Una luna di miele già finita

La luna di miele è già finita anche se questa prevedibile svolta non cambia il quadro politico: De Luca è stato appena eletto presidente della Regione e ha davanti a sé cinque anni di governo assicurati da una salda maggioranza. Dunque, almeno da questo punto di vista non ha nulla di cui preoccuparsi. Ora, però, rischia di vedersi ritorcere contro la sua forza, che era consistita in una comunicazione esagerata ma efficacissima in un momento di grande emergenza per il paese. Durante quei mesi che sembrano già lontani, per una serie di circostanze la Campania era riuscita a cavarsela, pur con perdite, come meglio non poteva, tanto da conquistare consensi e apprezzamenti nazionali e internazionali: il voto quasi plebiscitario ne è venuto di conseguenza.

Appena pochi giorni fa De Luca aveva minacciato di chiudere tutto se si toccava la soglia dei mille contagi. È stato di parola. Siamo di nuovo entrati nella fase del “serrate le file”, si è incominciato dalla scuola, già martoriata dalla pandemia come se non di più dell’economia e anche dalle ricorrenti chiusure per pioggia e vento particolarmente temibili per la nota assenza di manutenzione generale della città.

Ormai è chiaro che si procederà anche in altre direzioni ma per ora, fino a nuove ormai inevitabili limitazioni, sono gli studenti, i docenti, il personale ausiliario a rimanere a casa. E poiché non c’è l’obbligo di restare nelle mura domestiche, alcune decine di migliaia di persone potranno circolare non si sa con quante garanzie di sicurezza collettiva maggiori rispetto allo stare in scuole dove comunque, pur con qualche pecca, vigevano misure di prevenzione più dettagliate e imposte a tutti. Si spera nella paura, che sembra già produrre i suoi effetti, e anche nel fatto che tanta gente non sarà costretta a utilizzare il trasporto pubblico nelle stesse ore. D’altro canto lo sfascio del sistema dei trasporti è tale da non consentire programmi graduati di utilizzazione.

Teoricamente fa bene il sindaco de Magistris a lamentare che Napoli, la città la cui importanza nel contesto regionale è scontata, sia tenuta fuori perfino dalle consultazioni sulle misure anti-pandemia. E sempre teoricamente il presidente De Luca sbaglia a decidere tutto anche per suo conto (il concetto si può estendere ad altri comuni). Nella pratica si ripete anche in una fase così difficile e drammatica uno scontro antico che ha nuociuto a tutti e di cui ora, per quanto si sia alla vigilia delle elezioni amministrative nel capoluogo, non si avverte il bisogno.

In questi giorni si discute a tutte le latitudini del nuovo sindaco di Napoli: scenari, ipotesi, alleanze, nomi, chi più ne ha più ne metta. E si attende la prossima primavera, quando si voterà, come una sorta di panacea per tutti i mali accumulati in questo decennio (a ben vedere la datazione dovrebbe essere estesa molto più all’indietro, almeno al tempo delle montagne di rifiuti fino ai primi piani dei palazzi)). C’è da chiedersi: ma come ci arriviamo a quell’appuntamento? Che si fa ora e qui? Possiamo chiedere all’irresponsabile virus di farsi carico delle nostre alchimie, delle nostre divisioni, delle nostre strategie per il mondo che sarà?

Forse può servire il ricordo di una persona e della lezione che diede. Quando Napoli fu investita dal colera si creò una situazione drammatica, benché non estesa come quella attuale che non ha confini e certezze. Il Comune di Napoli non so se stava in condizioni migliori di quelle attuali, sta di fatto che il sindaco democristiano e la sua amministrazione potevano essere travolti dalla congiuntura che si era determinata. Ebbene, un avversario politico, il comunista Andrea Geremicca, mise da parte la consueta polemica politica e lanciò un messaggio chiaro: ora è il momento di agire, di essere uniti per superare l’emergenza. E così fu. Ricordate le ordinatissime e lunghissime file per la vaccinazione? Avete presenti gli infermieri inventati al momento, perché solo militanti politici, che facevano vaccinazioni non avendo titolo per farle? Tra “l’angoscia e la speranza” l’arma fu l’unità, il tirarsi su le maniche nell’interesse collettivo che al momento era preminente. Sarebbe bene far tesoro di quell’esperienza perché da lì si potrebbe ricavare anche maggiore impulso alla responsabilità dei singoli cittadini che, tra titubanze e scetticismi e anche tanti cattivi maestri, in questi mesi hanno abbassato la guardia. Non tutti, naturalmente, altrimenti la situazione sarebbe ben più grave, ma sono stati abbastanza per farci ripiombare nell’incubo.

Editoriale pubblicato il 17 ottobre 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

Noi discutiamo, il virus no

Preoccupazione, ansia, paura. Sono sentimenti di questi giorni, di queste ore, mentre, in assenza di campionati di calcio degni di essere seguiti, indugiamo sugli unici numeri che se ne fregano dei dibattiti da bar dello sport e ostinatamente dettano legge. Sapevamo, non perché siamo scienziati ma solo perché ci avevano avvertito, che in autunno il virus avrebbe ribussato nelle nostre vite e così si sta verificando. Dovevamo essere più previdenti e prudenti, più rigorosi con noi stessi, e invece, non tutti sia chiaro, abbiamo pensato che il peggio fosse alle nostre spalle. Non è così, quei numeri sono una pugnalata quotidiana alla nostra serenità.

