Napoli deve ancora vincere il suo scudetto

In vita mia ho visto tante partite ma quasi sempre in televisione, allo stadio sono andato poche volte e tra queste ce ne sono due stampate nella memoria che mi suscitano sempre un sorriso dolce e tenero. Da bambino tifavo per la Juve ma più che per la squadra impazzivo per Sivori e Charles, il giocoliere e il gigante, la fantasia e la potenza, l’argentino e l’inglese. E quando la Juve venne a battersi con il Napoli di Achille Lauro costrinsi mio padre a fare un’eccezione alle sue domeniche tutte diffusione del giornale-pranzo-pisolino-cinema. Una volta nello stadio del Vomero mi sembrò di sognare. Avevo occhi solo per Omar, i suoi calzini abbassati e i gol, la vittoria schiacciante sul Napoli con il “Comandante” che non avrebbe voluto mai arrendersi alla sconfitta. Ma capii anche, quando durante un’interruzione del gioco attraversò la linea di bordo campo, si fece dare una banana, la sbucciò e la divorò, che lui era in totale sintonia con il pubblico in visibilio. Che fu poi accontentato, come sappiamo, quando Sivori indossò la maglia del Napoli. E anche io cambiai casacca. Perché, lo confesso, nel tempo mi sono reso conto di non tifare per una squadra ma per il campione, e forse non è neanche tifo vero e proprio.

Per la seconda volta cambiai stadio. San Paolo in una partita di festa assoluta. Dopo l’arrivo di Maradona con il primo saluto immortalato dalla sua entrata dalla scala sotterranea ci fu una partita amichevole di presentazione del campione. Andai anche io con mia moglie e le mie due figlie piccoline. Non seguivo molto il gioco e, perdonatemi, Maradona perché ero più interessato a loro ma mi ci volle poco per capire che in quel momento eravamo nel luogo più felice e sicuro del mondo. Mia figlia la più grande, nove anni, stravedeva, forse per eredità, per i campioni della Juve, Platini su tutti, e non so come i nostri vicini di gradinata vennero a saperlo. L’adottarono. La riempirono di attenzioni, in un clima festoso, di gioia vera. E tutti cercavano di convincerla a cambiare fede. Chi invece era impegnato in un altro tipo di educazione era seduto due grandinate più giù. Teneva con sé un bimbo piccolo, non avrà avuto più di tre o quattro anni. Quando Maradona fece uno dei suoi numeri scattò in piedi sollevando il figlio fin dove potevano arrivare le braccia, poi coccolandolo gli disse: «Guarda bene e studia, tu te lo devi imparare». Se avessi avuto dubbi quel siparietto mi fece capire che era amore a prima vista e che il futuro del Napoli sarebbe cambiato per sempre.

Dunque, ho tifato per Maradona più che per il Napoli. Come tutti ero, sono e sarò sempre strabiliato dalla sua arte. Lui in un campo di calcio, fosse anche un inzaccherato terreno di periferia, era oltre. Amavo Sivori ma i paragoni sono impossibili, perché chissà quando nascerà un nuovo Maradona. Ora, non voglio inserirmi nella discussione sul campione e sull’uomo, sui pregi e sui limiti, sono le cronache, i fatti, anche la tragica conclusione a raccontare questo contrasto insanabile della sua vita irripetibile. Mi piace solo sostenere che forse hanno ragione Ottavio Bianchi e altri quando dicono che nessuno ha detto i no che sarebbero potuti servire al campione dalle mille tentazioni e lo avrebbero aiutato a non precipitare nelle trappole sparse sul suo cammino. Ma questa ormai, per quanto se ne possa parlare ancora a lungo, è una storia chiusa, sepolta con la bara di Maradona. Non mancheranno gli strascichi, anche giudiziari e non solo se pensiamo ai tanti eredi, ma le magie del “dio del calcio” saranno ricordate per sempre e continueremo a vederle senza mai stancarci.

Starei, però, attento a non esagerare. Ci manca solo che qualcuno chieda di cambiare il nome della città e siamo al completo. Lo dico ora con voce bassa come feci quando il Napoli vinse il suo primo scudetto. Il lunedì sera, invitato da Aldo Biscardi in qualità di responsabile dell’edizione napoletana di “Paese Sera”, fui sul palco installato a piazza Plebiscito per “Il processo del lunedì”. Ovviamente si esagerava anche allora tant’è che lo scudetto della squadra veniva rappresentato come la conferma che Napoli stava vincendo o che avrebbe vinto tutti gli altri scudetti a cui aveva diritto. Il calcio, dunque, visto come un simbolo di riscatto non solo sportivo. Certo, c’era del vero anche in questo sentimento che, però, si fondava su desideri e non su azioni, progetti, impegni. Del resto, si è visto che la città gli altri scudetti che le servivano non li ha vinti perché ci voleva ben altro che il pur bellissimo e significativo traguardo calcistico. L’assioma era semplice: se una squadra di giocatori raccolta attorno al campione più bravo del mondo riesce a ottenere risultati tanto a lungo auspicati perché non si può avere un’altra squadra che faccia vincere la città nel suo funzionamento ordinario? Il tema è ritornato anche di questi tempi quando, dopo gestioni del Napoli fallimentari sul piano finanziario prima ancora che sportivo, si è aperta una fase nuova che, al di là dei risultati ancora desiderati più che raggiunti, è connotata da una gestione equilibrata.

