anche altro, per esempio distribuire prebende, vale a dire l’aspetto più brutto, deteriore. Però, il potere davvero fa il paio con il governo delle cose. Questo è ancora più vero in un territorio come il nostro dove è più ampia la realtà di quelli che non stanno bene. Può darsi anche che si nomini il presidente di una banca, però quel presidente di banca se scaturisce da una corretta visione del mondo può anche aiutare a cambiare le cose».
Non pensa che le cose non stiano cambiando?
«Ci sono molti freni. C’è la burocrazia anche se al suo interno operano personaggi di assoluta qualità. Poi c’è anche la stampa che si adatta spesso ad un ruolo di denuncia esasperata cosicché le poche cose buone finiscono per essere compresse dalla forza di quelle cattive».
Presidente, le notizie non sono buone o cattive, sono notizie.
«Distinguere il grano dal loglio è un’operazione difficile ma necessaria nelle società complesse dove il bene e il male convivono».
Un’iniziativa giudiziaria non si presta a facili interpretazioni. Non le pare?
«C’è stata una stagione della nostra storia nella quale sembrava che l’interesse alla giustizia fosse delegato all’accusa del pm quando invece è in mano a un giudice terzo. Ma l’enfasi che si dava all’accusa non era mai commisurabile alla notizietta sulla sentenza che magari ti proscioglieva. E le persone venivano stese letteralmente dall’accusa, subendo il dolore di un’ingiustizia. Dico e confermo che la pubblica accusa in un territorio come il nostro va sostenuta perché avvengono cose indecenti e c’è una massiccia criminalità organizzata. Io, però, che sono sempre stato da questa parte anche quando sono stato toccato direttamente, dico che bisogna stare attenti».
La Calabria è una terra dalla quale si partiva per fare fortuna. Dulbecco, Versace, tanti nomi di successo…
«Dulbecco è nato a Catanzaro. Registro con malinconia che nella Calabria nella quale è nato, se non si fosse trasferito, escludo che sarebbe mai diventato un importante premio Nobel».
È cambiato qualcosa?
«Molto. C’è l’università, naturalmente non c’è lo sbocco post-universitario, magari spesso il laureato deve emigrare, ma c’è almeno la consolazione che quell’emigrato non avrà il posto del padre o del nonno proprio perché è laureato».
Le dico qualche nome calabrese importante. Riccardo Misasi.
«Era un personaggio di assoluta qualità. Aveva fatto studi seri. Al liceo con il massimo dei voti, laureato allo stesso modo. Oratore straordinario, un po’ apparteneva al vecchio mondo dei comizi, alla stagione ruggente della nostra politica quando si piantavano le fondamenta della democrazia. Non amava le polemiche, e questo è un difetto per un uomo politico. Si sottraeva volentieri, finiva col mutuare dal suo cattolicesimo anche questa tentazione a non essere il vincitore. Misasi ha inciso negli equilibri della storia politica di questa regione. È stato senz’altro il democristiano più importante di questa stagione repubblicana».
Giacomo Mancini.
«Io militavo nel partito di Misasi, Mancini era un socialista. È stato il personaggio più importante della storia repubblicana calabrese nel senso che pur con le sue ombre, le sue luci, i suoi amori, che quando c’erano erano tenerissimi, e i suoi rancori che erano invincibili, ha inciso di più in questa realtà pagando il prezzo più alto alla difesa di questo territorio. Pensi che cosa ha dovuto pagare Mancini per la difesa del Quinto Centro Siderurgico. Il centro siderurgico fu un fallimento perché l’acciaio era già in crisi, però in quella difesa strenua, costi quel che costi, Mancini fu un gigante. Era un uomo che non aveva paura e rappresentava il modello di calabrese che non si arrende di fronte all’ingiustizia, alle calamità, ai terremoti, alle alluvioni».
Un ricordo personale?
«Ho avuto un rapporto splendido con Mancini. Mi commuovo un poco… Dunque, ho esordito con lo scrivere sul suo giornale. Il direttore Ardenti mi chiese dei profili. Due-tre giorni dopo la pubblicazione del primo pezzo ricevetti una lettera di Mancini – era al massimo del suo fulgore politico – in cui mi scriveva: caro Loiero, lei deve scrivere in maniera stabile in questo giornale. Fui l’unico democristiano a scrivere sul suo giornale».
Lei calabrese scappa sempre a Roma. Come mai?
«Con la Calabria ho un rapporto forte ma sono convinto che il presidente dovrebbe stare a Roma e il vicepresidente qui. Certamente dipendiamo molto dall’Europa, dove peraltro ci troviamo, dopo difficoltà iniziali, al meglio come si vedrà a breve. Ma in questo governo di centrosinistra sono stato collega di quasi tutti, quindi gli accessi sono facilitati, il che è un vantaggio enorme per la Regione».
Ma ci dice un progetto concreto, una grande opera a cui sta lavorando?
«Ne ho parlato con Prodi, si tratta di un progetto per la scuola pensato dallo Stato e anche dalla Regione che innovi in maniera radicale, pur nei limiti delle norme statali, l’insegnamento. Sarà un progetto speciale che si proporrà di colmare con l’innovazione le difficoltà esistenti nella scuola; penso, per dirne una, alla diffusa difficoltà dei nostri quindicenni a recepire i concetti matematici».
Progetto ambizioso per una Regione politicamente turbolenta e che ha vissuto mesi di crisi. Superata del tutto?
«I tormenti sono rientrati».
Lei vi ha non poco contribuito fondando un partito. Non è così?
«Vi sono stato costretto per le rigidità della Margherita da cui mi sono staccato fondando il Partito Democratico Meridionale che è l’avamposto del Partito Democratico».
Lei accompagnava sulla sua auto rossa Sergio Zavoli in giro per la Calabria. Ha ancora quella macchina?
«No, ma resta un bel rapporto con Zavoli che ho visto pochi giorni fa a Tor Vergata dove la facoltà di lettere gli ha consegnato la laurea honoris causa. Zavoli, come ricordava ogni tanto Montanelli, è il principe dei giornalisti televisivi. Purtroppo in questa televisione dei giorni nostri gli è vietato l’ingresso».
La Regione ha scelto Toscani per rilanciare la sua immagine, Zavoli non sarebbe andato bene?
«Non è escluso che faccia qualcosa per noi. Quella di Toscani era un’irriverenza, volevamo che ci fosse uno shock per costringere la gente a discutere e a pensare. L’obiettivo è stato raggiunto. Sono state esibite facce pulite di calabresi che non hanno rapporti con la criminalità, di calabresi che ricordano che vivere in questa condizione difficile non è il prodotto di una razza diversa ma di solo di una storia».
Roberto Benigni in Calabria. Un’altra operazione di immagine. Riuscita?
«È un genio assoluto».
Pare che abbiate stabilito un buon feeling.
«Conoscevo il suo agente che è un calabrese. L’ho cercato, l’ho invitato a colazione e gli ho detto: senti, ho una situazione disperata in Calabria, malgrado le cose che stiamo facendo l’immagine è sempre deturpata, vessata, tu sei calabrese… E lui mi ha detto di essere angosciato. Gli ho risposto: se hai angoscia anche tu, me lo fai un piacere? Facciamo incominciare il suo spettacolo su Dante dalla Calabria; non è che solleviamo l’immagine della Calabria, però… Lui mi ha fatto da tramite. Un successo strepitoso a Cosenza, a Catanzaro e a Reggio Calabria. Mi ha riempito di cose carucce, perché le sue non sono mai scudisciate. Sono stato a cena tutte le sere con lui, abbiamo recitato Dante a tavola».
Lei ha retto il confronto?
«No. Ma, scusi la superbia, io Dante più o meno un poco lo conosco. Non tutt’e tre le cantiche nella stessa misura, conosco di più l’Inferno. Benigni ha recitato il quinto canto, io quasi lo conosco tutto a memoria, come conosco il ventiseiesimo».
Inferno, Purgatorio, Paradiso. Come definirebbe la Calabria?
«Con un verso di Dante che non può che contenere fiducia e speranza nel futuro: e quindi uscimmo a riveder le stelle».