Dovremmo chiederci un sacco di cose. Ma noi siamo molto bravi a fare gli allenatori di calcio anche se non sappiamo tirare un rigore, e ci mettiamo poco ad essere anche presidenti del consiglio, ministri, amministratori. Si sono lette e sentite, si leggono e sentono tante di quelle corbellerie che, se non stessimo in piena tragedia, ci potremmo fare risate a crepapelle. Un giro sui social è istruttivo.

Non so se gli attuali governanti siano tiranni o sciagurati, molti li ritengono tali. Potrei non difenderli perché, per le mie idee, avrei preferito altro, ma loro sono lì e dall’inizio dell’anno stanno gestendo una situazione senza precedenti a cui richiamarsi, dove se scegli bianco forse avresti fatto meglio a preferire il nero, dove non sai mai se quella decisione è davvero la migliore possibile nella situazione data. E poi, per dircela tutta, bisogna sempre fare i conti con una macchina burocratica che rallenta qualsiasi operazione e procedura e della cui esistenza eterna porta la responsabilità il Paese da sempre perché, se da un lato questo intralcio permanente ci fa arrabbiare, dall’altro lascia aperti i varchi per privilegi, affari, corruzione e quant’altro.  Non credo che non ci siano stati sbagli, ma onestamente non saprei chi al loro posto avrebbe potuto dare prova di infallibilità. Devono, dobbiamo vedercela con chi parla di leggi liberticide senza arrossire o perfino con chi ritiene che ci sia una sorta di complotto demoplutocratico e scende pure in piazza per rivendicare la propria sanità mentale. Poi nel Palazzo prendono anche qualche cantonata come quella, rimessa sui piedi giusti della sola raccomandazione, del numero delle persone consentite in casa propria. E per Palazzo intendo quello di Roma ma anche quello napoletano dove impazza lo Sceriffo con il lanciafiamme e con decisioni draconiane come la chiusura delle scuole che, mentre riduce a zero un diritto fondamentale, mette in libertà decine di migliaia di giovani che ora hanno più tempo per girare liberamente per le città con le conseguenze che possiamo immaginare. Ma fatta la tara, con non poca inquietudine, di questo e altro chiediamoci come sia difficile coniugare la difesa della salute con  quella dei posti di lavoro e dell’economia. In una tempesta inarrestabile come quella nella quale ci troviamo devi inventarti soluzioni che tengano insieme anche necessità contrastanti.

Ma, dopo aver fatto ad ogni piè sospinto l’esame severissimo a chi governa e gestisce, qualche domanda sui nostri comportamenti ce la facciamo? In assenza di vaccini e medicine risolutive ci è stata consigliata, e ora hanno dovuto imporcela per legge, l’adozione da parte di ognuno di noi di quelle misure minime di attenzione per ridurre (solo ridurre, perché al momento non possiamo sperare di meglio) il rischio: evitare gli assembramenti, tenere le distanze tra le persone (non tra le classi), usare la mascherina, lavarsi continuamente le mani, sanificare i luoghi dove viviamo e tutto quello che il buon senso e l’esperienza consigliano. L’abbiamo fatto? O meglio ci siamo adeguati tutti a queste regole? Forse queste secondo molti procuravano fastidio o avrebbero limitato la libertà?

Io partirei da qui prima di parlare d’altro. Puliamo ognuno il proprio uscio e tutto il resto sarà in gran parte più pulito o, per dirla con un famoso presidente americano, prima di chiederci che cosa fa il paese per noi chiediamoci che cosa facciamo noi per il paese. Ripeto, sarebbe troppo facile sparare sulla croce rossa ricordando lo stato delle strutture sanitarie, le difficoltà nell’adeguamento delle sedi scolastiche, i controlli e le indagini sui contagi e via elencando. Ma intanto facciamo la nostra parte. Io non vorrei stare nei panni di chi governa. Non dormirei la notte e non so se loro dormono tranquilli. Di una cosa nella mia ignoranza sono certo: non è più tempo di scherzare.

Non sarò… clemente

Quando si fa una premessa generalmente si sa anche inconsciamente che in quello che si sta per dire può esserci un pregiudizio, ma voglio correre questo rischio. Dunque, il sindaco Luigi de Magistris, ormai in vista del traguardo dei dieci anni di governo di Napoli, ha messo sulle spalle del vicesindaco Alessandra Clemente la responsabilità di chiedere ai cittadini di darle la fiducia per amministrarli per chissà quanti anni ancora.

Primo: in quello che sto per scrivere non c’entra neanche lontanamente il fatto che Clemente sia una donna, spero che tante donne possano assumere dappertutto responsabilità che spesso noi maschi abbiamo dimostrato e dimostriamo di non meritare.

Secondo: il fatto che sia la figlia di Sandra Ruotolo – e qui la premessa vale paradossalmente al contrario -, pur avendo condizionato sempre il mio giudizio, deve essere messo da parte. Che la mamma sia stata uccisa dalla camorra va sempre ricordato ma non può essere un titolo per assumere incarichi di tale responsabilità.