Tornando a quella trasmissione, mi permisi, con molta prudenza, di non associare automaticamente lo scudetto alle condizioni e necessità della città. Non avevo torto, come purtroppo i fatti hanno dimostrato, ma, con il senno di poi, un discorso del genere era inopportuno. Non piacque neanche alla direzione del mio giornale secondo cui non saremmo stati in sintonia con i lettori. E oggi, di fronte al dolore vasto e profondo dei napoletani, non so se ripeterei quello che dissi allora. Ma lo pensavo e lo penso. E sono addolorato, ma non per la morte in sé perché questa è nel nostro destino e neanche per l’età troppo precoce per andarsene, quanto per le modalità, la sua drammaticità e le tappe progressive attraverso le quali si è determinata. Tutto ciò, per quanto ingiusto e insopportabile, ci restituisce un “dio” nella sua umanità, nella fragilità che è il dato costitutivo della nostra esistenza, nella solitudine di chi paga sulla propria pelle errori e colpe.

La gratitudine della sua gente è più che comprensibile, ma che non diventi un modo per dire che solo Maradona ha dato a Napoli per non chiedersi che cosa ognuno abbia dato e dia alla sua città. Napoli deve ancora vincere i suoi scudetti, a parte quelli un po’ solitari della squadra di calcio. Servono i geni, ma anche chi non lo è. La gratitudine potrebbe diventare una delega postdatata. Meglio non esagerare. Io preferisco ricordarlo con il bel titolo sullo storico gol contro l’Inghilterra, lo fece Daniele Azzolini, capo della redazione sportiva di Paese Sera: Superman. Super certo, ma anche un uomo.

* Articolo pubblicato il 5 dicembre 2020 sul “Corriere del Mezzogiorno”

Quegli esempi di sanità che funzionano

Di ritorno da un incubo durato 24 giorni si può ricavare qualche indicazione che vada al di là dell’esperienza personale? Nel suo editoriale dei giorni scorsi Procolo Mirabella ha pacatamente ricordato lo stravolgimento del nostro sistema sanitario in anni di tagli, di finanziamenti squilibrati, di sottovalutazione concreta delle strutture pubbliche e di guasti che sono stati messi drammaticamente a nudo dalla pandemia. Occorre ripensare tutto, rivedere modi, procedure e risorse e finirla con l’associazione tagli lineari-maggiore efficienza-meno sprechi e corruzione. Anche perché qualcuno – tutti quelli che hanno lavorato per smantellare di fatto il primato della sanità pubblica riuscendoci, fortunatamente, solo in parte – dovrebbe rispondere alla domanda: è paragonabile il danno finanziario di oggi ai risparmi degli anni scorsi? Da dove ripartire? Dal buon senso, dall’esperienza del passato, dalle cose che funzionavano, soprattutto dal primo protagonista del sistema, dalla base della piramide senza la quale la costruzione crolla: il medico.

In una famiglia formata da padre, madre e due bambini di cinque e tre anni, appena appresa la notizia che il collega del primo era risultato positivo è scattato l’allarme. Primi colpi di tosse e altri fastidi che ormai scrutiamo con gli occhi spalancati e le orecchie stappate. Immediata la paura con corredo di cattivi pensieri. Domenica mattina. Prima telefonata al medico di famiglia, una dottoressa di grande esperienza e disponibilità (anche all’una di notte risponde, sempre). Lei intuisce subito il pericolo e prescrive la terapia anti-covid. Intanto, l’interessato (non ha febbre) si reca con tutte le precauzioni al Cotugno e si mette in fila davanti alla “casina rossa” per fare il tampone. Nel frattempo chi scrive era in giro per farmacie. Lui, tornato a casa, pur senza sapere di essere positivo o negativo, inizia la terapia. Due giorni dopo saprà di essere positivo, ma intanto è già sotto farmaci. Un vantaggio che anche un ignorante in medicina capisce quanto sia stato importante.

Secondo tempo. Uno dei tre farmaci, l’antibiotico, non è sufficiente e dopo quattro giorni si manifesta la febbre con punte molto alte. Nuovo allarme, angosciante. Un familiare ricerca il numero dell’Usca e telefona. Dopo un’attesa non lunghissima una voce: «Sono… mi dica». I nomi (questo come quello del medico di famiglia) dovrebbero essere fatti, ma è meglio di no perché qui parliamo di un sistema e non delle persone, sapendo che dobbiamo riconoscenza infinita a tutti i medici, infermieri e al personale sanitario che sulla trincea più esposta stanno combattendo per la nostra salute e la nostra vita.