Luigi de Magistris
Magistrato simbolo. Nel bene e nel male. Per difendere lui e il suo lavoro centomila calabresi hanno firmato una petizione, nel resto d’Italia sono in tanti, soprattutto quelli che si dicono stufi di una certa politica, arrogante e prepotente, a vederlo come l’uomo giusto che esercita il suo mestiere senza farsi condizionare. Altri pensano che abbia stravolto le regole pur di dimostrare qualche sua tesi accusatoria e che faccia di tutto per stare al centro dell’attenzione. Di certo Luigi De Magistris deve sentirsi la coscienza a posto perché con tutti i riflettori accesi su di lui, con tanta gente che sta spulciando nella sua vita per cogliere qualche pecca e rinfacciargliela per dire soddisfatti “vedete che anche lui ha qualcosa di cui farsi perdonare”, se non si sentisse sicuro di sé non andrebbe per la sua strada con tanta determinazione. Qui non parla di Poseidone o di Why Not, di Mastella o del procuratore Lombardi, ma di Nietzsche e Marx, di Costituzione e di diritto, del padre e di Napoli, della sua scelta calabrese familiare e personale e accenna solo ad un suo misterioso viaggio in Africa che deve avere significato molto nella sua vita.
Parliamo di suo padre magistrato. Quanto ha influito su di lei?
«Un’influenza determinante non solo per la mia formazione culturale e professionale ma anche nella scelta di fare questo mestiere. Fino al momento dell’iscrizione ho avuto un’incertezza abbastanza forte tra filosofia e giurisprudenza essendo stato sempre molto affascinato dalle facoltà umanistiche, sia dalla filosofia che dalla letteratura. Ho deciso in zona Cesarini, due giorni prima della scadenza. Una volta scelta la facoltà è stata immediata la voglia di fare il magistrato, e non solo per una spinta naturale che avvertivo dentro».
Da dove derivava questa spinta?
«Ho sempre avuto presente l’idea di giustizia anche quando facevo politica studentesca».
Il liceo dove?
«Liceo classico Pansini a Napoli. C’erano i licei più tradizionali e conservatori come il Sannazaro e anche il Vico, il Pansini era più moderno e variegato, un ambiente molto misto, borghesia, proletariato, intellettuali, molto frequentato dalla sinistra extraparlamentare. È stato determinante nella mia formazione culturale».
E quale era l’altra spinta?
«In mio padre vedevo una figura simbolo della magistratura. Purtroppo, come sono entrato in magistratura nel 1994 mi sono subito reso conto che la magistratura era molto diversa».
Perché suo padre com’era?
«Ovviamente è difficile parlare male di un genitore soprattutto quando è morto, però effettivamente per me mio padre poteva avere, come tutte le persone, diversi difetti ma come magistrato era una figura assolutamente esemplare. Era molto riservato, equilibrato, molto sereno, umile, molto molto determinato, e soprattutto avulso da qualsiasi tentativo di contaminazione e di avvicinamento. Applicava la figura di magistrato come vuole la Costituzione: completamente indipendente e lontano dalle raccomandazioni».
Magistrato penale?
«Sia penale che civile, ma alla fine prevalentemente penale, quando è finito era presidente di sezione alla Corte di Appello di Napoli. Ha fatto processi importanti, la condanna a De Lorenzo, il processo Cirillo, il processo al clan Nuvoletta».
Insomma a casa sua si mangiava pane e giustizia.
«Sì. E ci penso in questi giorni quando mi vengono molto in mente le parole di un libro straordinario di Piero Calamandrei, l’Elogio dei giudici scritto da un avvocato. Calamandrei mette in bocca a un magistrato anziano negli anni Trenta-Quaranta questa riflessione: il problema, scrive, non è quello del magistrato corrotto, perché in fin dei conti nella mia carriera di magistrati corrotti ne ho conosciuti pochi, e quei pochi il sistema della magistratura è in grado di espungere, quello che mi preoccupa invece è quella forma di malattia, la cosiddetta agorafobia, il conformismo giudiziario, cioè la paura addirittura del potente, per cui il magistrato riceve raccomandazioni per non scontentare e che addirittura per non scontentare le previene facendo scelte che possono creare meno problemi a se stesso e alle persone che deve giudicare. È di un’attualità straordinaria, perché il magistrato deve sentire nel sangue, nel cuore e nella mente l’articolo tre della Costituzione, cioè il dover avere lo stesso metro di giudizio per tutti».
Invece?
«Sta prevalendo un magistrato un po’ burocrate, preoccupato delle scelte che fa».
Suo padre e la politica?
«Era un uomo laico. Ha avuto le sue idee ma era molto riservato. La sua era un’impostazione moderata ma non era vicino ad alcun partito politico».
In casa parlava mai dei casi che affrontava?
«Poco, molto poco. Con me ha iniziato a parlare quando ho consolidato gli studi universitari e ho iniziato a preparare il concorso in magistratura. Ed allora si è creato un rapporto molto stretto, che non avevo prima. Infatti, era l’unica persona – ci tengo a sottolineare, l’unica – di cui mi fidavo anche nell’esternargli io le mie preoccupazioni di lavoro. Venuto meno lui, io non ho trovato nessuno che potesse sostituirlo».
Lei dove ha iniziato?
«A Catanzaro. Ho fatto il tirocinio a Napoli presso gli uffici giudiziari, poi alla fine del 1995 sono venuto a Catanzaro in Procura. Poi sono andato a Napoli, quattro anni in quella procura, infine sono tornato qua subito dopo la fine di mio padre. A Napoli ho fatto un’esperienza molto buona, indagini importanti, sono stato lì nel pieno del caso Cordova. Per me è stato un sacrificio lasciarla ma ho fatto una scelta di amore nei confronti di mia moglie calabrese di cui avevo avvertito la voglia di tornare nella sua terra. Anche per me è stato un sacrificio lasciare la mia terra».
Alla fine ha vinto sua moglie?
«In realtà io le avevo fatto una promessa da marinaio dicendole che andando a Napoli avrei lavorato di meno e le avrei consentito di integrarsi con la città. Ma i miei ritmi di lavoro erano gli stessi. E lei mi disse: se devi fare questa vita, tanto vale farla in Calabria. Mio padre mi disse: vattene da un’altra parte, vai a fare un’esperienza al Nord. Poi quando è finito, un amico nostro carissimo di famiglia mi ha rivelato qual era la sua preoccupazione: conoscendomi era ben consapevole del fatto che lavorando in Calabria in modo stabile mi sarei trovato prima o poi in una situazione di estremo pericolo e difficoltà. Aveva previsto quello che sarebbe accaduto».
Napoli le manca?
«Molto. Mi mancano soprattutto la cultura, l’iniziativa e il respiro culturale, il teatro, l’Istituto di Studi Filosofici, i luoghi di incontro, anche la vivacità stessa all’interno della magistratura, il centro storico, le chiese. Ma riesco a recuperare quando ci vado quelle poche volte da turista, e forse è anche più bello vederla così che viverci perché è una città molto complicata e va anche peggiorando ultimamente».
Qui la vita è sicuramente più tranquilla.
«Se parliamo dal punto di vista dei bambini è una realtà sicuramente ottimale. Poi Catanzaro ha una posizione geografica straordinaria, vicina allo Jonio, al Tirreno, alla Sila, alle Serre. Culturalmente è un po’ avara di iniziative. Ma è una città e una regione che ultimamente mi sta sorprendendo anche in positivo. Evidentemente in questi anni si è formata una coscienza civile sul tema dei diritti. E questo è stato un ulteriore stimolo a restare. Se ci fosse stata l’indifferenza, di fronte ai fatti gravissimi che sono accaduti la tentazione di andar via poteva esserci».
Ma lei è uno che non molla?
«Mai. Ma nella vita bisogna sempre mettere in conto di girare».
Lei ce l’ha questa mania di girare. Ho saputo di un suo lungo viaggio in Africa da giovane con un prete…
«Sì, però non ne voglio parlare. Diciamo che a me piace molto il nomadismo…».
Quanti anni aveva?
«Intorno ai vent’anni. Il primo viaggio l’ho fatto a 14 anni. Ho viaggiato molto in campeggio, canadesi, molto in libertà, e anche da magistrato giro».
