Pino Simonelli e la scorza d’arancia sorrentina

Una foto e una poesia scritta a mano. Le ho ritrovate tra le “carte” e i ricordi sono riaffiorati limpidamente e ho rivisto con gli occhi della memoria Pino Simonelli. Di lui quattro anni fa, grazie a Francesco Ruotolo, sono stati raccontati i molteplici interessi della sua breve e ricca esistenza. Era nato il 29 febbraio 1948 e festeggiava il compleanno ogni quattro anni, se ne andò all’età di 38 anni. Aveva tanto da dare ma il tanto che già aveva dato era una promessa di futuro che è mancata alla cultura napoletana. Poeta, uomo di teatro, animatore culturale, giornalista, apparteneva a quella generazione dei tanti straordinari protagonisti dello spettacolo, della letteratura, della cultura che fanno di Napoli un unico nazionale e anche planetario. Pensate, quando a Napoli si mettevamo in scena solo il teatro nazionale e quello in dialetto e Eduardo veniva una volta l’anno, apriva il San Ferdinando per un mese e poi se ne tornava, lui, Pino, insieme a suoi coetanei poi di gran successo, dava Genet, Brecht, Hofmammsthal. Docente, autore di opere antropologiche con Luigi Lombardi Satriani, giovanissimo redattore di “Papè Satán, critico teatrale, militante politico, grande amico degli intellettuali svedesi, è davvero difficile imbrigliarlo in una definizione. Se la malattia, atroce e insopportabile, non ne avesse tarpato per sempre le ali oggi lo avremmo come un grande protagonista della nostra cultura.

Io ho avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo nell’ultima stagione della sua vita, in realtà era lui che frequentava me perché scriveva per “Paese Sera” critiche teatrali, articoli di cultura che mi portava regolarmente sedendosi a lungo davanti alla mia scrivania. Veniva generalmente sul tardi, quando avevo chiuso il giornale, e, quindi restavamo a chiacchierare. Negli ultimi mesi ci faceva compagnia, non desiderata, un altro ospite: la sua malattia di cui erano sempre più visibili le manifestazioni. Me ne parlava a volte come se fosse altra cosa da sé, un modo per conviverci, ma restavo agghiacciato quando di tanto in tanto si abbandonava alla sofferenza angosciosa del dover finire presto i suoi giorni. Una volta non si trattenne e se la prese con l’ingiustizia della vita, della sua vita, non riuscendo a trattenere qualche lacrima e facendomi il regalo di non nasconderla. Nelle ultime settimane diradò il suo pellegrinaggio prima faticosissimo e poi impossibile verso piazzetta Matilde Serao, mi telefonava per annunciarmi l’invio dell’articolo tramite amici. E poche ore prima della sua fine sentii ancora la sua voce. Una grave perdita per il giornale, per Napoli.

Ecco, dunque, questa foto. Bellissima, come lui: gli fu scattata – scrisse con matita sul retro – all’Università di Stoccolma. E questa poesia che mi volle far leggere. Ciao Pino.

 

per André Gide

Nel verziere giardino che sedevi, compagno

d’un oscuro tedesco, mi ritrovo al tuo posto

dominante l’affollata distesa d’un bagno

intento a ricomporre l’incomposto

disegno che hai lasciato ed alla scorza

d’arancia sorrentina, quello stesso

nutrimento terrestre che la forza

alla terra sottrae, quanto più spesso

è stato il desiderio che hai nascosto

d’un frutto più proibito. Il grano è morto

prima che la vendemmia desse il mosto.

Amico Gide, ti è stato di conforto

tradire il tradimento che ai normali

pesava, il condimento più sottile

dei tuoi versi perversi e coloniali?

O è stato poi un tormento questo vile

fuggire da te stesso, questo mito

di schiava libertà? Tento l’appoggio

nell’ardesia, ripiano all’impietrito

sconnesso tondino che è sul poggio

dove diafana andava la tua mano

del segno coniugale ancora priva

e poi ancora irriso di lontano

da Bosie e dall’antica comitiva

che ti vide amoroso. Se condanno

la tua scelta meschina, io t’accuso

di far morire il grano, se mi danno

io stesso giudicandoti, confuso,

cerco un alibi antico, un’indulgenza

nuova per la tradita mia esistenza.

Pino S.