Dunque, la dottoressa dell’Usca si fa spiegare la situazione e immediatamente ordina di cambiare l’antibiotico e si accomiata dicendo: «Mi chiami domani e mi faccia sapere». Il giorno dopo risponde al telefono e prescrive alcuni esami chiedendo di avere i risultati via Whatsapp. L’interlocuzione triangolare tra familiare, medico di famiglia e medico dell’Usca continua. La febbre scompare, il saturimetro fornisce dati confortanti, i giorni di quarantena terminano e, un sabato mattina, senza alcuna richiesta, arriva il pullmino con gli addetti al tampone. Dopo qualche giorno la buona notizia e l’incubo finisce.

È scontato che si possono raccontare esperienze di segno diverso, di assistenza inadeguata, di attese insopportabili, di mancate risposte, di disorganizzazione, di solitudine sanitaria prima ancora che umana, e, quindi, una testimonianza non fa testo e neanche statistica per quanto sarebbe bello credere che lo sia, ma ciò che conta è il suo significato. Non si può pensare di non partire da qui, dalla medicina di base, primo tassello di un sistema che preveda al meglio e al massimo, in una sequenza di contagiose positività, le Asl, gli ospedali, il personale, la ricerca. Lo dobbiamo all’esperienza tragica nella quale siamo precipitati, alla salute e alla vita che restano i beni più preziosi. Basterà ricordarsi di una domanda: quanto ci stanno costando, socialmente ed economicamente, il virus e l’impreparazione, che è fatta di messaggi sbagliati e di nostri comportamenti individuali troppo disinvolti ma anche di politiche che hanno devastato la nostra sanità pubblica. Non si ripartirà da zero, ma ci sarà molto da lavorare e non si potrà non farlo.

*Articolo pubblicato il 1° dicembre 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

Lo sguardo lungo di Chiaromonte

Franca e Silvia Chiaromonte hanno raccontato a “Infinitimondi”, la rivista curata dal vulcanico Gianfranco Nappi, la storia di una famiglia comunista. Per l’ormai imminente centenario della nascita del Pci è stata concepita  un’iniziativa particolarmente significativa e importante: raccogliere testimonianze, scritti, documenti  e realizzare iniziative editoriali per tutto l’arco del 2021 che consentano di celebrare in maniera non formale un anniversario così rilevante e di ritrovare il senso di una storia collettiva che è stata così intrecciata con quella del nostro paese.

Franca e Silvia sono le figlie di Gerardo Chiaromonte, dirigente di prima grandezza del Partito comunista, e di Bice Foà, “donna, ebrea e comunista”. Il racconto che “Repubblica Napoli” ha pubblicato è molto bello e consente di entrare dalla porta di casa nella vita di una magnifica famiglia che ogni giorno deve conciliare l’attività politica con le esigenze vitali dei suoi componenti, non ultime ovviamente quelle delle due bambine. Per chi lo ha conosciuto leggere questo Gerardo Chiaromonte intimo non è una scoperta ma solo un riandare a un tempo in cui etica e politica, ideali e coerenza, cultura e impegno viaggiavano all’unisono. Chiaromonte, la persona più lontana dalle mode e dall’ostentazione, è stato uno dei massimi dirigenti di quel partito. Per dire, in tutta la fase in cui la linea del compromesso storico fu sostenuta da lui con forza di fatto fu il dirigente politico più vicino a Berlinguer ma non ne condivise la decisione di abbandonarla sostituendola con l’alternativa democratica..

Di lui si è scritto e si dovrà scrivere ancora, ma un passaggio dell’intervento delle figlie merita di essere particolarmente sottolineato, vale a dire quando ricordano: «Nel 1993 papà muore e il suo ultimo discorso alla federazione di Napoli è noto a tutti: sul pericolo di un giustizialismo dilagante, dovuto anche agli enormi errori compiuti. Discorso che si conclude con una dichiarazione di amore nei confronti del partito e di Napoli del tutto irrituale per lui così schivo e riservato nei sentimenti». Vide, cioè, con lucidità che cosa incombeva sul futuro del partito e dell’Italia. Per un uomo per il quale la politica era tutto e la questione morale un dato ineliminabile, le soluzioni ai problemi erano legate a scelte politiche e azioni conseguenti. In sintesi, per lui le scorciatoie, soprattutto quella giudiziaria, erano errori politici gravissimi che avrebbero avuto sviluppi negativi nell’immediato e nel tempo. Se ci pensate, oggi il tema di un giustizialismo ricorrente è centrale nella società italiana. Basterebbe ricordare solo l’ultima clamorosa diciannovesima assoluzione di Antonio Bassolino per capire quanto Chiaromonte avesse visto in profondità e lontano.