Dell’Africa non vuol dire altro? Mi incuriosisce. Nomadismo…
«Anche il magistrato che fa bene il suo lavoro è opportuno che cambi aria. Io sto qui già da cinque anni. Se avessi percepito un’assoluta indifferenza, avrei potuto pensare di lasciare. Invece sono stato stimolato non a non mollare perché io non mollo mai, ma a restare per un periodo più lungo di quello che mi ero prefissato. È altrettanto necessario che il magistrato non viva in una campana di vetro, lontano dalle dinamiche sociali, prescindendo dalla globalizzazione, dall’emigrazione, dal diritto del lavoro».
Quando vede i disperati che arrivano dall’Africa che prova?
«Forse quel viaggio mi ha segnato molto. Sono molto sensibile, l’approccio repressivo è assolutamente errato. I reati vanno repressi ma non si può affrontare il problema immigrazione con la legge o con un pacchetto sicurezza, sono sconcertato dalla politica della tolleranza zero del governo di centrosinistra. Temo che i poteri forti abbiano la linea di utilizzare il diritto per alleviare le ansie di sicurezza collettiva. Un diritto forte nei confronti solo dei più deboli, e poi una spada di latta quando si tratta di andare a toccare il vero sistema criminale, quello dei circuiti del riciclaggio di denaro sporco o i rapporti tra mafia e politica, mafia e economia, mafia e imprenditoria, il bilancio pubblico nazionale alimentato dalla criminalità organizzata, la gestione illecita dei finanziamenti pubblici che influenza il sistema democratico. Colpisce il fatto che si voglia anche vietare a un magistrato di esercitare il diritto di parola. Perché un magistrato non può produrre anche una riflessione pubblica su questi problemi? Penso sia un diritto-dovere».
Si sente molto in queste cose che dice la sua propensione per la filosofia che lasciò per la giurisprudenza. I filosofi che ha amato di più?
«Nietzsche e Marx. Sembrerà strano, ma alla fine completano molto anche il percorso di un magistrato. Nietzsche mette al centro la persona. Anche nel diritto penale l’opzione per la persona è l’aspetto fondamentale: il rispetto per i diritti, la persona come individuo, come indagato, come persona offesa, come imputato. Ricordo le bellissime parole di uno dei più grandi giuristi contemporanei, Luigi Ferraioli, quando dice che un magistrato deve sempre pensare che la persona che si troverà davanti anche per un problema banale non si dimenticherà mai il giorno in cui si è trovato di fronte a lui, come lo ha trattato, se gli ha portato rispetto, se ha leso la sua dignità, se è stato equilibrato, se è stato giusto. Nietzsche mi ha sempre affascinato per questa visione profonda dell’uomo. E poi è straordinario, al punto che ancora oggi si fa fatica a capirlo, a stabilire se è di sinistra o se di destra».
E Marx?
«Ha colto l’essenza che governa lo stato delle cose, cioè l’economia. E poi la concezione marxista è importante perché ruota attorno alla concezione del diritto. A volte a torto si è pensato che Marx mettesse in secondo piano l’aspetto del diritto in quanto sovrastruttura, invece basta leggere alcuni autori marxisti per ritrovare il concetto della funzione rivoluzionaria del diritto».
Che lei sposa?
«Vorrei spiegarmi bene altrimenti potrebbe sembrare strana un’affermazione del genere da parte di un magistrato. Io sono convinto che il diritto abbia una funzione rivoluzionaria, tant’è che negli anni Settanta si è parlato di funzione promozionale e alternativa del diritto. Secondo me, il diritto consente in modo efficace di applicare anche la seconda parte dell’articolo tre della Costituzione, laddove si dice che la repubblica deve portare al superamento delle disuguaglianze sociali e economiche. Attraverso il diritto questo obiettivo è sicuramente perseguibile. Il diritto, se correttamente applicato, è in grado di affievolire o eliminare le disuguaglianze, di fare giustizia, di stare dalla parte dei più deboli».
Per capire, parliamo di corretta applicazione o di qualità del diritto?
«Tutt’e due. Una è la funzione legislativa, cioè il diritto come norma, poi abbiamo l’applicazione e la funzione interpretativa che in alcuni casi è anche uso creativo del diritto».
A che punto siamo con questa interpretazione evolutiva della Costituzione?
«Non molto avanti. Non siamo pronti alla globalizzazione del diritto. Abbiamo una giustizia che ancora non funziona».
Lei ormai è un simbolo. Come si sente?
«Non mi sento un simbolo. Penso veramente di essere un magistrato normale. Quando sono entrato in magistratura ho pensato che si debba fare il magistrato con determinazione, umiltà, passione, coraggio, applicando i principi costituzionali, lavorando con abnegazione, non facendo le scelte che potevano essere più opportune e che davano meno fastidio e non fare deliberatamente quelle che davano fastidio. Per questo non mi sento un simbolo. Certo, prendo atto che soprattutto negli ultimi tempi – ma il percorso è maturato durante gli anni perché evidentemente si è seminato – si veda in me un punto di riferimento, una persona che testimonia di sé coniugando le parole e i fatti. Non è un fenomeno becero, giustizialista, forcaiolo, ma l’espressione di una grande maturità democratica. Qui in Calabria non si dice che bisogna mettere il cappio al politico, chiuderlo in carcere e buttare la chiave, ma si vuole sapere se ci sono reati, se certe inchieste vanno a compimento. Tutto questo avviene con molta serenità, mentre si tenta di bloccare le inchieste e di attaccare i giudici e la stampa (vedi il disegno di legge Mastella sulle intercettazioni). Preoccupa che si abbia paura di un’inchiesta giudiziaria e di un magistrato come un altro, che non è legato ad alcun carrozzone, che ha quarant’anni, che lavora in modo corretto e che è anche un garantista».
Si riconosce qualche errore?
«Errori si fanno, è normale. Però non ritengo di potermi rimproverare errori particolari tali da doverli raccontare, se ci sono sono assolutamente fisiologici per chi esercita questo mestiere. Nonostante io sia stato sottoposto a particolari attenzioni ritengo tutto sommato di non aver commesso errori particolari. C’è stata una recente sovraesposizione esterna che non avrei assolutamente auspicato».
Suo padre non l’avrebbe gradita?
«Anche io ero così fino a qualche tempo fa. Ad un certo punto sono stato costretto a dover rendere pubblica una situazione molto allarmante, e questo mi ha allontanato dal modello di magistrato schivo e riservato che ero sempre stato».
Difficile tornare indietro?
«Certamente. Occorre trovare un punto di equilibrio. Un magistrato non deve mai parlare pubblicamente delle proprie inchieste, l’ho sempre fatto. Ho iniziato a consolidare la presenza all’esterno sui temi della giustizia in generale. E questo penso che col tempo io debba confermare. Auspico di dover fare un passo indietro e di non dover continuare a sottolineare la gravissima situazione in cui siamo».
Con Beppe Grillo a Strasburgo non si è certo defilato.
«Parlerei di semplificazione giornalistica. La cosa è andata diversamente. Sono stato invitato a fare una relazione tecnica da magistrato sui finanziamenti pubblici al parlamento europeo, lo stesso invito era stato fatto a un magistrato dell’Olaf (ufficio antifrode). Poi mi è stato comunicato che era stato invitato anche un noto giornalista italiano di prim’ordine come Marco Travaglio e un noto comico anch’egli di prim’ordine come Beppe Grillo che si erano espressi sulla stessa materia. Non penso che ci sia nulla di male. Poi se si vuole dire che il pm sta insieme al comico si può fare».
Si è anche detto che lei pensa di entrare in politica. C’è qualcosa di vero?
«Purtroppo si ragiona ancora con degli schemi superati. Ognuno fa il suo lavoro. Io voglio continuare a fare il magistrato, ma non mi sottraggo a una riflessione pubblica».
Che idea si è fatta della Calabria?
«La richiesta di tutti è che la politica effettivamente governi questa regione. Sono un po’ preoccupato anche dal segnale che viene dal vescovo Bregantini. Non vorrei che ci fosse un freno alla presa di coscienza del popolo calabrese e alla volontà di cambiamento, che si vogliano colpire persone non solo per aver messo in gioco nel loro ambito loro professionalità ma per la loro pericolosità politica perché con la loro testimonianza hanno fatto crescere la maturità della popolazione. Non vorrei che in questa fase si stia cercando di colpire degli obiettivi sensibili. Sono stato chiaro?».
