Luigi Necco il cittadino, io il contadino

Sapevo che da un momento all’altro sarebbe arrivata la notizia. Da settimane la figlia Alessandra ci diceva che le cose non andavano bene e ci sconsigliava di andare a trovarlo perché era in terapia intensiva al Cardarelli. E quando pochi giorni fa ci ha detto che gli avevano fatto un intervento chirurgico e che stava male, molto male, si era capito che le sue sofferenze stavano per finire.
Luigi Necco ci mancherà, mi mancherà molto. Da quattro mesi non eravamo più vicini di pianerottolo, ma, tragica ironia della sorte, eravamo di nuovo vicini perché la mia nuova abitazione è a cento metri dal Cardarelli. Ovviamente ci conoscevamo da tempo, mezzo secolo tondo tondo, ma da venticinque anni ci vedevamo praticamente ogni giorno. Avevamo firmato insieme il contratto di affitto a Villa Maio e lui per entrare e uscire da casa sua doveva passare per il cortile davanti alla mia cucina. Fino a qualche anno fa i suoi passaggi erano controllati. Non appena ne sentiva l’arrivo, Luna, la nostra cagnetta, abbaiava come con nessun altro, e non era amore: evidentemente tra loro non correva buon sangue e Luigi glielo aveva dovuto far capire. Ironia della sorte, e ora glielo confesso e gli chiedo scusa, quando fummo costretti ad abbatterla la seppellimmo a sua insaputa sotto un albero di arance del suo giardino.
Non devo rivelare a nessuno quanta vasta fosse la sua cultura. So solo che io, che pure parlo troppo, quando mi intrattenevo con lui rimanevo per lo più in silenzio perché era un piacere ascoltarlo. Sapeva tutto e non era solo sconfinatamente erudito, ma competente, raffinato e dotato di una visione autonoma sulle cose e sugli uomini. Ogni volta rimanevo impressionato dalla precisione del linguaggio: se avessi registrato quelle “conversazioni” avrei potuto trascriverle senza aggiungere o modificare nulla, neanche la punteggiatura.
Una serata bellissima nacque da un pretesto squisitamente culturale. Ero a Cefalonia, precisamente a Sami e avevo postato una foto. Lui mi scrisse subito che lì nei paraggi c’era la probabile tomba di Ulisse. Andai a visitarla, ne scrissi e mi impegnai a portare qualche bottiglia di Robola da bere insieme. Dopo qualche mese ci vedemmo da me a cena e invitai anche Enzo Ciaccio, il mio carissimo amico. Il buon vino, fresco al punto giusto, onorò la paiella di Anna, le alici indorate e fritte e il trionfo dei dolci, quelli portati da Enzo, e la torta a cinque cioccolati che preparai appositamente per lui. Ma il piatto più importante e buono fu lui. Parlò per ore, e neanche un accenno allo sport. Noi tutti a sentirlo estasiati, insaziabili, fino alle ore piccole. Date, persone, fatti, contesti storici, un’enciclopedia di vita e conoscenza, rielaborata dalla sua intelligenza, scorrevano davanti a noi. Quando pubblicai la foto, dalla Calabria si fece vivo un altro mostro sacro della televisione, Emanuele Giacoia, con il quale avevo lavorato gomito a gomito per anni in quella regione. Lui era a Avellino con Luigi e stavano entrando in macchina dopo la partita quando spararono a Luigi. Da decenni non si vedevano. E così nacque l’idea di farli incontrare in una serata da me. Purtroppo, per un motivo e per un altro, di rinvio in rinvio, quell’impegno non è stato onorato e qualche giorno fa, in occasione del suo compleanno, l’ho detto a Emanuele raccontandogli che Luigi era in ospedale e che non sarebbe stato più possibile vederci insieme. Non me lo perdono.
Ma Luigi non era solo l’immenso giornalista di nera, politica e vita, non solo il grande uomo di cultura o l’esperto di archeologia o il cronista e commentatore sportivo, era anche e soprattutto un napoletano. Ci lascia, in tempi di televisione inguardabile, il gioiello di una trasmissione su un canale privato, “L’emigrante”: le puntate sono cammei preziosi su Napoli da conservare gelosamente. Gli piaceva stare tra la gente, avrebbe vissuto con gioia davanti a un “basso”. Lo trovavi sul muretto del viale del parco a parlare per ore con chiunque passasse, o seduto nel negozio del tabaccaio di piazza Leonardo per chiacchierare con chi entrava e usciva. Gigioneggiava molto, sia chiaro, gli piaceva che fosse riconosciuto e ripagava la simpatia. La sua energia era impressionante. Fino a poche settimane fa, incurante del peso che l’opprimeva, era solito uscire dopo mezzanotte per andare a cene, incontri e chissà che altro. Amava la vita, divorava di nascosto (se possibile, anche a se stesso) le cassate di Bellavia.
Una mattina, mentre sistemavo la siepe del giardino lo intravidi tra le foglie del lauro ceraso. Più che una conversazione fu uno schioppettare di battute. Lui mi sfotteva dicendomi che ero un contadino e io replicavo che lui era un cittadino. Sì, un illustre cittadino di Napoli e, quindi, del mondo.