Dunque, il giudizio sulla designazione demagistrisiana deve essere scevro da qualsiasi condizionamento che non sia quello dei meriti amministrativi dell’interessata. E questo giudizio, almeno il mio, non è positivo. Esso deriva esattamente dal fatto che in tutti questi anni lei non è stata solo la bandiera del sindaco ma anche il suo braccio destro. Non è facile trovare assessori che abbiano mai avuto tanti e così delicati ruoli. Incarichi di sostanza, non di facciata, non marginali. Di fatto la valutazione del lavoro di de Magistris è esattamente riproponibile, a parte aspetti caratteriali, sul suo principale collaboratore. E poiché questa valutazione nasce dall’esame dello stato della città essa è, purtroppo per noi napoletani, molto negativa. Lo stato comatoso dei servizi fondamentali, il disordine finanziario, le condizioni delle aziende collegate al Comune, gli aspetti pratici della vita dei cittadini sono dati oggettivi ormai riconosciuti a tutte le latitudini. Va detto che questo decennio amministrativo fa seguito al precedente e lo ha solo drammaticamente peggiorato. Tant’è che oggi a Napoli non serve solo un buon sindaco ma anche una svolta profonda nel modo di amministrare e di rapportarsi ai cittadini e alle altre istituzioni. Dunque, con Clemente non si vota un nuovo sindaco ma si conferma il suo lavoro in perfetta e prolungata sintonia con il sindaco che se ne va.

Infine, una nota comportamentale o, se preferita, politica. Questa indicazione ha il segno del sovrano che decide il suo successore. In tal modo il “sovrano”, non potendo per motivi di legge continuare direttamente la propria opera, indica una soluzione che ne assicuri la continuità. Non c’è nulla di strano, solo che di fronte alle rilevanti difficoltà della città, aggravatesi da questa primavera per l’insorgere di un evento drammatico come la pandemia, sarebbe stato più saggio aspettare e cercare di trovare con altri la soluzione più valida e unitaria possibile. C’è solo da sperare che questa più che una scelta non sia una mossa tattica per spendere il nome della Clemente in un gioco che potrebbe farla passare in secondo piano: una pedina, insomma. Forse non sarà così ma se lo fosse sarebbe davvero sgradevole.

Liliana Segre, il perdono e noi

«Non ho dimenticato e non ho perdonato». Così Liliana Segre nel suo ultimo discorso agli studenti dopo trent’anni di incontri da un capo all’altro del paese, da una scuola all’altra. Un cattolico potrebbe avere da ridire perché il perdono è un pilastro del Vangelo, ma come darle torto? Come si fa a perdonare l’Olocausto, l’abiezione umana programmata scientificamente per eliminare un popolo, per dargli la caccia in ogni angolo del mondo dove si pensava potesse nascondersi, per infierire sui diversi, sugli anziani, sui bambini, su… Liliana Segre? E soprattutto non bisogna mai dimenticare. La memoria è il miglior vaccino contro il male e, purtroppo, non sempre, perché c’è anche la memoria dei malvagi.
Pensate ai negazionisti che sono sempre in attività. E poi all’obiezione ricorrente, che sottende un sentimento di condivisione più che di perdono: ma perché si parla solo dell’Olocausto e non degli stermini dello stalinismo, di altri regimi e popoli? La risposta è semplice: sono tutti da condannare, senza distinguo tranne uno che ci riguarda direttamente. E per noi intendo noi europei, noi italiani.
Quanto accadeva in Unione Sovietica riguardava da lontano la responsabilità delle altre nazioni, avveniva nei confini di un immenso paese grande quanto un continente, mentre dello sterminio degli ebrei siamo stati corresponsabili. Ci riguarda da vicino perché abbiamo applaudito le leggi razziali, abbiamo assistito o saputo che si spopolavano i ghetti, si isolavano i bambini, si vedevano sparire persone e famiglie con le quali avevamo vicinanza da sempre, in qualche caso li denunciavamo anche per farli deportare.
Noi non dobbiamo dimenticare che siamo stati infettati da quel virus. L’Olocausto graverà per sempre sulla Germania, sulla sua gente, sulla sua storia, sulla sua coscienza, ma noi non possiamo metterci nella posizione degli spettatori del dopo perché a quella partita mortale o abbiamo assistito o ne abbiamo saputo o intuito le modalità e l’epilogo.
Il perdono lo si lasci alla coscienza dei credenti, Liliana Segre ci ricorda che c’è una coscienza tout court dell’uomo che quando si fa belva del suo simile va ricordato in ogni istante. Ritenere che un proprio simile perché appartenente ad un’altra razza possa essere cacciato dalla scuola, emarginato dalla società, offeso e deriso, calpestato, deportato, schiavizzato e gasato non lo rende degno del perdono. Il ricordo è la sua condanna a vita.

Addio primarie. O no?

Addio primarie, dunque? Stando al segretario del Pd napoletano, Marco Sarracino, sarà così per le non lontanissime elezioni comunali. Il candidato del Pd, di propria espressione o concordato con eventuali alleati, non sarà sottoposto alla scelta preliminare delle primarie ma ai vertici presumibilmente del partito o dei partiti interessati.