Le scelte di allora, così drammatiche e devastanti, dovrebbero essere oggetto di ricerca storica se non fossero di fatto ancora presenti nella vita di oggi anche perché quello di Bassolino, ripeto, è solo uno degli innumerevoli episodi del “giustizialismo dilagante”. Quando, tanto per restare alla stretta attualità, per la gestione di un’emergenza pandemica in Calabria non si sa se rivolgersi ai magistrati o ai tecnici della materia, escludendo di fatto la politica, si capisce bene che c’è qualcosa che non funziona. Certo, è anche difficile stabilire se questo stato di cose sia il risultato di un protagonismo eccessivo dei magistrati o del fallimento della politica. Piuttosto c’è da chiedersi se tutto questo non sia anche conseguenza delle scelte di allora. Il Pci, ricordiamolo, era impegnato a chiedere una seria e radicale riforma della giustizia, le sue battaglie contro i “porti delle nebbie” e gli affossatori delle sentenze erano state memorabili, poi di fatto, senza neanche che ce se ne accorgesse, passò un’altra linea. L’antipolitica era in agguato e fu poi difficile affrontarla e batterla. Chiaromonte vide e segnalò il pericolo.

Peccato per Castellammare. Tentativo di coprire le “piaghe”

Non gioisco per l’esclusione di Castellammare dalla corsa per diventare capitale della cultura per il 2022. E non nascondo neanche la gioia per Procida, isola sempre presente a casa mia nella più bella foto che io abbia fatto in vita mia: le mie figlie piccolissime che, sedute sugli scalini della rampa in pietra di una casa tipica di Solchiaro, danno con le loro manine il granone a una gallina. Ma Castellammare è la mia città e, per quanto ne possa stare lontano, la sento tale in ogni istante. Per questo affetto viscerale avevo dato il mio nome al comitato di onore per la candidatura, e, pur non avendo partecipato ai suoi lavori anche perché non so se ce ne siano stati, dico che mi dispiace. Mi dispiace per gli stabiesi, non so se pochi o molti, che avevano nutrito la speranza di una svolta virtuosa. Evidentemente ci vuole ben altro.

Lo sapevo anche nel 2013 quando, sollecitato a dare una mano, mi candidai a sindaco. Ero ben consapevole che c’era poco spazio per un programma, se posso dire, “romantico”, visto il radicamento di gruppi e interessi che avevano tarpato le ali allac ittà. Lo capii un pomeriggio nello studio di un vecchio amico di gioventù quando brutalmente mi chiese che intenzioni avessi sulle aree di corso Alcide De Gasperi e se mi fossi incontrato con tizio o sempronio. Capito che non avrei incontrato quelle persone mi disse: “Allora tu non sarai eletto neanche consigliere comunale”. E così fu.  Tramontata la stagione delle Partecipazioni Statali e, quindi, delle industrie e anche delle Terme, la città ha tentato nuovi percorsi a fasi alterne ma mai facendo fino in fondo i conti con la mutazione sociale e culturale che stava avvenendo. Prendete la storia del Centro Antico. Ogni città, basta guardarsi in giro, quando entra in crisi riparte dal suo “cuore” per immaginare e perseguire una prospettiva nuova. L’immagine di Castellammare è congelata nell’abbandono degradato del suo patrimonio identitario che si racchiude nello spazio che va dal Cantiere e dalle Antiche Terme alla piazza del Municipio. Per il quale non si spendono neanche più le parole. Mentre tutto il resto, fatti salvi interventi sul lungomare e gemme preziose come il neonato Museo d’Orsi a Palazzo Reale, è un contenitore di strade insufficienti e palazzi raramente belli, mentre sulle aree industriali dismesse si concentrano mire più che discutibili. Quanto poi alla sicurezza generale le cronache parlano da sole.

Era, dunque, velleitaria la candidatura a capitale della cultura 2022? Di sicuro era un tentativo di coprire e non guarire le piaghe. Qualcuno lo avrà fatto strumentalmente ma penso anche che altri promotori siano stati in perfetta buona fede. Ma Castellammare ha bisogno di un’idea, di un progetto, di una visione di futuro. Che allo stato non ci sono. La nostalgia del tempo che fu, della sua straordinaria storia politica, economica e culturale è ormai materia esattamente di storia. Ne abbiamo scritto su queste colonne ampiamente provocando anche una vivace e interessante discussione. Pur tuttavia del passato non si può non tener conto, ma non per restarne prigionieri. Il presente è la città come si presenta dopo decenni tormentati da trasformazioni economiche e da eventi traumatici come il terremoto del 1980. E pur tuttavia un’idea per il futuro non può prescindere da tutto questo. Da qualche punto occorre ripartire. Per esempio, che si fa di quel Centro Antico?