* Ricordo di Luigi Necco in occasione della morte il 13 marzo 2018

Perchè sono Italiano

Sono italiano perché da bambino mi dicevano che lo ero.
Sono italiano perché sulla carta geografica, che la maestra aveva alle sue spalle, l’Italia mi sembrava una persona di famiglia.
Sono italiano perché Antonio Gramsci raccontava la storia dell’albero del riccio in una lettera dal carcere al figlio Delio.
Sono italiano perché quando facevo politica il mio partito comunista era italiano.
Sono italiano perché una volta all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli misi a tacere il generale Broglio che parlava male dei suoi connazionali.
Sono italiano perché la pasta con le melanzane mi fa sognare e le lasagne verdi mi commuovono.
Sono italiano perché, nella notte della veglia per i venticinque anni dalla morte di Padre Pio, sul sagrato gelido della chiesa di San Giovanni Rotondo scoprivo una per una le coperte e raccoglievo le storie di fede di italiani e italiane di Genova e di Catanzaro, di Padova e di Matera, di Cuneo e di Catania.
Sono italiano perché è vero che il Sud fu maltrattato dai piemontesi ma è vero pure che lo maltrattavano ancora prima i Borbone.
Sono italiano perché venti anni fa nel parco dell’albergo di Stresa trovammo la fiancata dell’auto rigata: era targata Napoli.
Sono italiano perché Bossi è padano.
Sono italiano perché Cesare Pavese e Leonardo Sciascia erano italiani.
Sono italiano perché Fabrizio De Andrè ha gradito il café di don Raffaé.
Sono italiano perché Sergio Leone ha fatto i western meglio degli americani.
Sono italiano perché, a Pisa a quindici anni, piazza dei Miracoli mi sembrò finta tanto era vera e vera tanto era inventata.
Sono italiano perché dalla collina di Coreca ho visto il sole tramontare dietro Stromboli.
Sono italiano perché a quattordici anni scappai a Torino con la voglia di lavorare e mi aiutò Pino Clemente, ritrovato per caso, che era tanto povero da dormire nelle case di don Orione, e me lo nascondeva perché si vergognava.
Sono italiano perché a piazza della Loggia non trattenevo le lacrime e la rabbia davanti alle bare di otto italiani di Brescia uccisi da una bomba dei neofascisti.
Sono italiano perché Papa Montini pregò “in ginocchio” gli “uomini delle Brigate Rosse” affinché liberassero Aldo Moro.
Sono italiano perché a quindici anni andai al congresso nazionale della Fgci a Reggio Emilia e soprattutto mi spinsi fino a Campegine per abbracciare papà Alcide Cervi novantenne e farmi raccontare la vita dei suoi sette figli fucilati dai fascisti.
Sono italiano perché pur essendo napoletano non so cantare.
Sono italiano perché nel cantiere di Castellammare di Stabia venivano varate le navi più belle del mondo.
Sono italiano perché lavorare stanca ma senza lavoro si finisce nella disperazione.
Sono italiano perché a cena da “Ciccio di Pozzano” Pier Paolo Pasolini si preoccupava del cibo che servivano a Ninetto Davoli.
Sono italiano perché quando vidi Maradona entrare la prima volta al San Paolo fui certo che era un italiano dei quartieri di Napoli.
Sono italiano perché il “mio” paesino abruzzese fu raso al suolo dai tedeschi e gli abitanti non lo vollero più ricostruire.
Sono italiano perché in Irpinia vidi Antonella Chieffo che raccoglieva oggetti e ricordi tra le macerie della casa distrutta dal terremoto pensando di doverla ricostruire, come poi fece.
Sono italiano perché mi sono sentito sempre un cittadino del mondo.
Sono italiano perché una mattina mi sono svegliato al “Tragara” di Capri, sono uscito in pigiama sul balcone disegnato da Le Corbusier e ho mangiato un cornetto caldo guardando i Faraglioni che erano lì sotto.
Sono italiano perché mi ruppi il legamento mediale in Valtellina e l’albergatore si mise alla guida della mia auto il giorno di Capodanno e mi portò alla stazione di Milano dove caricò me, ingessato, la mia famiglia e l’auto sul treno per Napoli per poi tornarsene con un altro treno a Val di Dentro. E quando gli chiesi che cosa gli dovevo mi rispose: «Nulla. Lei non avrebbe fatto lo stesso per me?».
Sono italiano perché a Reggio Calabria ho visto i ragazzi che dicevano con gioia no alla ‘ndrangheta.
Sono italiano perché le poesie a memoria non mi piacevano ma Leopardi mi toccava il cuore.
Sono italiano perché ho per amico il trentino padre Giancarlo Bregantini che diffonde dalle Alpi alla Sicilia la poesia della fede, che a me manca.
Sono italiano perché ero così piccolo da non capire, ma sentii che a casa c’era un grande dolore per la tragedia di Superga e amai il Torino pur non diventandone tifoso.
Sono italiano perché parlo italiano nella mia terra e napoletano quando sono al Nord.
Sono italiano perché dopo ogni comizio davamo la pasta di Gragnano a Giorgio Amendola.
Sono italiano perché grazie ai patrioti del Risorgimento e ai partigiani della Resistenza vivo in un paese, nonostante tutto, ancora libero.
Sono italiano perché Michele Tito mi aveva assunto al Corriere della Sera, ma, tornato a Napoli, lo richiamai per dirgli che non abbandonavo la mia terra.
Sono italiano perché sono venuto a lavorare in Calabria, più a sud del sud dove sono nato, perché amo e odio questa terra, che è la mia terra.
Sono italiano perché l’Italia è tutta bella ma la Calabria lo è ancora di più.
Sono italiano perché stravedo per Sharon Stone ma Monica Bellucci è la fine del mondo.
Sono italiano perché non mi vergogno di usare, per non sporcare la cravatta, anche il cucchiaio quando mangio gli spaghetti.
Sono italiano perché qualche volta mi viene voglia di non fare la fila.
Sono italiano perché non sempre rispetto il codice della strada, ma non me ne vanto.
Sono italiano perché mi piace Alberto Sordi e Totò mi fa impazzire.
Sono italiano perché nessuno tocchi la mia famiglia ma rispetto quelle degli altri.
Sono italiano e di mamme ce n’è una sola e la mia è la più bella.
Sono italiano anche se non corro mai in soccorso del vincitore.