Bene, finirà almeno una tradizione che voleva modernizzarci o, per essere più precisi, americanizzarci e che alla lunga ha dimostrato di non appartenere alla nostra storia politica e al nostro sistema elettorale. Lo sostengo, sapendo che non tutti legittimamente la pensano allo stesso modo, forse perché ho una certa età e ho memoria della politica che fu. Ma se guardo a quello che è successo ripetutamente a Napoli negli anni trascorsi credo di non sbagliarmi: brogli, accuse, veleni, soldi, truppe cammellate, addirittura il sospetto di infiltrazioni poco raccomandabili. Nulla è mancato e alla fine è andato tutto a rotoli, e il Pd è rimasto praticamente alla finestra per almeno due consigliature nelle quali si è inserito con in indiscutibile fiuto anche se con risultati non brillanti Luigi de Magistris.

Ma a questi fatti inconfutabili aggiungo anche una certa idea della politica. Penso che sia dovere di un partito (se ne può parlare visto come sono andate e stanno andando le cose?) fare le scelte sia di linea sia dei gruppi dirigenti e dei rappresentanti nelle istituzioni. Per dirla tutta, non mi è mai piaciuto che a scegliere il segretario nazionale siano stati gli elettori tout court e non i suoi iscritti variamente rappresentati negli organismi. Ripeto, le mie concezioni saranno datate ma ci deve pur essere una via di mezzo tra la nomina a vita (ma era così soprattutto nel partito comunista e non negli altri partiti) del segretario generale e l’elezione dello stesso tramite un incontrollato e talvolta troppo controllato plebiscito popolare. A conti fatti sarà stata pure questa trasformazione a decretare la sottovalutazione diffusa della forma-partito.

Un partito e segnatamente i suoi organi si devono assumere la responsabilità delle scelte e sottoporle al giudizio degli elettori. Il Pd, in un eccesso di modernità di importazione, aveva scelto un’altra strada. Ora dà segni di ravvedimento. Meno male.

Sacrifici necessari

Bisognerebbe riflettere su un fatto molto semplice: ogni giorno leggiamo notizie di personalità note di vari mondi (politica, sport, spettacolo, cultura) che presuppongono relazioni, incontri, conversazioni, confronti e sfide, risultate contagiate dal Covid 19. Vero è anche che fortunatamente costoro, quasi tutti, non vedono aggravarsi le proprie condizioni e alla fine escono dall’incubo. C’è anche chi ironizza su questa presunta selezione sociale che farebbe il virus, ma sono battute che lasciano il tempo che trovano. Perché, dunque, occorre riflettere? Perché è la dimostrazione concreta che la mancanza di prudenza o in qualche caso anche il rifiuto delle norme di protezione determinano comportamenti che possono alimentare una pericolosa virulenza della seconda ondata della pandemia.

Certo, non si possono fermare tutte le attività, la nostra società ha già subito pesantissimi colpi nella prima ondata. I timori per la scuola, l’economia, l’occupazione, la sopravvivenza di fasce sempre più numerose di popolazione sono fondati e opportunamente stanno condizionando le scelte di governo. Non si chiude, ma la condizione è chiara: tutti, non solo lo Stato, devono fare la loro parte. I primi a doverlo siamo noi cittadini, ognuno preso singolarmente nelle sue relazioni familiari, amicali, sociali.

Quindi, mascherine sempre nonostante il fastidio che esse provocano. Sappiamo bene che a volte ci sembra di soffocare o sudiamo troppo, ma è un piccolo sacrificio che possiamo fare. Quando molti anni fa a Shangai vidi gli abitanti che circolavano con le mascherine fui perplesso e soprattutto preoccupato perché la causa di quell’inconsueto indumento, lo smog, non era estranea alle nostre città. Oggi lo facciamo per la salute ma in più anche e soprattutto per la vita.

La distanza, poi, è fondamentale. Non quella sociale, ovviamente, ma quella fisica tra le persone. Nei negozi, negli uffici, nei luoghi di lavoro, e soprattutto negli incontri pubblici e nei luoghi di ricreazione e ristoro. Bisogna abituarsi, ma, ribadiamo il concetto, anche questo non è sacrificio grave.

Ancora: l’igiene dovrebbe essere normale nella nostra esistenza, oggi può sembrare maniacale, ma si può fare ed è facile farlo perché ad ogni angolo e porta c’è un dispensatore e poi, una volta a casa, una bella lavata di mani dovrebbe essere di rigore sempre, figuriamoci ora. A seguire la febbre da controllare e le altre eventuali procedure sanitarie.

Questo e tutto quello che serve ci tocca fare. Il virus è democratico, non ci sono aree protette di per sé né bolle, come giustamente si denuncia per il mondo ricco e viziato del calcio che sta fornendo uno spettacolo poco commendabile. Contestualmente dobbiamo pretendere da chi governa ai vari livelli efficienza, tempestività scelte oculate e soprattutto serietà. Senza mai dimenticare che dobbiamo passare da una vita di sacrifici ai sacrifici per la vita.