Articolo pubblicato il 17 novembre 2020

Il bacio che serve alla Calabria

Sono sconcertato e spero davvero che il mio sentire venga smentito dai fatti. I fatti che al momento non mi sembra vengano preceduti da un buon auspicio per la sanità calabrese, in generale e soprattutto ora che si è in piena pandemia. Quel video del neo-commissario alla sanità Giuseppe Zuccatelli sull’inutilità della mascherina e della colpa del bacio non si archivia facilmente. Auguriamoci di doverlo dimenticare presto. Ma il ministro Speranza ha voluto così e vogliamo credere che sia stato ben consigliato e che rispetto alla fine ingloriosa del commissario Cotticelli (mio concittadino e, se non ricordo male, nato nello mia stessa strada) riservi ai calabresi un destino migliore.
Se avessi avuto la possibilità, per quel poco che può valere un mio giudizio, io gli avrei detto, nessuno si scandalizzi, di guardare in Calabria e nella sua storia. Gli avrei ricordato che un medico di spessore professionale e culturale e soprattutto uomo libero e coraggioso, amministratore pubblico ed anche con esperienza di gestione del settore, c’era e si chiama Santo Gioffrè. Lui fu nominato, credo in un momento di distrazione, commissario della disastrata Asp di Reggio Calabria. Si mise al lavoro e scoprì magagne allucinanti. Una per tutte: fatture per importi milionari pagate due e anche tre volte. Non chiuse un occhio e neanche tutti e due, andò avanti, affondò il bisturi nell’infezione e fu – indovinate? – cacciato. Una pietra sul malaffare e via come sempre.
Ricordare questo precedente storico (l’aggettivo è appropriato perché questa vicenda resterà negli annali, piaccia o non piaccia a chi l’ha voluta rendere tale) non è una forzatura perché la sanità calabrese ha necessità di essere risanata, riorganizzata, gestita in maniera efficiente e trasparente, con lo stesso riguardo che la mano pubblica riserva con i denari di tutti alla sanità privata (per averne qualche elemento andate sulla pagina facebook Iacchite di Gabriele Carchidi).
Speranza ha deciso diversamente. E queste mie sono chiacchiere e basta. Con l’augurio che, prendendo per buona la tesi del bacio del nuovo commissario venuto dalla Romagna, la Calabria più che dalla pandemia venga baciata dalla buona gestione. Questa sì è un’infezione che manca da troppo tempo e che ora è vitale come non mai.

Castellammare, un gesto responsabile

Cerco sempre di ragionare senza pregiudizi e il pregiudizio, se l’avessi, mi porterebbe a ritenere Gaetano Cimmino un sindaco ben lontano dalle mie concezioni e dalla mia sensibilità, ma mi vado convincendo che si sia comportato responsabilmente. Perché chiedere al presidente della Regione di dichiarare la sua città, la mia Castellammare, “zona rossa” non è una scelta che si fa a cuor leggero, e bisogna aspettarsi che sia accompagnata da controlli severi che finora sono vistosamente mancati. I numeri e le terribili cronache di questi mesi e di questi giorni dicono che la città è davvero in una situazione allarmante, non solo il suo ospedale, che ormai è diventato un simbolo della crisi pandemica, ma la diffusione del virus, per quello che si sa, in rapporto alla popolazione.

Per legami familiari e per conversazioni con amici con i quali intrattengo un dialogo quasi quotidiano ho informazioni sempre più preoccupate e preoccupanti da settimane e credo che a Cimmino non si offrivano molte alternative. Pur tuttavia, piuttosto che indugiare con il timore dell’impopolarità e la paura di sbagliare, ha scelto la via più drastica, quella che sperabilmente può riportare nel giro di un periodo non prevedibile la situazione ad una condizione non dico di normalità ma almeno di sopportabilità.

Aggiungo che, al di là di valutazioni di merito o di eventuali propositi strumentali, mi aveva positivamente sorpreso la sua iniziativa, a prima vista temeraria, di candidare Castellammare a capitale italiana della cultura del 2022. Mi sembra che siano due decisioni, soprattutto quella di oggi, responsabili. Soprattutto auguro agli stabiesi, familiari e amici compresi, di poter affrontare e superare il difficile momento con senso di responsabilità e unità di intenti e comportamenti.

L’unità serve, la responsabilità è indispensabile

Ogni tanto si sente evocare lo spettro della seconda guerra mondiale per dire che siamo in piena terza guerra mondiale. I paralleli in storia sono rischiosi e quasi sempre azzardati come il vecchio Marx ci ha insegnato sostenendo che la seconda volta la tragedia diventa farsa. Ma quella che stiamo vivendo è già una tragedia e l’evocare un precedente cruciale del secolo scorso serve solo a rappresentarne la devastante drammaticità e non già la continuità. Da qui dovremmo partire tutti in questi giorni di smarrimento e di grave sbandamento.

Tutti contro tutti, non siamo alla caccia all’untore, c’è chi ancora nega il pericolo se non addirittura l’esistenza del virus e la ragione sembra si sia defilata dalla nostra vita. Da settimane, mentre la pandemia se ne sbatte delle nostre ansie, si discute come sei mesi fa, come un anno fa, come in questi anni di folle ricerca di un taumaturgo – fosse il popolo o un suo surrogato – capace di fare quello che noi non sappiamo o non vogliamo fare. Ma se prima di Wuhan era sopportabile adesso non più. Tutti dovrebbero darsi una calmata.