Molto chiaro. Scrive Vito Teti che un calabrese positivo appena varca il Pollino viene chiamato con il suo nome e cognome, se è un delinquente o un imbroglione perde nome e cognome e diventa solo e sempre un calabrese. Una percezione pessima. È d’accordo?
«Ma qualcosa sta anche cambiando. Anche nelle ultime vicende alla fine è passato un messaggio positivo. Pensi alla ribellione civile».
Per restare a lei e a Bregantini, lei è napoletano e Bregantini è trentino.
«Certo, vi è una difficoltà dei calabresi a rendersi conto di potersi emancipare da soli. Vi è la tendenza, anche storicamente, di dover aspettare qualcuno che venga da fuori. Ci sono anche segnali in controtendenza. La risposta c’è stata e non è secondaria. Io reputo eccezionale il fatto che centomila calabresi abbiano firmato la petizione per un magistrato mettendo nome e cognome, la data di nascita e il numero di telefono. Si era sempre parlato di calabresi nascosti dietro l’anonimato o l’omertà, ma quando mai! Un calabrese ha molto più coraggio di un napoletano. È un fatto straordinario che si incominci a intravedere una collettivizzazione del dissenso. La società calabrese è fatta prevalentemente da gente per bene, ma c’è una parte che vive molto bene mentre la maggioranza vive male. Questa seconda parte sta prendendo consapevolezza dei propri diritti e potrebbe dare una spallata definitiva a questo sistema. Sono ottimista. La situazione è migliore di qualche anno fa, ma potremmo aspettarci anche qualche momento molto brutto».
A che si riferisce?
«A un rischio di strategia della tensione, anche di qualche episodio violento. Un rischio concreto che può aumentare qualora questo cambiamento della società si concretizzi».
Dai suoi colleghi che ha avuto: solidarietà? indifferenza?
«Sul piano personale diverse solidarietà, però sono anche un po’ deluso complessivamente dalla reazione. Ho la sensazione che non si voglia prendere coscienza della gravità del problema. La magistratura è spaccata. Quella che vuole lavorare e che è più sensibile, può essere anche silenziosa, e quindi dà la solidarietà. Invece è più rumorosa e si muove con più insidia la magistratura che è più vicina alle stanze del potere, più organica a questo sistema che ha oppresso e sta opprimendo questo territorio».
Ora che le hanno avocato le inchieste più importanti che ha da fare?
«Ho tantissimo da lavorare. Me ne hanno avocate solamente due».
Solamente?
«Solamente sul piano numerico, ma ne ho tante importanti. Solo che mentre qualche tempo fa per difendermi avevo bisogno di due giorni alla settimana, ora me ne servono cinque. Alla fine ne usciremo perché da magistrato non posso non pensare che la verità e la giustizia verranno fuori».
Un magistrato che deve garantire giustizia e che chiede giustizia.
«E che è certo che ci sarà giustizia. E soprattutto sarò molto contento del fatto che tutti capiranno che cosa è accaduto in questi mesi. Sarà la più grande soddisfazione perché dimostrerà che vale la pena non farsi prendere dallo sconforto».
I suoi predecessori familiari nella magistratura non hanno avuto i suoi problemi. Anche suo nonno era un magistrato.
«Bisnonno, nonno e mio padre».
I suoi due figli?
«Decideranno loro, ora hanno sette e tre anni. Mi auguro che possano fare quello che desiderano».
Lei ama il suo mestiere?
«Molto. Anche adesso».
Quando ha di fronte una persona che deve difendersi da un’accusa come si comporta?
«Sono molto attento. Penso che il profilo umano sia fondamentale in ogni lavoro ma che per un magistrato sia centrale. Non si può mai dimenticare che dietro un fascicolo c’è un essere umano. Curo molto questo aspetto anche quando faccio gli interrogatori».
Ha mai la sensazione di aver ecceduto?
«Il dubbio, la preoccupazione di aver sbagliato o di aver urtato la sensibilità di qualcuno viene, importante è che venga prima di fare un errore. Una volta fatto, lo sbaglio deve servire da esperienza».
Quando in un’ordinanza mette il nome di qualcuno che non deve rispondere di nulla ma che per il solo fatto di finire in quell’atto giudiziario, specie quando diventa pubblico, rischia di finire alla gogna, non sente una particolare responsabilità?
«Che mi sia venuto il dubbio in alcuni casi o di aver commesso uno sbaglio è sicuro. Però non ci sono episodi che mi rimprovero particolarmente».
Lettura, musica. Quanto tempo vi dedica?
«Sempre meno. Sono molto appassionato di musica, soprattutto straniera, i Genesis, i Pink Floyd, ma anche i cantautori italiani, i gruppi soprattutto campani di musica etnica. Libri, un po’ di tutto, ultimamente cerco di leggere cose meno pesanti».
Viaggi?
«Sempre di meno. A Strasburgo…».
In Africa è più tornato?
«No».
Di quel viaggio non vuole proprio parlare?
«No. Di viaggi ne ho fatti parecchi. Ora vorrei portare in giro i miei figli».
Resta il mistero di quel viaggio con lo zio prete.
«No, non la mettiamo così. È più complicato, ma non è un giallo, è solo un fatto di riservatezza».
Allora mi dica una cosa dell’Africa.
«È un posto straordinario, perché là si avverte la ricchezza della persona fino al midollo. Là la persona è al centro di tutto, il suo dramma, le storie, l’intreccio di cultura in alcune zone del Nord Africa. Sono veramente affascinato. Come mi affascina il Medio Oriente, tutta la zona della Palestina, Giordania, Siria. Sono anche un profondo lettore del Vangelo, della storia di Cristo. Sono colpito dalla storia, dalla religione, ma soprattutto dall’esito attuale che sta avendo quella terra».
Vangelo, Marx…
«Non c’è contraddizione. L’unica potrebbe essere che Marx era ateo».
Lei è credente?
«Sì. Penso che si colga molto nella storia del Vangelo e in molti filosofi una forte carica di giustizia, che ho sempre messo al centro della mia vita».
Al di là dei tecnicismi la giustizia nella sua semplicità ed essenzialità che cos’è?
«Saper dare una risposta semplice anche a un problema complesso, saper dare una risposta a una domanda di verità».
Se le impedissero di fare il magistrato che cosa farebbe?
«Non so se lo possono fare. Se lo fanno, se mi allontanano dall’ordine giudiziario come si faceva con i sacerdoti dissenzienti? Penso che è un’ipotesi di scuola. Se accadrà mi inventerò un mestiere».
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Amalia Bruni
Cocciuta. Calabrese. Qualsiasi centro di ricerca nel mondo farebbe ponti d’oro per averla, lei invece no: resiste nella sua terra, non si muove da Lamezia e si batte con i denti per il suo centro di neurogenetica. Le sue scoperte hanno permesso di svelare molti segreti dell’Alzheimer, la quarta causa di morte in età adulta, fino a non molti anni fa una malattia vissuta segretamente in casa o in un manicomio, ventiduemila ammalati in Calabria. Rita Levi Montalcini, ovviamente più che ricambiata, la adora, la Calabria, raramente generosa verso i suoi figli, un po’ meno. Amalia Bruni è un fascio di nervi, emozioni e passioni. Il suo viaggio nel cervello dell’uomo è un’esplorazione iniziata molti anni fa. Ha giocato molto la sua determinazione ma un ruolo lo ha avuto il destino.
Lei è nata a Girifalco, città del manicomio. Un segno premonitore?
«Sono nata per caso a Girifalco. Poiché nel 1955 si partoriva in casa, il parto fu realizzato sotto l’occhio vigile di mio nonno che era il medico condotto di Girifalco. Mio padre, un giovane belloccio, fu il primo preside e professore della scuola media nascente, conobbe la bella figlia del medico del paese, se la impalmò, poi incominciò a errare nella Calabria per insegnare. Sono nata a Girifalco mentre passava la processione della Domenica delle Palme, tant’è che uno dei miei soprannomi da piccola era Palmina, che io detestavo. Infatti ricattavo tutti: se mi dai tre fichi secchi – ne ero golosissima – mi faccio chiamare Palmina».