Sì, sono italiano.

*Editoriale pubblicato sul “Quotidiano della Calabria” il 17 marzo 2011 in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia

Lo sguardo di Compagnone sulla città di Masaniello

L’amarezza è la sua cifra per scandagliare quella Napoli non più«bagnata dal mare»

di Matteo Cosenza

Quando conobbi Luigi Compagnone, con il quale ebbi poi una quasi quotidiana frequentazione per molti anni, ero curioso di capire quanto fosse vero lo spietato ritratto che di lui fece Anna Maria Ortese ne II mare non bagna Napoli , e di conoscere da vicino il «funzionario della radio… alto, distinto, con una piccola testa dai lineamenti classici, coperta di capelli castani, gli occhi, di taglio delicato, di un azzurro purissimo, velati da lunghe ciglia». Fin qui esattamente l’idea che trasmetteva la foto fattagli da Luciano D’Alessandro, nella quale ritrovavo sì «la lotta tra certa nobiltà e gentilezza» ma meno la «disperazione e la perfidia», men che mai «quella parte inferiore di lui… avanzata come un male nascosto» e il lapidario finale di quel «mento aguzzo di vecchio», che l’Ortese gli aveva cucito addosso.

In questi giorni ho ripensato all’autore de L’amara scienza , romanzo «acuto e impietoso» secondo la felice definizione di Enrico Fiore, per quello che vado leggendo su Masaniello, a partire da Napoli, nostalgia del domani di Paolo Macry per proseguire con Napoletanità di Gigi Di Fiore e, soprattutto, con il saggio di Aurelio Musi su Masaniello e sul Masaniellismo , e da ultimo l’articolo di Pietro Treccagnoli sulla rivolta riuscita del «Masaniello di Bruxelles». Per questo ho ripreso dalla scaffale l’ingiallito romanzo di Compagnone, Ballata e morte di un Capitano del Popolo , in cui non è mai scritta la parola Masaniello ma si intende chiaramente che il «Capitano del Popolo» è la sua trasfigurazione.

In quest’opera, dalla scrittura colorita e al tempo stesso incalzante e asciutta come solo può fare chi dal latino ha succhiato il ritmo, si muove una folla sterminata e variegata: ci sono tutti ma proprio tutti i personaggi delle fiabe, dall’Orco alla Bella Addormentata, ovviamente c’è lui, Pulcinella Cetrulo nelle vesti di «Capitano del Popolo», brillano poi il «Cardinale avvucato», i re e le regine, in platea si agita il popolo, «una bestia varia e grossa, che ignora le sue forze» come ammonisce Tommaso Campanella nella sua celebre poesia che apre il libro. La città, naturalmente, è Napoli e il luogo dove abita il Capitano sono piazza Mercato con l’onnipresente forca e il palazzo in cui lui dorme e soprattutto il gàifo da dove muove verso il «mondo» quando non se ne sta seduto su un gradino di lucida pietra vulcanica a dialogare con l’Orco.

La storia inizia e finisce come avvenne davvero, il resto è una continua esplosione di immaginazione. Lo sguardo triste sulla città è ancora più tale per la cifra poetica che Compagnone ha scelto. L’amarezza è evidente e l’indignazione non gridata qui è sottesa al testo, in linea, ma alla sua maniera stilistica, con tanta opera degli scrittori napoletani suoi coetanei, che nel dopoguerra scandagliarono la città e si ritrovarono in quella che, secondo l’Ortese, non era più bagnata dal mare.

Ora penso che, sollecitato dalla ricorrente attenzione alla figura di Masaniello, l’aver ripescato il romanzo di Compagnone pubblicato nel 1974 sia collegato anche alla nostra collaborazione intensa e continua che avemmo alla «Voce della Campania». Il «funzionario della radio» fustigava i napoletani, e quindi sé stesso, con la tranquillità di un figlio il cui bene verso la mamma non è in discussione. Non risparmiando i suoi colleghi: «Essi amano molto i puparuoli, di cui ghiottamente si nutrono. E ne nutrono a cena i loro protettori, che ricambiano con altrettanti puparuoli: ovviamente imbottiti». Per questa opera demolitoria chiamò in soccorso il suo amore intramontabile, Giacomo Leopardi, e la sua satiretta I Nuovi Credent i. Ricordate? «S’arma Napoli a gara alla difesa/ de’ maccheroni suoi; che a’ maccheroni/ anteposto il morir, troppo le pesa». E così mentre lo storico Francesco Barbagallo ricostruiva il clima culturale ostile al poeta di Recanati nel suo agitato soggiorno napoletano, Compagnone la piegava al suo presente: «S’arma Napoli a gara alla difesa/ dei mascalzoni suoi; che i mascalzoni comandano la danza dei cialtroni/ e dei miliardi. Tacita è l’intesa», e sullo stesso tono proseguiva con sulfurea perfidia, forse la stessa che gli aveva rimproverato l’Ortese.

Una collaborazione e anche un’amicizia a tutto campo. Poteva anche lasciarti senza parole per le faccende banali della vita. Quando lasciò la moglie e la sua casa di Posillipo per andare a vivere al Parco Imperiale di Gragnano, alla periferia di Castellammare e a un chilometro da casa mia, con Chellina, la poetessa Rachele La Rotonda, un giorno mi telefonò per chiedermi se potevo ritirare per lui un pacchettino in un negozio di Napoli e portarglielo. Mi recai allo Spirito Santo, parcheggiai come potevo e andai a prendere il pacchettino: era una sedia a rotelle per la sua compagna. Volevo lamentarmi, ma capii che così era fatto Luigi.