Prendiamo Napoli e l’Italia. Si recita su palcoscenici diversi ma in comune hanno la distanza, l’incomprensione, l’incomunicabilità. A Napoli si rappresenta il paradosso: due signori, di area relativamente comune (possiamo dire sinistra?), pur avendo la responsabilità del destino l’uno di un’intera regione e l’altro della città più importante non solo demograficamente, si ignorano se non al massimo si scambiano velenose parole e atroci accuse. Non sono, inutile ricordarlo, solo esponenti di parti politiche bensì i rappresentanti al massimo livello delle due istituzioni fondamentali sul territorio. E non si parlano. L’uno vive nella torre d’avorio delle sue decisioni monocratiche, non nascondendo il fastidio delle architetture democratiche. Se fa bene va bene anche per noi. Se fa male sono guai per noi. L’altro, che ieri finalmente ha inviato un messaggio al “rivale”, vive per lo più in televisione e sembra interessato soprattutto alla propria sorte politica. No, così non va. E poco importa se hanno il loro temperamento, anche nolenti dovrebbero, devono parlarsi e trovare forme di collaborazione istituzionali insostituibili sempre e soprattutto in una fase come questa.

Ma in Italia succede, con altre forme e protagonisti, non molto di diverso. Non so se sarebbe necessario un governo di unità nazionale, ma sicuramente dovrebbe cambiare il clima tra le forze politiche. Le responsabilità dei due maggiori partiti di opposizione sono evidenti e si sono manifestate nei mesi e negli ormai ultimi due anni dopo il vertiginoso cambio di alleanze. Ciò detto, come si fa a dargli torto quando chiedono di essere coinvolte e non solo sentite dal governo? Il premier Conte, nei cui panni credo pochi vorrebbero stare in questi giorni, ripete ormai come un mantra ad ogni Dpcm di aver consultato le opposizioni. No, non basta. L’educazione parlamentare sarebbe apprezzabile in tempi normali, ora serve ben altro. Ripeto, non mi azzardo a parlare di governo di unità nazionale, ma alla consultazione dovrebbe seguire l’ascolto e in qualche modo il coinvolgimento, mediante e facendo proprie le proposte condivisibili. Ci sarà poi tempo per dividersi di nuovo, sempre che quando usciremo da questo tunnel ci saremo ancora tutti.

Sarebbe, questo, il segnale più importante in questo momento per il paese. Qualsiasi decisione non è semplice e non ce n’è una che non presenti controindicazioni, ma al disagio, alla paura e alle attese dei cittadini, soprattutto quelli che temono per la loro salute e la loro sopravvivenza sociale e rischiano di veder trasformata in rivolta eversiva la loro legittima protesta, si risponderebbe ispirando la fiducia che deriva più che dalla concordia, impossibile evidentemente, dal senso di responsabilità. Per esempio, il coraggio, come chiedeva ieri Sergio D’Angelo su queste colonne, di chiudere tutto subito per non farlo quando sarà troppo tardi. Ed è una cosa deciderlo coralmente ben altra se ognuno resta sulla propria barricata.

Avremmo bisogno di un Churchill, ma quelli erano altri tempi e anche nel suo paese si è visto che di eredi con quello stile e quella autorità non c’è neanche l’ombra, anzi… Ma, per dire, ci basterebbero un Moro o un Berlinguer, il cui alto senso dello Stato e dell’interesse nazionale piuttosto che di quello di parte sono un nostro straordinario patrimonio. Di quest’assenza e dei propri limiti sarebbe opportuno che fossero consapevoli Conte e Salvini, Zingaretti e Meloni, Di Maio e Berlusconi e, nel nostro ambito relativamente piccolo, De Luca e de Magistris. Ovviamente i primi ad operare di conseguenza, in uno spirito adeguato alla situazione, dovrebbero essere coloro i quali in questo momento hanno la responsabilità del governo a tutti i livelli. Altrimenti l’onda sarà devastante.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 31 ottobre 2020

Tonino Perna, dopo Reggio perché non la Calabria?

Mi capita spesso di sentirmi chiedere come mai sia così forte e radicato per un napoletano consapevole e irriducibile come me il rapporto con la Calabria. Potrei dire semplicemente che quella terra e quei mari ti entrano nel cuore e nell’anima, ma, nonostante la definizione di “razza maledetta”, il pregiudizio al quale un intellettuale del calibro di Vito Teti ha fatto ricorso per smontarlo pezzo a pezzo pur non nascondendo le colpe della sua gente, io ho conosciuto persone straordinarie da quelle parti. Ci ho pensato molto in questi giorni quando un caro amico, Mimmo Rizzuti, mi ha sottoposto una sua idea a proposito delle prossime elezioni regionali. «Che pensi di una candidatura di Tonino?», mi ha chiesto. Gli ho risposto che sarebbe un bene per la Calabria ma non so quanto la condizione poco felice in cui versa il largo fronte di quella sinistra dal perimetro così indefinito renda praticabile e vincente una sua discesa in campo. Ora leggo che il neoeletto sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà, ha nominato suo vice proprio lui, Tonino. E Tonino è Tonino Perna. Una di quelle persone che mi hanno fatto amare la Calabria.