Quindi, non ha vissuto a Girifalco?
«No, però ho recuperato la memoria di questo paese e del suo ospedale psichiatrico quando ho cominciato a lavorare sull’Alzheimer».
Ci arriveremo. L’infanzia dove?
«A Lamezia, a Nicastro, dove mio padre era stato trasferito. Liceo classico, scout da piccola, caposquadriglia, poi crisi esistenziale, Udi».
Passò dagli scout di area cattolica all’Unione Donne Italiane dominata dai comunisti.
«Non ci ho mai visto differenze, perché ho sempre ritenuto l’uomo l’oggetto di interesse».
L’università a Roma?
«No a Napoli. La decisione fu un po’ sofferta. Volevo scegliere psicologia che all’epoca era o a Roma o a Padova. Ma c’era già un fratello all’università di Napoli per cui mio padre disse: figlia mia, o lì o lì, tuo fratello è già a Napoli, due figli nella stessa casa riesco a mantenerli, diversamente no. Rimuginai e decisi di arrivare allo studio del cervello attraverso il percorso della medicina».
Dove si iscrisse?
«Al Secondo Policlinico. Al terzo anno mi presentai alla clinica dove fuori c’era scritto “malattie nervose e mentali”. Entrai per chiedere l’internato, avevo fatto una corsa per dare tutti gli esami utili. La clinica era già divisa tra psichiatria e neurologia ma nessun cartello lo faceva capire. Per caso capitai al piano terra dove c’era la segreteria del professore Buscaino, mentre al piano di sopra c’era il professore Rinaldi. Fosse successo l’inverso sarei diventata psichiatra».
Perché l’attraeva il cervello?
«Mi ero sciroppata un trattato di psicoanalisi e mi affascinava capire il perché dei comportamenti umani».
Freud, Jung, a quell’epoca era fortissima la suggestione che esercitavano sui giovani. Anche su di lei?
«Ero piena delle idee del mio tempo. Diciamo che ho ricostruito e sanato tutto questo percorso nell’ottica della neurofisiologia. Ho capito poi di aver fatto la scelta giusta perché la trasposizione filosofica è importante ma i dati dell’esistente non possono essere negati».
La scienza?
«La scienza vera, quella inconfutabile. Prenda lo shiatsu. I cinesi sono stati soltanto dei grandi empiristi nel senso che hanno utilizzato l’osservazione in maniera straordinaria, ma quella che è considerata una filosofia cinese in realtà è neuroscienza dal momento che tutto è spiegato benissimo nell’immenso contenitore del cervello umano».
Si laurea a Napoli?
«In cinque anni, una corsa rapida perché mio padre mi aveva allertato: figlia mia, tu vuoi fare medicina, tieni conto però che è una strada lunga e difficile, sei una donna, forse sarebbe meglio che facessi l’insegnante, ti lascerebbe più spazio. Insomma era forte la mentalità che tu puoi anche studiare, fai una bella figura, però comunque ti devi interessare di casa, famiglia e figli. Il lavoro di insegnante ti dà tre mesi di vacanza, i periodi festivi…».
Una volta.
«Esatto. Presa la laurea nel 1979 chiesi al professore Buscaino di rimanere a Napoli. Mi piaceva l’università, poi eravamo molto pochi all’epoca, tutti giovani entusiasti. Ricordo quante notti a vegliare il sonno dei parkinsoniani per registrare da un punto di vista neurofisiologico ogni variazione, facevamo noi i prelievi. È stata una formazione straordinaria perché non essendoci molto personale eravamo utilizzati come manodopera».
Napoli antica capitale nel bene e nel male, e comunque ancora un faro di cultura?
«Per la mia famiglia Napoli era un punto di riferimento, perché molti miei zii e cugini erano lì. In particolare c’era stato il fratello di mia madre, Salvatore Tolone, un neurologo, allievo di Buscaino il vecchio, morto a 42 anni in un incidente stradale, ma lì era rimasta la sua famiglia, c’era un mio cugino, Romolo, che all’epoca era direttore dell’istituto Pascale».
Era ben seguita?
«Sì, ma Romolo tentò di distogliermi dallo studio della neurologia soprattutto quando realizzò che non sarei rimasta all’università. Devi fare l’endoscopista perché in Calabria non ce ne sono».
E lei come gli rispose?
«Andai per quindici giorni al Pascale a fare le endoscopie: i malati vomitavano da una parte e io vomitavo dall’altra. Non mi interessava minimamente. Io che non avevo mai avuto timore di fronte a un malato in crisi epilettica andavo in bestia per l’endoscopia. Lui insisteva: ritornerai in quella terra, lì c’è solo una neurologia manicomiale».
Lasciò Napoli?
«Non potevo restare, Buscaino mi spiegò che era difficile l’inserimento, tornai in Calabria e feci il tirocinio a Catanzaro, al reparto di neurologia del Pugliese. Contemporaneamente facevo le guardie mediche a Filadelfia dove le ho passate di tutti i colori, e frequentavo la scuola di specializzazione a Napoli da Buscaino dove ero riuscita ad entrare nonostante proprio quell’anno avessero introdotto la lotteria dei test per l’ingresso. Arrivai prima su sessanta».
Una vita piena?
«Una vita folle. Viaggiavo con la mia Renault 4 tra Napoli, Nicastro e Filadelfia».
Un’auto cult. Colore?
«Rossa fiammante. Era sempre nel filone. Tra l’altro mi ero sposata e la mia abitazione era una mansarda. Tutto un po’ bohemien».
Suo marito?
«È di Lamezia. Ho tre figli, un maschio di ventidue anni e due femmine di venti e di quattordici».
Quando incomincia a fare ricerca?
«A quell’epoca c’era solo la ricerca del posto di lavoro. Con mio marito, anche lui medico e scout, c’eravamo ritrovati a Napoli dopo anni di avventure: ci prendevamo e ci lasciavamo, poi ci fu il reincendio. Eravamo convinti che questa terra dovesse avere un riscatto. E siamo tornati per mettere su famiglia in maniera precisa».
Trova il posto di lavoro?
«Venne bandito un concorso per un posto di assistente in neurologia nell’ospedale di Nicastro, partecipai – devo confessare – per non viaggiare più. Quindi, ero anche un po’ amareggiata, mi ricordavo della premonizione di mio cugino. Entrai in questo ospedale, in neurologia. L’unico medico, Giovanni Caruso, per prima cosa mi mise nelle mani un neonato dicendomi: d’ora in poi della parte pediatrica della neurologia ti occupi tu. Volevo morire, io venivo da una scuola di neurologia dell’adulto, i bambini li avevo visti con Salvatore Striano, un maestro in materia al Secondo Policlinico di Napoli. Il primo anno fu folle. Per un periodo ho fatto l’autodidatta, sono stata al Gaslini di Genova per più di un mese a studiare. Ho lavorato con il primario Elisio Scuteri, che ha creato una pediatria e una neonatalogia in questa terra».
Come passa agli adulti?
«I pomeriggi stavo sola, mio marito era in marina per il servizio militare, ancora senza figli, leggevo e studiavo. Poiché non mi sono mai fatta i fatti miei, trovai una corrispondenza sulla scrivania di Giovanni Caruso, una serie di lettere di un tal Jean Francois Foncin della Salpetriere di Parigi che chiedeva la collaborazione per lo studio di una famiglia con l’Alzheimer ereditario. Avevo visto casi strani ma di questo non avevo mai sentito parlare per cui chiesi informazioni a Giovanni. Mi disse che c’era una famiglia che aveva l’Alzheimer ereditario, ma che non era mai riuscito a saperne di più: questa potrebbe essere una cosa importante per te».
E lei?
«Telefonai al professore Foncin, un mito per i neurologi di tutto il mondo, avvalendomi di un tecnico di radiologia che era stato emigrato in Francia e conosceva la lingua. Dopo una settimana Foncin era qui con un computer portatile che gli occupava tutto il bagagliaio, tra l’altro pieno di fieno perché faceva anche il contadino a tempo perso».