Disarmante, generoso, sempre fustigatore e spesso capace anche di autocritica, avidamente volto a indagare le persone e, dunque, l’umanità, soprattutto i giovani dai quali si aspettava qualcosa di meglio di quello che a loro avrebbero lasciato gli adulti. Come quella mattina. Ero in Vespa con mia figlia. L’accompagnavo all’Università per un esame per poi andare al giornale. Passai prima da Luigi per ritirare un articolo. A quel tempo abitava a Monte di Dio al piano terra. Pensai inevitabilmente all’ammezzato dalla cui vetrata Anna Maria Ortese aveva origliato per affrescare le sue vittime, ma qui era diverso. Eravamo a Napoli, a Napoli per davvero. Luigi mi aspettava, io non entrai dalla porta perché la sua finestra affacciava sul cortile. Facemmo tutto così, alla napoletana, io fuori e lui dentro, come se lui abitasse in un «basso» e io stessi in strada. Ovviamente volle conoscere mia figlia e immediatamente incominciò a interrogarla. Lei, impaziente e con la testa altrove, ogni tanto con lo sguardo mi implorava di liberarla, ma ce ne volle. E lui era contento perché un po’ l’aveva conosciuta.

Molto prima di allora aveva collaborato quotidianamente con Paese Sera , al tempo in cui era gestito da una cooperativa. D’accordo con la direzione, l’avevo anche convinto senza faticare molto a scrivere lui il corsivo di prima pagina, lo storico «Benelux» dietro cui in un passato glorioso si erano celate le grandi firme del quotidiano. Un pomeriggio mi telefonò per dirmi che ci lasciava per andare in un altro giornale. Me ne dispiacqui. Poi ci ritrovammo ancora. Perché quel «mento aguzzo di vecchio», nella sua vitalità e nelle sue contraddizioni, mi era caro.

Fonte: https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/arte_e_cultura/20_aprile_23/sguardo-compagnone-citta-masaniello-b7c34fec-8531-11ea-99b4-f928831bd11a.shtml?fbclid=IwAR15jDiXCpcmrmNjJTbZnTeuKR4Y_Btj_MpGKZH8t2lIWjm9LsUH-qQeLPo