Il suo profilo parla pur per cenni parziali da solo: 73 anni. reggino doc, trascorre molto tempo attraversando lo Stretto perché lavora a Messina nella cui università è professore emerito di sociologia economica e della cui città è stato assessore alla cultura nella giunta Accorinti, presidente della Sinistra EuroMediterranea, candidato alle elezioni europee nella lista con Sipras, e mi fermo qui perché occorrerebbe un terzo di questo articolo per dire soli i titoli della sua biografia, i libri, le iniziative, gli incarichi. Con due aspetti che voglio sottolineare: sempre nel segno della coerenza e della concretezza. Su questo secondo punto ricordo che da presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte mise in atto un efficace modello di protezione dagli incendi che sciaguratamente fu dimenticato come le tante cose buone dalla Regione.

Aggiungo ancora che è un giornalista di valore come dimostrano i suoi fondi sul Manifesto, qualità di cui mi avvalsi con assiduità nel mio lavoro al “Quotidiano della Calabria”. Per capirci, racconto un episodio a dir poco singolare. Pochi minuti dopo le 14 di lunedì 25 febbraio 2013 sulla mia posta elettronica arrivò una sua mail: conteneva un articolo, più precisamente un editoriale di analisi del voto che con il clamoroso successo dei Cinquestelle avrebbe segnato la storia politica italiana di questi anni. Lui commentava il risultato con la precisione, fatta eccezione per i numeri che non riportava, di chi invece sembrava avere a disposizione proprio quei numeri. Lo chiamai con non poca sorpresa per chiedergli: ma che hai scritto? I seggi sono ancora aperti, lo spoglio inizia tra un’ora e tu già scrivi come si è votato. E lui: «Puoi già metterlo in pagina, questi saranno i risultati, le cose sono andate esattamente così». Parlammo un po’, poi lo lasciai con un certo sconcerto anche perché non era a conoscenza di sondaggi e all’epoca quelli che furono fatti sbagliarono clamorosamente. Andò come diceva lui, non si dovette cambiare una virgola al suo pezzo che pubblicai come editoriale con un codicillo per sottolineare i tempi e le modalità del suo invio. Insomma, un signore con i piedi per terra, con la mente lucida, la curiosità sterminata e l’esperienza derivatagli da spessore culturale, esperienza e militanza politica. È superfluo dire della sua onestà cristallina e della stima che lo circonda da sempre.

Ecco chi è il nuovo vicesindaco di Reggio Calabria. Una di quelle persone che mi hanno fatto amare la Calabria. Uno che ha un’idea della sua terra: proiettata verso l’Europa e radicata nel Mediterraneo, perché quei quattrocento chilometri di montagne che scendono in mare da un lato e dall’altro, non sono un pezzo residuale del paese ma una piattaforma naturale che mette in relazione mondi diversi per trasformare paure e preoccupazioni in risorse. Io mi auguro che la nomina al Comune di Reggio sia solo un passaggio e che il suo nome venga preso in considerazione per la prossima vicina scadenza elettorale. Dopo tanti fallimenti la Calabria ha il diritto di scommettere sulla qualità umana, culturale, politica dei suoi uomini più validi. E non sembri velleitario. Anche perché questi sono tempi instabili, ci sono ovviamente i soliti sistemi di potere, conviviamo con pericoli che un anno fa neanche immaginavamo, ma forse è matura la necessità di un cambiamento reale.

Noi, specie protetta

Appartengo a una specie protetta, quella degli anziani e dei nonni. E vivo giorni amari. Vedo cadere amici carissimi, l’ultimo, Carlo Franco, se n’è andato all’improvviso benché lottasse l’ultima inutile battaglia da qualche giorno nel letto di un ospedale, sono saltati per sempre gli appuntamenti che ci eravamo fissati appena pochi giorni fa, neanche la possibilità di dargli l’ultimo saluto come insieme abbiamo fatto purtroppo tante volte, l’ultima ai funerali di un altro gigante del mestiere, Luigi Necco: una privazione grandissima per me, figuriamoci per i suoi cari. E un altro amico, compagno di una vita, sempre presente in tutti i momenti importanti pubblici e privati, combatte in un altro ospedale e mi tiene nell’ansia e nel timore di una telefonata atroce.