Lo scopo?
«Nel 1973 era stata ricoverata alla Salpetriere una donna emigrata a Parigi che dopo aver partorito l’ultimo bambino non voleva allattare il bambino, era incurante, agitata. I neurochirurghi, che avevano sospettato un tumore frontale, facendo la ventricolografia – eravamo in epoca pre-tac – avevano prelevato un piccolo frammento di corteccia, l’avevano messo sul vetrino e l’avevano mandato a Foncin per l’estemporanea. Vedendo la colorazione, Foncin aveva detto: ma quale tumore, questa ha un Alzheimer, ha le placche senili a degenerazione neurofribillare. Enorme la sua sorpresa quando gli avevano detto che aveva 42 anni. Ed era aumentata sentendo il racconto del marito della paziente: veniamo da un piccolo paese della Calabria, nella famiglia di mia moglie sono morti tutti così all’ospedale psichiatrico di Girifalco».
Il destino?
«Straordinario. Foncin aveva capito che era un filone importantissimo da seguire, assolutamente sconosciuto all’epoca: si parlava di Alzheimer come di una malattia molto rara, non si capiva cosa fosse la demenza senile. Foncin aveva chiesto dei finanziamenti al governo francese che li aveva negati accusandolo di voler fare il turismo scientifico. E lui più testardo di un mulo, più testardo di un calabrese, aveva deciso di trovare dei finanziamenti in una fondazione privata».
Venne a Girifalco?
«Nello stesso anno. Prese la cartella della famiglia, ma il lavoro si arenò perché a duemila chilometri di distanza era difficile portarlo avanti. Da lontano scriveva lettere al professore Giorgio Macchi, una delle grandi menti della neurologia italiana, e che al Gemelli era stato direttore di cattedra di Caruso. Per cui come Foncin scriveva le lettere a Macchi, questi le metteva in busta e le mandava a Caruso a Nicastro».
E Caruso le teneva sulla scrivania prima che lei ci ficcasse il naso.
«Infatti il giro si chiude con la mia telefonata a Foncin, che quando seppe che ero nata a Girifalco e che il direttore dell’ospedale con il quale aveva avuto i primi contatti era un mio zio acquisito, disse: la tua decisione per la neurologia è genetica».
È stata fortunata. Quello che cercava era a due passi. Le pare?
«Sì. L’archivista, che conosceva la mia famiglia, la più importante di Girifalco, mi apriva l’archivio di pomeriggio, la mattina lavoravo. Tirai fuori queste cartelle, di cui una bellissima, che ci ha permesso la ricongiunzione con la branca americana studiata in maniera del tutto indipendente da Feldman che nel 1963 – io avevo otto anni – nei ringraziamenti della sua pubblicazione citava l’ufficiale dello stato civile di Catanzaro. In effetti si trattava della prima paziente, da cui ha origine la ricerca americana, di cui ho trovato la cartella nell’ospedale psichiatrico di Girifalco. Una cartella del 1904, cioè tre anni prima che Alzheimer descriva la malattia. È il primo documento storico di un Alzheimer sicuro, perché da questa donna discendono pazienti con mutazione genetica che abbiamo sotto il naso».
Il primo riconoscimento del suo lavoro?
«La tesi di specializzazione. Il professore Buscaino , che si era pentito di avermi fatto andare via, mi disse: è una pietra miliare, te la pubblico. Il professore Macchi mi definì la chiave di volta dell’Alzheimer».
Anche Rita Levi Montalcini è stata prodiga di complimenti con lei.
«L’avevo conosciuta nel 1987. Un anno prima aveva avuto il premio Nobel. Nel febbraio ci fu un grande congresso al Cnr in suo onore. In quel mese fu pubblicato su Science il mio studio sulla prima identificazione del cromosoma 21. Il professore Luigi Amaducci decise di darne l’annuncio nel congresso. Ci fu, quindi, un’eco straordinaria. Nei tempi in cui nasceva la neurologia molecolare, l’idea di identificare il gene dell’Alzheimer nelle due famiglie calabresi su cui stavamo lavorando, aveva avuto un successo incredibile. E fu Amaducci che sapeva in quali condizioni lavoravamo – il servizio di neurologia era in una stanzetta in cui facevamo a turno per respirare –, a propormi di aprire a Lamezia lo Smid Sud, il centro per lo studio multicentrico italiano demenze».
Come andò con la Montalcini?
«La invitai all’inaugurazione e lei mi disse che era onorata di venire. Nacque una simpatia immediata, la mia era abbastanza scontata, ma devo dire che è stato lo stesso per lei. Mi ha voluto bene, forse si è un po’ impersonata con le mie difficoltà».
Le ha dato consigli?
«Non ho mai lavorato con lei, ma mi ha seguito moltissimo. Credo sia ormai un mito, la donna che ha dato tanto e che ha fatto scoperte fondamentali. Un modello assoluto. Anche di longevità. Negli ultimi mesi, per le tante vicissitudini che viviamo, le ho scritto come un figlio si rivolge alla madre nei momenti di necessità, lei è la mia madre scientifica…».
Quando nacque il centro di neurogenetica?
«Nel 1992 Smid cessò le attività. Bisognava riconvertirsi, c’era un piccolo finanziamento del Cnr, si cercava un’unità operativa perché l’ospedale non era più sufficiente, tutto era precario. Passai la terza gravidanza a piatire un posto dove mettere le nostre cose. Il direttore amministrativo Pietro Caligiuri ci diede due appartamenti del consultorio».
A quel periodo risale l’isolamento del gene?
«Era il 1995. Una cosa emozionante. Non ci speravamo. Facemmo una conferenza stampa in comune con il Canada perché il risultato era stato conseguito con lo studio contemporaneo di cinque famiglie. Un clamore enorme. La mutazione condivisa era uguale, probabilmente rimanda all’anno mille. Questa conferenza volli farla con la regione Calabria, mi sentivo di condividere il successo con le istituzioni. Venne il presidente Giuseppe Nisticò, e forse perché la Montalcini gli si era messa nelle orecchie (“fai qualcosa per Amalia”) decise di far nascere questo centro, monco, senza soldi».
Non esageri.
«Non esagero. C’era solo un finanziamento triennale, scelta anche giusta perché dovevamo essere messi alla prova. Però i soldi arrivavano dopo tre anni, nei primi anni con difficoltà estrema, con un finanziamento di privati canadesi realizzammo uno studio sull’umore, abbiamo tirato la cinghia».
Una battaglia continua?
«Sì, direi che questo dei dieci anni non è un compleanno felice. Si celebra una resistenza, non un’esistenza».
Quando avverrà?
«Sto preparando un grande convegno dal 3 al 4 ottobre prossimi in cui celebreremo la resistenza del centro di neurogenetica. Nonostante tutto».
Perché il Sud è condannato a avere questi comportamenti?
«Ce li vogliamo. L’emigrazione ha privato la Calabria della maggior parte delle persone forse più capaci. Sono sempre convinta che quelli che siamo rimasti siamo i peggio non i meglio, i meglio se ne sono andati. Noi abbiamo perso quasi due generazioni, la mia e quella successiva, forse più del cinquanta per cento dei miei compagni di scuola sono fuori. Non c’è stato scambio. Sono state sottratte delle risorse straordinarie. Questa è la verità».
Anche in politica?
«Il problema è di aver visto la politica come qualche cosa di sporco, e nessuno ci si è voluto mischiare. I pochi tentativi fatti, anche a Lamezia con le liste dei movimenti, sono stati penalizzati, perché la politica ha le sue regole durissime, devi essere tagliato in una certa maniera per entrare nel gioco. Non vedo la Calabria difforme dal resto dell’Italia, ma qua i problemi sono acuiti perché manca la normalità, non ci sono procedure certe. Questo centro è andato avanti perché ci inventammo l’associazione di neurogenetica: l’ho fondata perché all’epoca mi avevano vietato di condurre la ricerca nell’orario di servizio».
Di positivo c’è che quando si impegnano le donne qualcosa succede. È d’accordo?
«Ne sono convinta. Perché abbiamo la capacità di metterci più passione. Anche se poi ci ritroviamo spesso una contro l’altra».