Trasporti, gestione disastrosa

Le parole sono al capolinea, forse sono esaurite. Il disastro dei trasporti si ripropone ogni giorno. Sapete quella cosa per il tutto? Beh, potremmo dire che i trasporti napoletani sono una sineddoche al contrario perché non sono una parte per il tutto ma finiscono con l’essere di fatto il tutto dal momento che interferiscono con la nostra esistenza nell’arco delle ventiquattro ore, delle settimane, dei mesi, degli anni. Uscire di casa per un qualsiasi motivo richiede ormai un progetto. A piedi, in auto, in moto, con il bus, con un taxi, con la metropolitana? E per quanto tu possa programmare sai che anche la più pessimistica delle tue previsioni può essere una vana aspirazione e divenire un incubo, un girone infernale, un inciampo grave che incide sul tuo lavoro, sulle tue attività, sul rapporto con gli altri, sul tuo equilibrio mentale. Parole al capolinea, altre se ne possono aggiungere? Sì, come ricordava l’altro giorno Maurizio de Giovanni nel suo «Caffè ristretto», occorre parlarne nonostante la monotonia, la ripetitività e, ahimè, la sensazione della loro inutilità. Qualche decina di anni fa mi occupavo di questi problemi per un altro giornale – il Corriere del Mezzogiorno non c’era ancora – e quotidianamente riempivo almeno una pagina con le cronache su trasporti, traffico, vigili e quant’altro. Dopo qualche tempo incominciai a provare il disagio della ripetitività ma un giorno un amico mi convinse che bisognava continuare.

Era il sindaco di un comune vesuviano e ogni mattina accompagnava in auto la moglie alla scuola del centro di Napoli dove lei lavorava: «Quando imbocco via Marittima e regolarmente resto bloccato vorrei mandare al rogo i responsabili, mi consolo con il fatto che aprirò il mio giornale e troverò la cronaca che racconta anche la mia odissea quotidiana». Benedetti giornali! Dunque, parliamone. Ancora una volta e non sarà l’ultima. Questa storia degli ammalati che mandano in tilt la metropolitana come altri loro emuli hanno ripetutamente fatto con le funicolari e altri sistemi di trasporto non è nuova. Non è inedita neanche la polemica che ne deriva: chi accusa e parla di sabotaggio e chi difende il diritto a restare a casa se malati, specie in tempi come questi. E si ripropone quasi come un cambio di stagione il sospetto che alla base ci siano rivendicazioni individuali non soddisfatte e la conseguente protesta non in forma di sciopero, che comporterebbe la perdita della remunerazione, ma di assenza per motivi di salute. Questa volta il sindaco ha detto il suo «basta» con toni e parole pesantissime specie se si ricorda che provengono da un ex magistrato; i sindacati all’unisono hanno replicato tuonando contro la gestione delle aziende, il mancato adeguamento degli organici e l’assoluta assenza di programmazione.

Polemica già sentita negli anni, solo che stavolta sembra di essere davvero alla canna del gas. La metropolitana delle meraviglie è come Napoli: miseria e nobiltà, splendore e volgarità. Saranno pure questo conflitto perenne, la dialettica e il contrasto i motivi del suo fascino, ma viverci è faticoso. Poi in questo periodo che ne parliamo a fare! Crolla tutto, gli alberi, i soffitti delle museali stazioni della metropolitana, delle Gallerie, le strade sono dissestate, il verde è un ricordo. Dopo la inevitabile riapertura del lungomare alle auto, si discute in queste ore di abolire temporaneamente le isole pedonali del centro e addirittura di riaprire piazza Plebiscito, luogo simbolo del Rinascimento bassoliniano che fu. E per restare al tema dei contrasti poi leggi notizie bellissime, nonostante i danni e le enormi difficoltà derivati dalla pandemia, come le iniziative teatrali, musicali, culturali, in definitiva la voglia cocciuta di ricominciare nonostante tutto. Ma è il sistema dei trasporti a prendersi la scena perché, è banale ripeterlo, esso mette in relazione le persone, consente le attività, favorisce o rallenta o blocca la vita della collettività.

La croce addosso agli ammalati sospetti? Solo per questo il sistema è un disastro? I treni sono pochi e si fanno i conti ogni giorno con i numeri delle dita di una sola mano perché è in atto un sabotaggio? Il personale è sotto organico per responsabilità dello Spirito Santo? Qualcuno contrasta la sosta in doppia fila e generalmente selvaggia che fa parte del panorama urbano come il Vesuvio? E poi hai visto mai che si faccia rispettare il codice della strada a un mezzo su due ruote, specie ora che si spacciano per biciclette elettriche moto a tutti gli effetti? E via a interrogarsi. Retoricamente, è chiaro.

Purtroppo, tutto questo è il risultato di una gestione approssimativa, alla giornata, in attesa di Godot. Che sarebbe l’entrata in circolazione dei nuovi treni della metropolitana. Speriamo presto e soprattutto auguriamoci che non si riservi loro la stessa sorte di quelli acquistati alcune decine di anni fa. Questa, ricordiamolo, è pur sempre la città dove i nuovi bus venivano cannibalizzati per riparare i vecchi. Quando ci sarà un po’ di normalissima ordinaria amministrazione, di gestione responsabile, di azioni virtuose e di fatti concreti? Se ciò avvenisse gli effetti positivi si vedrebbero anche dai comportamenti più virtuosi dei cittadini, che non sono senza colpe, ma i cattivi maestri se li scelgono loro.