Penso all’isolamento fisico, visivo, acustico di chi viene colpito e isolato e ai familiari soli e disperati in attesa di notizie, sempre centellinate e raramente rassicuranti. Ma soprattutto, e ne scrivo perché va al di là della testimonianza personale, c’è il rischio che nel senso comune si consolidi l’opinione che tutto sommato gli anziani la loro vita l’hanno vissuta e che se qualcuno deve pagare è meglio che tocchi prima a loro. In questa terribile teoria, intendiamoci, c’è anche del razionale perché essa si allinea pragmaticamente al corso della vita, al suo inizio, sviluppo e esito. Del resto, è naturale che i figli vedano la morte dei genitori, non lo è ed è insopportabile che siano i padri a piangere i figli. Pur tuttavia sappiamo che la civiltà di una comunità si misura dal modo con il quale tratta i bambini e i vecchi, e naturalmente i deboli e i malati. E la nostra è sicuramente una civiltà degna di definirsi tale perché, al di là delle contraddizioni, il modello di società è stato orientato molto in questa direzione. Anche in questi giorni, perché negli ospedali un esercito di persone lavora, si sacrifica e mette a rischio più di chiunque altro la propria vita per salvare la vita di altri, anche di tantissimi anziani che entrano nel loro tunnel dal quale, per un nemico infido e per ora invincibile, non riescono sempre o quasi mai a uscire. La sanità pubblica, al di là di quello che non ci va e che critichiamo ogni giorno, è un vanto del nostro paese e risponde appunto all’idea di società giusta, equa e solidale appena ricordata.

Siamo in un tempo complicato, ma il prossimo, quello immediatamente alle porte se non già iniziato, sarà difficile per tutti. E ognuno dovrà fare nel suo piccolo o nel suo grande la sua parte. Senza mai cadere nella tentazione di pesare la morte. Anche perché su quella bilancia ci saliremo tutti. Poi a chi tocca tocca.

21 ottobre 2020

 

Se Bassolino cade in trappola

Se in mezzo non ci fossero questi cinque anni si potrebbe dire che l’incontro di ieri tra Antonio Bassolino e il segretario del Pd napoletano Marco Sarracino sia stato positivo rispetto alle attese dei due. Ma nel 2016 ci furono le primarie “farlocche”, come le ha sempre definite l’ex sindaco “trombato” con metodi prossimi al codice penale dai predecessori del nuovo dirigente Pd. Furono una trappola nella quale il pur esperto Bassolino cadde con la conseguenza di bruciarsi la possibilità di scendere in campo e tentare la sfida: non con il senno di poi, perché lo pensai ed ebbi anche modo di dirlo all’interessato, in quella situazione non era improbabile la possibilità di andare al ballottaggio con de Magistris. Oggi il Pd le primarie non intende farle ma anche se le facesse sicuramente Bassolino avrebbe poche tentazioni a frequentarle direttamente. Ma c’è altro.

In questi cinque anni non si è avuta traccia di un ruolo del Pd sui problemi di Napoli. Mentre la città prendeva la china disastrosa che è sotto gli occhi di tutti il partito di Amendola (Enzo, non il grande che fu) stette a guardare le stelle che non ricambiarono l’attenzione. Voto? Non possibile per assenza dell’esaminando. Semmai sono state più le volte che a de Magistris sono arrivate, specie attraverso la mano romana, aiuti “democratici” provvidenziali che gli hanno consentito di arrivare al termine dei secondi cinque anni di sindaco.

Tutto questo ha pesato nel faccia a faccia di un’ora e mezza alla Fondazione Sudd. Bassolino aspira a un sostegno del Pd, il Pd vuole un Bassolino non candidato sindaco in cambio di un ruolo prestigioso (quale? boh!). Lui, Bassolino sa benissimo che questa volta, in forma diversa da cinque anni fa, potrebbe finire di nuovo nella tagliola e sempre a causa del partito alla cui fondazione contribuì. In tal modo vanificherebbe il paziente, meticoloso, incessante, intelligente passo dopo passo che gli ha permesso di fare una “campagna elettorale” senza precedenti. Certo, non deve farsi illudere dalla risposta di tutti quelli che ha intercettato in questo lungo viaggio, sempre positiva, spesso amichevole e pure affettuosa. C’è anche un’altra città, quella che pare gli abbia ricordato Sarracino, che è lontana da questi scenari e che ragiona in altro modo, per di più in un tempo così complicato e drammatico come quello che stiamo vivendo.

Va detto, però, che Napoli è anche sorprendente. Lo fu quando, in pieno deserto di Mani Pulite, Bassolino tornò da Roma e in pochi mesi costruì la sua ascesa trionfale a Palazzo San Giacomo, lo è stata quando, e perfino con una replica, con astuzia Luigi de Magistris scese in campo e approfittando della situazione di marasma dell’area di centrosinistra costruì il suo successo. Insomma, nulla è scontato. Finora nel totosindaco che impazza i soggetti non sono pochi e neanche tutti, per lo più sono dotati di debolezze più che di certezze, alcuni anche di storia. E la storia continua, nonostante tutto. Con passi in avanti e anche indietro come ci è stato insegnato.

20 ottobre 2020