Si continua a scappare dalla Calabria?
«Sì».
Lei ha avuto la possibilità di andare via?
«Sì. Adesso sono sufficientemente vecchia, soprattutto ho tanti anni di servizio che nel giro di tre-quattro anni mi posso mettere in pensione».
Quando si pensa alla pensione vuole dire che le cose non vanno bene.
«Non vanno bene. Diciamo però che questa cosa la tengo in un angolino del cervello, non ci penso quotidianamente. Ho tanti obiettivi di ricerca cui voglio dare una risposta. Però, la situazione è veramente difficilissima. Dopo dieci anni siamo riusciti ad avere un fondo stabile che è dovuto passare come emendamento in un Consiglio regionale per iniziativa di due consiglieri, Antonio Borrello e Franco Pacenza, persone che tra l’altro non sono di Lamezia e che io conosco molto poco, anzi Pacenza non lo conosco affatto, che evidentemente si saranno sentiti motivati dalla mia battaglia. Come devo andare avanti? Ma ci credete o non ci credete in questa struttura? Se non volete, ditelo chiaramente. È assurdo che una struttura del genere debba morire perché a qualcuno salta lo schiribizzo che debba essere chiusa».
I soldi sono arrivati?
«Per ora è una vittoria di Pirro perché con l’accorpamento delle Asl non si capisce se arriveranno. Vigilerò, vigileremo tutti».
I prossimi risultati importanti?
«A giorni verrà comunicato l’isolamento di un nuovo gene a cui lavoriamo da quindici anni».
Dell’Alzheimer ormai si sa molto?
«Abbastanza. Con la sortilina annunciata a gennaio si è aggiunto un altro grande tassello».
Il manicomio di Girifalco è finito nella canzone vincente di Sanremo. Quando ha sentito Cristichi che ha provato?
«Un po’ di malinconia. La canzone mi è piaciuta anche se poi è Sanremo. Oddio, uno potrebbe avere un atteggiamento molto dicotomico: da un lato pensare che le canzonette un po’ involgariscono una sofferenza profonda, dall’altro che in tal modo questi temi vengono fuori. È altresì vero che questi ospedali psichiatrici erano anche una risorsa di cultura».
Non erano dei lager?
«Erano sicuramente anche dei lager perché lì c’erano malati che non dovevano esserci, i malati in osservazione per un trauma cranico, gli epilettici. C’erano ingiustizie terribili. Ma io ho scoperto nell’ospedale di Girifalco una biblioteca che era degna della Salpetriere. Dove sono finiti quei libri non lo so».
Che cosa è il cervello?
«Un territorio affascinante. Patologie psichiatriche apparentemente tali in realtà non sono altro che dei segni di esordio delle malattie. Per trent’anni uno può essere etichettato come un malato psichiatrico e poi te lo ritrovi con un quadro di violenza frontetemporale. Capire che cosa si sviluppa, perché e come… Resto sempre affascinata dal cervello che purtroppo non è in grado di studiare sé stesso fino in fondo. Pensi ad una persona che si definisce brava, ma è brava perché è empatica, cioè capace di relazionarsi con gli altri, e l’empatia non è altro che cellule. Questo non è riduttivo, è straordinario».
Siamo bombardati da notizie scientifiche del tipo: scoperta la zona del cervello che controlla il sonno, e via elencando.
«È un puzzle di una complessità incredibile».
A che punto siamo del puzzle? Alla cornice?
«Non le saprei dire. La cornice sicuramente sì. Si sta cercando di entrare in profondità».
La scienza sembra non avere più limiti. Pezzi di ricambio anche per il cervello?
«È molto più difficile. Non è ipotizzabile smontare e rimontare».
Ai suoi figli augura un futuro in Calabria?
«I miei due figli grandi sono all’università a Roma. È un’amarezza terribile vedere i figli che se ne vanno via. È giusto che abbiano periodi di distacco dalla famiglia, però è anche vero che noi siamo andati a sederci sui binari per avere l’università in Calabria. È amaro. Ma c’è una rivoluzione così grande che ci deve spingere a considerare la Calabria come un pezzo di Europa in cui siamo figli d’Europa e del mondo, andiamo e veniamo. Però i calabresi vanno solo, qui chi arriva? Gli albanesi e i marocchini, con tutto il rispetto per gli extracomunitari, però non arriva il colto. Se ci fosse lo scambio mi andrebbe benissimo, ma non c’è scambio. Noi continuiamo a restare come un’isola genetica, quasi come la Sardegna, e a rivaleggiare tra di noi».
Lei è una calabrese cocciuta?
«Cocciuto è un termine positivo o negativo? Se cocciuto è cocciuto, indica il coccio tosto. Si, assolutamente calabrese. Ariete con ascendente Leone».
Il suo sogno?
«Che questa struttura resti, che possa vivere di sé anche quando non ci sarò più».
Leopoldo Conforti
Classe 1925, ovvero quando l’intelligenza unita alla cultura non ha età. Generazioni di professionisti lo hanno temuto, amato e stimato e non lo hanno dimenticato. Era il professore di latino e greco del liceo classico Bernardino Telesio di Cosenza, ma chi lo ricorda parla soprattutto delle sue lezioni di letteratura greca, delle figure note e meno note che uscivano dalle pagine dei libri e si materializzavano nell’aula attraverso le sue parole. Leopoldo Conforti è persona schiva, d’altri tempi, ama la vita, la colonna sonora della sua casa è un concerto di uccelli, si infiamma se viene chiamato a parlare di quel mondo lontano. Lontano? Capo Colonna, Sibari, Locri, Reggio sono davvero così lontani? La Magna Grecia è vicina più di quanto disinteresse e incuria non facciano pensare. Prestare più attenzione al periodo più splendente della storia della Calabria non è solo un dovere se si vuole guardare a un futuro partendo dalle migliori radici di questa terra, ma è anche un gran piacere della mente. E il professore di greco è una guida straordinaria in questo viaggio all’indietro.
Ha allevato tanti studenti, nel frattempo la città cambiava. Com’era Cosenza quando ha incominciato?
«Sono nato a San Benedetto Ullano, a Cosenza sono arrivato durante la guerra. Erano ancora evidenti i danni dei bombardamenti, era una città distrutta».
Dove si è laureato?
«A Bari».
Ma dalla Calabria non si andava solitamente all’università di Napoli?
«Mi sono iscritto all’università dopo l’8 settembre del 1943. Napoli era vista come una città difficile, era l’epoca in cui Curzio Malaparte scriveva “La pelle”. I miei genitori ritennero che era una città poco tranquilla, e preferirono Bari. Andavo in Puglia soprattutto per fare gli esami. Si viaggiava in vagoni con il cartello “uomini quaranta e cavalli otto”, solo che i cavalli non c’erano mentre gli uomini erano cento e non quaranta. Si partiva alle due del mattino e si arrivava a Bari alle dieci di sera».
Dopo la laurea è venuto a insegnare a Cosenza?
«Nei primi tempi insegnai alle medie. Poi arrivai al liceo Telesio e ci sono rimasto».
Perché latino e greco?
«Ero laureato in indirizzo classico. Avevo una certa tendenza verso l’antico».
Al Telesio tanti studenti, uno per tutti?
«L’attuale sindaco Salvatore Perugini».
Bravo?
«Sì, era capace».
Lei era molto severo?
«No, anche se credo che una certa severità ci deve essere. Forse severità non è il termine giusto, diciamo che serve una certa serietà. Non dico che bisogna usare la sferza dei latini».
Oggi può capitare che un professore subisca i rigori di un genitore che interviene a difesa di suo figlio. Tempi cambiati?
«In peggio. Sia chiaro, non sono uno che dice “ai miei tempi”, anche perché ai miei tempi c’erano quelli che copiavano, c’erano gli scostumati».
Lei metteva anche un due meno a tutta la classe se sospettava che avessero copiato?
«Può darsi. Non bisogna esagerare con le punizioni, ma qualcosa ci deve essere».
Qualcuno che ha bocciato e che poi nella società ha avuto successo?