Castellammare, la piccola Napoli

Gli errori si pagano. La “mia” città sta pagando. Se osservo l’indefinito e infinito cantiere di Bagnoli e ricordo l’acciaieria di Nitti e la sua classe operaia svanita nel nulla, penso a Castellammare, la “piccola città” di un libro di Franco Ferrarotti. Piccola poi… di misure, di spazi, di numeri sì, ma un motivo doveva esserci se la chiamavano la “piccola Napoli”. Del resto, che cosa le mancava? Storia, tradizioni, mare, collina, montagna, campagna, industria, porto, terme, cultura, politica: aveva tutto, certificato e documentato, in dosi abbondanti, in una prodigiosa miscela che generava identità e orgoglio di appartenenza.
Che c’entra Bagnoli? Che cosa lega, in questa riflessione in parallelo, Bagnoli e Castellammare, il quartiere che stette alla fabbrica come il liquido amniotico alla nuova vita e la città che ha visto il tramonto non solo delle sue industrie? Forse solo il trovarsi in mezzo al guado, che non sempre è fatto di acque chiare, fresche e dolci, o, chissà, la moria di operai e le sue conseguenze sociali e politiche, o probabilmente il mare che bacia il quartiere e che nella città si è insinuato perfino nel nome. Dunque, gli errori. Mi riferisco a quelli di Castellammare, perché su quelli di Bagnoli non saprei cosa dire dopo le pagine di Ermanno Rea.
“Figlio” non so quanto “difficile” benché Michele Prisco non si riferisse alla mia generazione, anche la mia «giovinezza odorava del profumo dei biscotti della ditta Riccardi», ascoltava la musica delle sirene del cantiere navale, si dissetava o curava a una delle ventotto acque minerali, invocava la primavera per raschiare a denti stretti le foglie dei carciofi degli orti di Schito rigorosamente arrostiti, si alternava tra incursioni al Castello medievale, alla villa di Plinio il Vecchio e al Palazzo Reale e, di giorno e pure fino a notte inoltrata, consumava la vita sul lungomare e in Villa comunale tra una vasca e l’altra.
Era, il nostro, un tempo non perduto, tra il sogno del domani e l’illusione di costruirlo con la fragile arma della passione. I fatti, testardi come si sa, andavano altrove. Ci fu, però, chi aveva lavorato, fatto proposte, approntato progetti e messo paletti importanti, e, quando si decise altrimenti, avvertì i suoi concittadini del vicolo cieco in cui si stavano infilando. Ho riletto un suo discorso, grazie a un libro di Raffaele Bussi, stabiese molto attento alla memoria della città. Pasquale Cecchi, ultimo vicesindaco prima del fascismo e primo sindaco dopo la Liberazione, lo pronunciò in Consiglio comunale il 22 settembre 1954. In quell’anno, sconfitto in elezioni molto contestate, passò il testimone al sindaco democristiano Giovanni Uberti, che tra i suoi vezzi aveva quello di far precedere il cognome da un “degli” per acquisire la discendenza dal Messer Neri degli Uberti della novella di Boccaccio ambientata a Castellammare. Al centro dello scontro politico il tema, che negli anni a venire divenne spartiacque tra il Pci cosiddetto industrialista e la DC portabandiera dello sviluppo turistico. In realtà la divisione era più complessa.
La città discuteva del destino delle Terme, collocate di fronte al cantiere navale. Sul tavolo due progetti. Uno della Società Stabia gradito alla Cassa per il Mezzogiorno e sponsorizzato dalla DC, redatto dall’architetto Marcello Canino che prevedeva la realizzazione di un nuovo stabilimento dall’altra parte della città, sul pianoro deserto del Solaro, che doveva diventare il volano dello sviluppo turistico. L’altro, redatto dal professore Luigi Cosenza insieme agli architetti Massimo Napolitano e Eduardo Vittoria per conto dell’amministrazione comunale presieduta da Cecchi, proponeva la ristrutturazione e l’ampliamento delle Terme esistenti mediante la demolizione di vecchi fabbricati e la creazione di nuove strutture alberghiere con costruzioni