Il terremoto che ci cambiò tutto

Si avvicina una data importante, di quelle che segnano la vita di una comunità e delle persone, un prima e un dopo come uno spartiacque tra una storia e un’altra. Il 23 novembre 1980 per noi gente della Campania e della Basilicata è storia ma è anche presente nella vita delle nostre famiglie. Anche la mia colpita tragicamente come ho raccontato in un capitolo del libro dedicato a mio padre, “Il compagno Saul”. Crollò quasi tutto in quel palazzo di via Catello Fusco a Castellammare mentre lui, mia madre e mia sorella cercavano riparo da qualche parte: dal momento che in quegli attimi infernali fu lui ad avere la lucidità di capire che cosa fosse meglio fare, lo trovarono sotto l’arco della porta perché quello sarebbe stato l’ultimo muro a finire in frantumi. L’arco resse ma lui no e dopo poche settimane se ne andò per sempre.
La mia vicenda e quelle di moltitudini di altre persone e famiglie sono patrimonio incancellabile della nostra memoria. E ha fatto bene il “Mattino” a iniziare per tempo a rispettarla con il viaggio a ritroso nel tempo e nei luoghi e, immagino con l’occhio rivolto ai cambiamenti intervenuti e all’eredità che quell’evento ci ha lasciati. Con un’attenzione anche a ciò che abbiamo fatto per rimarginare le ferite e creare le condizioni per affrontare con la prevenzione necessaria il loro replicarsi, ciò che ovviamente nessuno si augura ma che è nelle cose, nella vitalità del pianeta sul quale poggiamo i piedi.
Il giornale che allora stava in via Chiatamone scrisse una pagina storica di giornalismo, merito indiscutibile del direttore Roberto Ciuni che riuscì a mobilitare l’intera redazione come mai si era visto in quel palazzo. Noi da “Paese Sera”, giornale nazionale con un’edizione campana, facemmo la nostra parte. E per tutti i giornalisti, di qualsiasi testata, fu un cambio di passo che dimostrò il valore insostituibile dell’informazione. In seguito riuscimmo anche a svolgere un ruolo di primo piano. Una mattina di pochi mesi dopo Ciuni imbufalito aprì la riunione di redazione sventolando il nostro e il suo giornale e gridando: ma noi dove stiamo, prendiamo queste legnate da un giornale che ha meno della metà dei redattori di un nostro settore. Lo ricordo non per rivendicare meriti particolari ma perché si era già dentro le vicende complicate del dopo-terremoto.
I gruppi terroristici erano attivamente impegnati nello sfruttare il disagio e con il sequestro Cirillo alzarono il tiro. Vicenda dai mille risvolti, tanti rimasti oscuri almeno dal punto di vista giudiziario, ma fu chiaro il tentativo di sfruttare la grande partita della ricostruzione a fini eversivi: la casa e il lavoro, ma nella prima fase più la prima, alimentarono una strategia della tensione molto insidiosa. Noi di “Paese Sera” decidemmo di rischiare e lanciammo segnali non già, naturalmente ai terroristi, ma a quell’area politica e sociale nella quale si muovevano con relativa tranquillità. La deportazione degli sloggiati verso le periferie, mentre ancora si puntellavano i palazzi del centro storico, era uno degli argomenti più caldi. Da quel mondo semisotteraneo arrivarono interventi che coraggiosamente e non senza preoccupazioni pubblicammo e finimmo al centro dell’attenzione, anche degli inquirenti che cercavano invano il covo dove era tenuto prigioniero l’assessore regionale democristiano. Alla fine il nostro lavoro fu utile e per questo il direttore del “Mattino” si arrabbiò perché non voleva stare un passo indietro.
Furono anni difficili, questa è la verità, dove scesero in campo le forze più disparate. Dei terroristi abbiamo detto, ma ormai era evidente che la camorra aveva scommesso sulla ricostruzione, sul grande affare che si apriva per i loro patrimoni. Allo stesso tempo si mossero istituzioni e partiti predisponendo piani e programmi. Bisognava ricostruire strade e quartieri delle grandi città, mentre i piccoli paese dell’interno, rasi al suo in quella manciata di secondi in cui tremò tutto, andavano reinventati. Com’è andata si sa. Tante buone cose ci sono state, migliaia di persone, per quanto sradicate dalle loro dimore, hanno avuto una casa, ma tanto spazio e potere hanno avuto la cattiva politica e, soprattutto, la camorra che in molte realtà non è più rimasta fuori dalle stanze in cui si prendevano le decisioni ma è entrata e spesso si è seduta in poltrona.
Quaranta anni dopo si possono fare dei bilanci accurati ed è bene accingersi per tempo a questo scopo. Anche perché tra prima e dopo quella data c’è stata una frattura non solo della terra ma anche della nostra storia, e molte cose, la politica per prima, non sono state più le stesse. Tanto da chiedersi, visto che sembrerebbe che il dopo-terremoto non sia mai finito, se abbiamo la serenità e la distanza giusta per ricostruire la storia. Specie in tempi in cui, per questo o per quel motivo, ognuno tende a piegarla ai propri gusti e interessi. Ne riparleremo.

Nel nome di Libero d’Orsi

Le metà di uno scaffale della nostra libreria è occupata dai suoi libri. Di poesia, di storia, di cultura (da Ludovico Ariosto a l’Abate Lamennais), di novelle, di racconti e soprattutto di Stabia. Ci sono cari perché l’autore è lo zio di Anna e lei, appena fidanzati, con comprensibile orgoglio volle farmelo conoscere. Di fama Libero d’Orsi mi era noto, perché lui era il preside che aveva portato alla luce le magnifiche ville dell’antica Stabia. Questa fu la passione o meglio la missione della sua vita. 