«Sì, ce n’è stato qualcuno. Ci sono gli incapaci a scuola che poi mostrano qualità importanti
fuori della scuola. Ma generalmente è difficile trovare un grande professionista che a scuola fosse scadentissimo».
Lei crede che l’insegnamento classico abbia ancora un fondamento?
«Secondo me, sì. D’altro canto non posso smentire me stesso che sono di formazione classica».
Con gli amici lei parla in latino?
«No. Scherzo un po’ con un’amica mia e collega con la quale ci salutiamo in lingua latina».
Le sue lezioni di greco erano seguitissime. Come faceva a far appassionare gli studenti?
«Distinguiamo. Il greco si studiava in due anni di ginnasio e tre di liceo. I primi sono gli anni dedicati alla grammatica e alla sintassi che per forza di cose non sono accattivanti, nel liceo si parla di letteratura. È come in medicina: uno sciroppo può anche piacere, la siringa sicuramente no. La sintassi è la siringa, la letteratura greca è lo sciroppo».
Pentito di qualche giudizio?
«No, forse ho peccato più di indulgenza».
Ai giovani calabresi consiglierebbe di studiare latino e greco?
«Ho l’impressione che si sia fatta una lotta incomprensibile a queste materie, anche forse per motivi ideologici. Si pensava che il liceo fosse la scuola dei signori. L’obiettivo doveva essere semmai quello di far sì che i poveracci andassero nella scuola dei signori. Non si distrugge la casa a chi l’ha, ma occorre costruirla a chi non l’ha».
Un professore di greco in una regione come questa forse ha un compito in più?
«Da un punto di vista culturale noi abbiamo diverse Calabrie, con una presenza significativa ma non da protagonisti in tutte le epoche, dalla Calabria pregreca alla greca È, da quella medievale e bizantina – pensi a Rossano – a quella rinascimentale, all’Accademia Cosentina».
Soffermiamoci sulla Magna Grecia, il periodo di maggiore splendore. Si conosce abbastanza?
«La scuola non insiste molto sulla Magna Grecia. Vi si dedica di più chi si occupa di letteratura, ma nel periodo scolastico non si ha nemmeno il tempo di focalizzarla. La Regione nelle scuole dovrebbe intervenire di più senza intralciare i programmi del Ministero».
Proviamo a spiegare il valore della Magna Grecia parlando di alcuni luoghi fondamentali. Locri.
«È la realtà più interessante e complessa della Magna Grecia. È la città delle tavole di Zaleuco, il primo codice scritto d’Europa. È la città del matriarcato che nasce da varie leggende. Una di queste vuole che gli uomini fossero andati in guerra e che le donne rimaste a casa si fossero accoppiate con gli schiavi e si apprestassero a partorire. Poiché la situazione era diventata imbarazzante, queste donne decisero di andare via e vennero a stabilirsi nel promontorio Zefirio da cui nacque la nostra Locri. C’erano, dunque, figli di schiavi ma con mamme aristocratiche che preferivano far dimenticare la loro paternità e valorizzare l’origine materna. Da qui la maggiore considerazione che le donne a Locri avevano rispetto alla Grecia, tant’è che si parla di matriarcato locrese. Ma Locri fa pensare anche ad altro, al culto di Afrodite, agli epigrammi di Nosside, ai suoi versi “nulla è più dolce d’amore ed ogni altra gioia viene dopo di lui: dalla bocca sputo anche il miele…”. Locri è il luogo più stimolante».
Più di Sibari?
«Sibari ha una vita breve, duecento anni. Grande e splendida città ma anche sfortunata: fu distrutta e fu sommersa dal Crati deviato sulle sue rovine perché sparisse definitivamente. Si presenta come la città degli scialacquatori, di quelli che si dedicano alle gozzoviglie, dei sardanapali. Questa insistenza sulla corruzione di Sibari è eccessiva. Era una città piena di soldi, ma da questo a dire che era corrotta mi sembra un’equazione esagerata».
Un’equazione esagerata anche se pensiamo a Smindiride, l’uomo più ricco della città, come ricorda Erodoto? Ci parla del suo letto di rose?
«È un aneddoto più che un racconto. Smindiride giaceva su un letto di petali di rose. Era agitato e non riusciva a capirne il motivo. Si alzò per trovare pace e scoprì di avere il corpo cosparso di bollicine e lividi. Colpa, pensi un po’, di alcuni petali che si erano piegati in due e avevano maltrattato la sua tenera epidermide».
Crotone?
«Ovviamente è la città di Pitagora, della filosofia, della musica, della medicina, dell’astronomia, tutte propaggini della scuola pitagorica. anche la città delle lettere della moglie di Pitagora, ma anche di altre donne».
Reggio?
«È la città dove fioriscono la cultura letteraria e la cultura storiografica. A Reggio nascono la questione omerica e gli studi grammaticali, mentre la storiografia occidentale ha in Ippi il primo esponente anche se di lui purtroppo conosciamo i titoli e non le opere».
La Calabria è una regione che si piange addosso?
«È la letteratura calabrese che si piange addosso, che ha sempre scritto di gente emarginata e sofferente, di briganti. Dobbiamo smetterla con questo lamento, che dura da secoli, sulla condizione miserevole della Calabria. Ne è piena tutta la letteratura. Forse le intenzioni erano positive ma se uno parla sempre del negativo finisce con l’afflosciarsi».
Ma lei che idea ha della Calabria?
«La Calabria non si conosce. Il calabrese non conosce sé stesso. L’università l’abbiamo da poco. Poi la condizione economica, geografica, la mancanza di comunicazioni rendono la situazione difficile, ma un po’ dipende da quella tendenza dei calabresi, che è anche di tutti i meridionali, di afflosciarsi».
Tornando alla Magna Grecia, se potesse catapultarsi all’indietro dove le sarebbe piaciuto abitare?
«A Locri, perché mi pare più interessante, più vivace. È l’esatto contrario della Locri di oggi. Un poeta come Pindaro si rivolgeva alle muse dicendo loro: andate a Locri perché lì trovate la vostra casa. Mi sembra una città più affascinante. E c’è ancora tanto da trovare, anche perché la Locri attuale non è costruita su quella antica com’è successo in altri luoghi».
Ai calabresi indicherebbe Smindiride come un modello?
«Da quando scomparvero lui e la sua straordinaria città, sono spariti dalla Calabria l’opulenza e lo splendore. Loro, Smindiride e Sibari, sono la testimonianza di un tempo felice. Io continuo a pensare a loro come a un sogno. E i sogni aiutano a vivere».
È un messaggio?
«No, parlo un po’ ironicamente. Dico che siccome della Calabria si è parlato sempre come di una terra di poveracci, di emarginati, di briganti, finalmente abbiamo un personaggio che non è un poveraccio. Ripeto, ne parlo un po’ per scherzo».
Se la Calabria dovesse ripartire dalla sua storia, non dovrebbe prendere in considerazione il suo momento di massimo splendore, la Magna Grecia?
«Non c’è dubbio. Ma, attenzione, anche la Magna Grecia ha le sue negatività, le sue guerre intestine, i suoi odi interni. Non era certo il paradiso terrestre. Le città greche erano litigiose per natura, Sibari venne distrutta da Crotone, vi fu una guerra tra i locresi e i cotroniati vinta dai locresi. La Magna Grecia non è diversa dalla Grecia perché un male endemico della Grecia, che poi costituisce la sua debolezza, è la rissosità. Questo vizio, se vogliamo chiamarlo impropriamente così, si trasferisce alla Magna Grecia. Ogni colonia era autonoma. In fondo per unificare la Grecia c’è voluto uno straniero, Alessandro Magno, che era macedone anche se di educazione greca».
Un itinerario possibile?
«Bisogna sapere da dove veniamo, qual è la nostra storia».
E si sa poco?
«Non si sa abbastanza. Non è che non ci siano libri, anzi. Però, i calabresi hanno prestato scarsa attenzione alla loro storia. Pensi ai nostri scavi: gli archeologi non sono calabresi. Non è che la Calabria con la sua miseria si poteva occupare di Locri o di Reggio, ma oggi bisognerebbe impegnarsi di più. Occorre farla finita con il lungo oblio. E lo devono fare soprattutto i calabresi, sicuramente non un piemontese o un lombardo».