basse e inserite nel contesto naturale, diffuse da un lato verso Pozzano lido e dall’altro verso la Madonna della Libera, con uno sviluppo che si sarebbe dovuto riconnettere attraverso i boschi di Quisisana con Palazzo Reale e Monte Coppola. In questo quadro era centrale il recupero, sicuramente lentissimo ma necessario, del Centro Antico che dalle Terme e dal cantiere si allunga fino a piazza Municipio. Infine, ed era un elemento di scontro, Cecchi non intendeva alienare il patrimonio idrotermale, un tesoro ingente”, che era del Comune e al quale ambiva la Cassa per il Mezzogiorno. Con il cambio della guardia a Palazzo Farnese, passò la scelta delle Nuove Terme al Solaro e in quel Consiglio comunale Cecchi pronunciò un discorso profetico.
«Si parla – disse Cecchi – di turismo e di terme e di trasformare il volto di Castellammare, quando vi sono zone malsane, antigieniche dove la vita umana si svolge in condizioni assolutamente incompatibili con la vita civile… Voi eliminerete solamente un’immensa ricchezza patrimoniale che dal Comune traferite nelle mani degli speculatori che si celano dietro la Cassa per il Mezzogiorno. Non si risolvono i problemi cittadini creando due stabilimenti termali… La città rimarrebbe nello stesso abbandono, con quell’ammasso uniforme di topaie che sorgono alle Terme Comunali dove vive tanta parte del popolo di Castellammare».
Il 26 luglio di dieci anni dopo, al termine di un’aspra contesa, furono inaugurate le Nuove Terme al Solaro e le miracolose acque furono pompate dalla pianura alla collina. Sono chiuse e vandalizzate da anni. Desolatamente. Il turismo annunciato è un desiderio, il termalismo, finanziato con il welfare, non ha innescato processi virtuosi in una città vieppiù disordinata urbanisticamente e soffocata da un tappeto di auto che neanche a Napoli. E il Centro Antico di Raffaele Viviani, immobile nel tempo, abbandonato e decaduto, ulteriormente ferito dal terremoto del 1980, è un argomento di campagna elettorale.
Incurante del suo storico centro, Castellammare è cresciuta dall’altra parte, verso il Vesuvio. Cemento, naturalmente, che come un magma non ha risparmiato i vantati orti. Abusi a piene mani, e non potevano mancare, nell’area archeologica e sulla collina. Ah, le industrie! Molte chiuse, di altre ci sono tracce in scheletri di edifici cadenti, di alcune non si ha più memoria. Certo c’è il cantiere che è stato difeso fin quando c’è stata una classe operaia come quella estintasi a Bagnoli, e che, tolto il vanto una tantum della portaerei, è ridotto a produrre tronconi di navi da destinare agli stabilimenti settentrionali.
Le Antiche Terme, ristrutturate e chiuse per anni, con qualche parziale riapertura a singhiozzo negli ultimi tempi, erano un gioiello. Con quello stile un po’ neoclassico un po’ liberty che le stazioni termali europee più accorsate hanno gelosamente protetto. Fu demolito il padiglione Moresco e la facciata, che dialogava felicemente con quella del cantiere navale, fu sostituita dall’attuale, a dir poco anonima, imitata dal dirimpettaio sicché il dialogo, ora infelice, continua. Turismo by by. Salvo, grazie al lungomare finalmente risistemato, quello “mordi e fuggi” proveniente dai comuni vicini.
Dal grande terrazzo della Reggia o dalla Madonna della Libera, la città, con molto sforzo, è ancora un soggetto per gouaches. Sembra una quinta teatrale: il Faito, il Castello, il cantiere, il porto, il Centro Antico, la Villa e il lungomare, l’isolotto di Rovigliano, il Vesuvio, il Golfo. Da lontano…
Tanti errori, ma gli errori sono state scelte. Andare in una direzione o in un’altra non è mai senza conseguenze. Annibale Ruccello avrebbe consigliato di ritornare al passato per progettare il futuro, ma è morto precocemente e di lui c’è solo un busto in Villa comunale.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 15 maggio 2020