C’è un dialogo illuminante nel suo libro “Il mio povero io”. Sta scavando nel podere del notaio Gaspare De Martino che lo osserva con preoccupazione e lo interrompe continuamente sperando che non venga manomessa la sua proprietà. Il preside lo “prega e riprega” di lasciarlo fare e alle strette gli dice: «Caro dottore, come potreste dormire i vostri sonni tranquilli ora che sapete che sotto i cavoli e le fave piangono e sognano creature bellissime che, se anche solo dipinte, non sono meno vive di voi e di me?… Ma non saltate di gioia al pensiero che quasi certamente questa è proprio la villa di Pomponio, l’amico di Plinio? Avreste il coraggio di lasciare sottoterra la stanza dove Plinio… il grande ammiraglio… il grande scienziato… dormì l’ultimo sonno?». Come poteva resistergli il notaio! Una delle personalità culturali più importanti della città, un educatore di generazioni di studenti, un uomo stimato a ogni latitudine stava lì in compagnia di due operai, compreso il bidello, armati di piccone e pala, a convincerlo con l’entusiasmo di un ragazzo che poteva essere protagonista insieme a lui di una delle scoperte archeologiche più importanti. Scavò, scavò, scavò e nessuno poté fermarlo.

Il suo sogno di riportare alla luce una parte significativa del luogo di villeggiatura dei potenti romani di quel tempo è stato realizzato, mentre l’altro – dare una casa ai reperti straordinari venuti alla luce – è diventato realtà quarantatré anni dopo la sua morte: da giovedì il Museo Stabiano ha trovato la sua sede dignitosa nella Reggia di Quisisana, e anche questa dimora magnifica, dopo anni di abbandono e un restauro di qualche anno fa, ha finalmente una prestigiosa e adeguata funzione. E Libero d’Orsi, a cui è intitolato il museo, ha il riconoscimento che la città gli doveva.

Merito indiscutibile di Massimo Osanna, direttore generale dei Musei, che ha creduto nell’operazione e l’ha portata a compimento in collaborazione con il Comune. Alla vigilia di questo evento che doveva unire la città e le sue rappresentanze non è mancata qualche discussione sulla primogenitura. Che poteva essere evitata dopo tanti decenni di scandalosa sottovalutazione di un bene così prezioso per Castellammare e non solo, ma soprattutto perché ci sono cose su cui non ci si divide. Sicuramente non sarebbe piaciuta al preside.

Lui racconta il rapporto con gli amministratori di allora quando cercava sostegno materiale per poter realizzare la grande impresa. Si reca dal sindaco, “il dottor Pasquale Cecchi che mi vuole bene da sempre” e imbastisce questo “discorsetto”: «Caro sindaco, stammi a sentire; ti voglio tutto orecchi. Ho bisogno di voi: dovete darmi uomini e materiali. Pensa che la scoperta di Stabia avrà una risonanza in tutto il mondo». E poi “scherzando sul serio” aggiunge: «Aiutandomi a scoprire o a ritrovare la nostra sepolta città, voi ideologicamente siete a posto con la vostra coscienza… sinistra. Non combatterono gli Stabiani il dittatore Silla? Ebbene voi continuate la storia! Non potete tradire una simile eredità!». Ottiene quello che vuole.

Cambia l’amministrazione e la nuova è “anch’essa benemerita”, il sindaco è un democristiano, il “dinamico” Giovanni degli Uberti, che non vuole essere da meno del predecessore e lo aiuta in tutti i modi. Sostegno che non mancherà quando il sindaco sarà suo nipote Franco d’Orsi. In questo clima viene portata alla luce l’antica Stabia e nasce il museo in una sede che diventa rapidamente inadeguata. Fino a oggi.

Sarà un caso ma ciò è avvenuto due giorni prima della manifestazione per la presentazione della candidatura di Castellammare a capitale della cultura 2022. Sono in tanti ad aver manifestato comprensibili perplessità su questa iniziativa ricordando lo stato in cui versa la città sotto il profilo economico, sociale e della sicurezza. Non sono rilievi di poco conto, piuttosto è da vedere se questa scommessa servirà a dare una spinta in avanti o si rivelerà solo un sogno ambizioso e forse anche strumentale. Per l’affetto per la mia città io le auguro di farcela perché questo significherebbe aver imboccato la via virtuosa del cambiamento. E mi piacerebbe che il nuovo Museo stabiano Libero d’Orsi sia un punto di ripartenza. Per affetto… dicevo. 