Castellammare, le ragioni di un declino

Quando ho scritto l’articolo su Castellammare non immaginavo che potesse suscitare un dibattito e per di più così intenso. Non volendo, evidentemente ho toccato dei nervi scoperti anche se il pretesto, e sono sempre felice quando ne trovo, era stata la lettura delle cronache e dell’intervento del sindaco comunista Pasquale Cecchi in una seduta del Consiglio comunale del 1954, quando questi si oppose alla scelta della neonata amministrazione comunale democristiana di realizzare le Nuove Terme sulla collina del Solaro. Una curiosità storica, dunque, tant’è che questo mio scritto è stato ospitato nelle pagine di cultura. Ora ne scrivo non già per trarre conclusioni o dare risposte quanto piuttosto per ricavare da questo animato confronto riflessioni spero utili. 

Al declino di Castellammare tutti hanno tentato di dare una spiegazione. Chi ha ragione? Io, potrei rispondere, ma non lo faccio non solo per pudore ma anche perché in ogni commento ho trovato un pezzo di verità, dalla datazione della svolta verso il peggio alle responsabilità politiche che hanno condizionato la vita amministrativa, dall’assistenzialismo pubblico ai vincoli non sempre necessari all’iniziativa privata, dall’urbanizzazione selvaggia all’asfissiante presenza della camorra. Una verità frammentata che può ritrovare unità nella nostra maestra di vita, la storia, che è tale per le grandi vicende ma anche per una “piccola città” che ha proverbialmente rappresentato un test di valore nazionale.