Michele e Giancarlo, l’eroe e il martire

Michele Albanese vive sotto scorta. In un pomeriggio di sei anni fa gli telefonarono dalla Polizia e gli intimarono di recarsi immediatamente in Commissariato. Da una cimice posta in un’auto avevano appena intercettato la telefonata di due bastardi che parlavano dell’ordine di ammazzarlo ricevuto dal loro capo ‘ndrina, un latitante che devastava quel comune e le aree circostanti della Piana di Gioia Tauro. Immediata la decisione di assegnarli la scorta e da quel momento la sua vita non è stata più la stessa.
Albanese è un giornalista che viene da lontano, dalla militanza giovanile negli ambienti cattolici, una breve frequentazione di Comunione e Liberazione, e poi la professione della sua vita. Meticoloso, preciso, documentato, difficile prenderlo in castagna e casomai zittirlo con una querela. Ovviamente facendo il corrispondente – tale è rimasto, neanche un articolo uno nonostante lo stato in cui si trova – di una zona controllata dalla ‘ndrangheta non poteva non occuparsi di questa, ma è anche il professionista più esperto in materia di porti, logistica e quant’altro, come sanno gli inviati che da anni calavano nel suo territorio e si avvalevano dei consigli che generosamente dispensava per di più portandoli in giro per la sua terra, una competenza così riconosciuta che perfino i dirigenti dell’autorità portuale di Gioia Tauro lo consultavano per avere consigli. Ma tutto ciò è passato, fa parte della vita precedente, anche se lui continua a lavorare e a produrre corrispondenze quotidiane, ma lo fa in condizioni di estrema difficoltà e fatica. Comunque lo fa perché non molla, nonostante il tribunale della malagente non abbia chiuso bottega e la sentenza di condanna a morte non sia andata in prescrizione nonostante il latitante sia stato arrestato.
Michele, che non ha nulla da spartire con giornalisti che passeggiano in via Condotti  con giubbotto antiproiettile in vista e seguito di telecamere e fotografi, esce poco di casa perché non solo si preoccupa  della propria sicurezza ma anche del disagio che può provocare ai passanti. Michele ormai non sa più cosa sia andare in un bar con moglie e figlie e gustare un tartufo di Pizzo perché teme per loro in caso di un agguato. Michele declina, gliel’ho visto fare l’altra sera, un invito a cena che lo farebbe felice per non approfittare della scorta dei due “ragazzi” che da anni lo proteggono e che “hanno anche loro famiglia”. Michele non va a un funerale perché si potrebbe creare una situazione complicata e allora si reca il giorno dopo al cimitero e dà privatamente le condoglianze a parenti o amici. Michele ha paura che lo ammazzino ma lo nasconde perché non vuole trasmetterla ai familiari che da sempre e da sei anni più che mai temono per la sua vita: la figlia Maria Pia ha incominciato a capirlo da bambina quando a scuola qualche sua coetanea diceva ad alta voce che il suo papà era un amico degli sbirri. Michele è un uomo forte ma quando l’ho sentito parlare al microfono non riusciva a fermare il tremore delle mani e un medico che era con me mi ha detto che da tempo lo aveva notato. Michele, dunque, continua la sua missione professionale in uno dei luoghi più pericolosi del paese, in territori dove capita che lo Stato sia il nemico e l’antistato il dominus. Ma lui sapeva e sa che questo era il rischio e lo ha affrontato e lo affronta con la consapevolezza che o faceva così il giornalista o era meglio cambiare mestiere. Ciò che non si aspettava era l’insinuazione fatta circolare in ambienti per così dire garantisti che addirittura le minacce se le sarebbe mandate da solo pur di diventare un paladino antindrangheta.
Indubbiamente il garantismo è un modo saggio di valutare gli atti di giustizia specie quando i magistrati commettono errori che ledono diritti e dignità delle persone e soprattutto quando sembra prevalere la loro voglia di protagonismo, ma in una regione come la Calabria è facile, in nome di questa pur necessaria azione critica, finire nel negazionismo secondo cui da “tutto è ‘ndrangheta” si passa a “la ‘ndrangheta non esiste”. Non è vera nessuna di queste due affermazioni, ma è acclarato che la ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale più potente del mondo, non sia un’invenzione dei giornalisti: essa è il cancro più devastante di quella terra nella quale alligna da tempo e che sarà debellato solo grazie a un impegno combinato dello Stato e dei calabresi, a una strategia culturale, sociale, economica, politica e repressiva. Nel frattempo è fondamentale tutelare quelli che la combattono a viso aperto.
Non voglio confutare la celebre frase di Brecht a proposito dei popoli che sono beati perché non hanno bisogno di eroi, ma gli eroi servono. E servono da vivi e non da morti come Giancarlo Siani. La verità giudiziaria sulla sua morte è nelle carte ma c’è anche una verità che possiamo cercare nella nostra esperienza. Sappiamo da chi è stato ucciso e perché, ma Siani poteva essere salvato? Più volte sono affiorati dubbi, sospetti e anche veleni sull’ambiente che lui frequentava, ognuno può pensarla come vuole ma alla fine si resta con un pugno di veleno in mano. Piuttosto ci si deve chiedere perché Siani non fu protetto. Possibile che nessuno nella fila di comando di un grande giornale non si sia accorto che lui stava maneggiando ogni giorno una dinamite destinata a esplodere da un momento all’altro? Non serviva neanche una cimice per rendersene conto. Le sue corrispondenze rischiose ed esemplari per chiarezza e coraggio furono di fatto rubricate come ordinaria amministrazione e Siani si trovò solo, disperatamente solo, maledettamente solo. Si è molto discusso delle preoccupazioni che si avvertivano dai suoi comportamenti, ma come poteva non essere allarmato lui che sapeva di chi e cosa stava scrivendo e di non avere alcuna tutela come l’avevano il pretore o il carabiniere che gli passavano le notizie? Costruì da solo, perché per la sua limpida coscienza umana e culturale non avrebbe saputo fare diversamente, il proprio martirio.
Ecco, direi a proposito di Brecht, abbiamo bisogno di eroi come Michele Albanese e non di martiri come Giancarlo Siani. E perché questo sia possibile non lo si deve a loro, agli eroi che non mancheranno mai, ma a noi che non dobbiamo farli diventare martiri.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 25 settembre 2020