Castellammare è stata una città fortunata, diciamo “baciata” dalla natura, e qui apro e chiudo l’abusato ma veritiero ritornello. Ma l’hanno reso fortunata anche gli uomini. Per esempio, i Borbone che la tennero ben riguardata con scelte strategiche come il cantiere navale, divenuto simbolo e attrattore straordinario. Anche nelle fasi post-unitaria e della prima abbondante metà del secolo scorso lo Stato in primis le dedicò attenzioni particolari. Quando io frequentavo il liceo il tessuto industriale era ricchissimo. Molto e qualificato il comparto pubblico, come il ricordato cantiere che diede lavoro, assommandovi anche quello delle ditte appaltatrici, a oltre duemila persone, l’Avis, che riparava le carrozze delle Ferrovie dello Stato, la Corderia militare. La presenza privata era di prim’ordine, basti pensare ai Cantieri Metallurgici, alla Calce e Cementi, alla Cirio, la cui ex area è ritornata di moda per faccende poco commendevoli, alle attività artigianali, ai mulini e ai pastifici virtuosamente in gara con quelli delle confinanti Gragnano e Torre Annunziata. Su una popolazione di circa sessantamila abitanti oltre un sesto aveva un’occupazione e un salario sicuro nell’industria. E poi le Terme, vecchie e nuove, che avrebbero dovuto innescare lo sviluppo turistico, ma la loro esistenza, di cui hanno beneficiato più gli affitti delle case private e qualche albergo, è durata il tempo del termalismo sociale, anche questo finanziato e totalmente dallo Stato. 

Perché ricordo schematicamente questi dati arcinoti? Per sottolineare che la peculiarità di Castellammare, della sua storia economica, industriale e soprattutto politica, scaturisce esattamente da questo contesto. Perché la città è stata fortemente connotata dalla presenza di una classe operaia che, mi sia consentita una reminiscenza marxiana, per effetto della sua funzione etica, intrinseca al ruolo di produrre beni necessari alla collettività, ha finito con l’irradiare proprio questa sua moralità nella società. La storia politica stabiese è stata egemonizzata per lungo tempo da questa componente, e non solo quella della sinistra, dove sicuramente è stata più rilevante, ma anche altre aree, come la Dc per quanto partito a vocazione interclassista.

Non sto qui a analizzare perché lo Stato e, con esso, i privati si sono via via ritratti mandando in crisi un equilibrio sociale e, conseguentemente, politico così definito. Dovrei parlare di questione meridionale (si può fare ancora?), della crisi della partecipazione statale nell’industria, delle politiche di indebitamento che hanno prosciugato le casse pubbliche e così via. Mi preme piuttosto tornare a bomba per sottolineare due fatti.

Il primo è che, prosciugandosi il bacino della base operaia, si è ridotto il suo peso politico e di quei militanti e dirigenti politici, ripeto di quasi tutti i partiti, si sono perse le tracce. Il secondo è che la sinistra, che da quella prateria ricavava la sua ragion d’essere, si è un po’ alla volta caratterizzata come una forza di governo che, mentre viveva in ragione dell’eredità di quel patrimonio umano, politico e culturale, aveva le mani libere per agire. Non che siano mancate fasi e iniziative di utilità per la città – ci sono stati anche buoni sindaci e amministrazioni valide -, ma le linee di tendenza generali mi sembrano queste.

In questo scenario si deve ricordare la presenza della camorra. Che c’era anche prima, con codici diversi ma c’era. Quando si indebolisce il cordone “sanitario” pubblico – e qui ognuno può individuare le date che preferisce e suddividerle tra svolte o continuità – la camorra dilaga e da questuante diventa protagonista e onnipotente. Penso, ripescando dalla memoria, alla battaglia, vinta almeno per quella fase, che prima del terremoto del 1980 fu condotta contro le infiltrazioni nelle ditte appaltatrici dell’allora Fincantieri. Si arrivò anche a far esplodere una bomba davanti al Supercinema dove si doveva tenere una manifestazione del Pci proprio contro questo assalto dei delinquenti alla sua fabbrica-simbolo.

In conclusione, torniamo indietro? Non si deve né si può. Siamo in un’altra città, politicamente, socialmente, economicamente, culturalmente, direi antropologicamente. Il passato appartiene alla storia più che alla nostalgia. Dobbiamo, però, sapere che cosa e come eravamo e come siamo ora. Noi, il paese e il mondo. Stiamo parlando di un tempo in cui non c’era il computer e gli immigrati eravamo ancora noi e qualche comunità rom di passaggio. Ma chissà che di quella storia almeno una lezione ci rimanga: senza il lavoro una società è povera. Povera non solo di cose, ma di energia e di moralità. E sarebbe opportuno che di questo si rendano consapevoli i giovani.

Articolo pubblicato l’11 giugno 2020 sul Corriere del Mezzogiorno