Piano di Sorrento-Villa Arlotta 1974

 

 


Lo stemma dimenticato

di MATTEO COSENZA

In un piccolo paese calabrese c’è il primo stemma marmoreo del Vicereame di Napoli, finora poco studiato e, quindi, praticamente sconosciuto, in cui per l’ultima volta compaiono ancora le Insegne degli Angioini e attraverso il quale si può leggere la storia d’Europa in uno dei suoi passaggi cruciali. Il paese è Seminara, porta d’ingresso tirrenica dell’Aspromonte, ed è stato il teatro di eventi e di battaglie tra francesi e spagnoli che hanno segnato quel secolo. I Francesi ricordano con orgoglio la prima sconfitta che il 28 giugno 1495 inflissero agli Spagnoli con un dipinto “La bataille de Seminara” conservato a Parigi, agli Invalides. La Chiesa in cui si trova questa lastra marmorea larga 63 centimetri e alta un metro e 25 centimetri è quella di Sant’Antonio dei Pignatari.

Ci consente di svelare per la prima volta il mistero Santo Gioffrè, che è nato a pochi metri dalla chiesa che ha contribuito a restaurare; nella piazzetta antistante ha fatto collocare una statua di Leonzio Pilato, seminarese, padre dell’umanesimo, il primo traduttore in latino dell’Iliade e dell’Odissea, a cui ha anche dedicato un libro. Non è finita: lì vicino, su un suo terreno, ha costruito una spettacolare chiesa ortodossa sullo stile della Cattolica di Stilo per ribadire il valore della tolleranza tra le fedi. Medico e amministratore pubblico, è stato commissario all’Asp di Reggio Calabria ma lo hanno destituito non appena ha scoperto e denunciato che venivano pagate due e anche tre volte le stesse fatture per diversi milioni di euro. Ma, e veniamo a ciò che ci interessa, soprattutto è l’autore di romanzi storici tra cui “Artemisia Sanchez”, da cui è stata tratta la fiction tv, e “Il Gran Capitán e il mistero della Madonna Nera”.

«Io leggo le “pietre parlanti di Seminara”», mi dice e dopo avermi fatto sedere su una panca inizia a descrivere e decriptare tutti i simboli presenti in quella lastra posta su un lato della navata: «Io me la ricordo sempre qui ma sicuramente, almeno fino al devastante terremoto del 5 febbraio 1783, doveva trovarsi nella chiesa di Santa Maria dei Miracoli. Senza dubbio lo Scudo di Seminara è il più importante documento storico, inciso su marmo, esistente in Italia Meridionale del primo decennio del 1500».

Un’affermazione impegnativa?

«Documentata perché l’Arma lì incisa, che parla dei Re cattolici di Spagna e, quindi, della conquista del Regno di Napoli, ci svela le storie intricate e tragiche delle grandi casate regali d’Europa. Lo Stemma di Seminara vide sicuramente la luce dopo il 2 gennaio del 1492, vale a dire dopo la Riconquista che segnò la fine del dominio musulmano sulla Spagna perché nel triangolo inferiore vi è inciso il Melograno, simbolo della città di Granada. E, per la presenza per l’ultima volta delle Armi angioine, ci troviamo nell’Italia Meridionale, nei primi anni del Vicereame proclamato dopo l’annessione del Regno degli Aragona di Napoli alla Corona di Spagna nel 1504».

Su wikipedia ho letto che in questa chiesa si trova lo stemma di Carlo V, non si aggiunge altro. Dunque?

«Carlo V, a cui disinvoltamente è attribuito lo stemma, non c’entra. Per due segni evidenti. Nei suoi stemmi due elementi erano sempre presenti: l’aquila bicefala e in basso il montone, simbolo del Toson d’Oro, l’ordine cavalleresco di cui fu gran maestro. Come si vede dallo stemma di cui parliamo, l’aquila ha una sola testa e in basso non c’è il montone».

E che cosa rappresenta?

«Questo è, anzi era il mistero. Era il simbolo amatissimo da Ferdinando d’Aragona, il Cattolico: l’Aquila di San Giovanni che ammanta, in segno di protettorato, lo stemma. Ferdinando, dopo l’improvvisa morte (25 settembre 1506) di suo genero Filippo il Bello, figlio dell’imperatore Massimiliano d’Austria, si liberò dall’incubo della guerra civile che stava per scoppiare in Spagna, estromettendo, per presunta pazzia, la figlia Giovanna, regina di Castiglia e Leon e madre di Carlo V, e dichiarandosi lui protettore del Regno di Spagna. Ciò consente di stabilire con una certa precisione che lo stemma abbia visto la luce tra la fine di dicembre 1506 e il gennaio 1507».

Perché ci sono ancora le Armi angioine?

«Per l’esaltata superbia che pervade i conquistatori. Sono i simboli della cacciata della dinastia dei d’Angiò»,

Per quale motivo Ferdinando volle posare questo stemma a Seminara?

«Qui entra in scena il Gran Capitán Gonsalo Fernandez da Cordoba y Aquilar, il più grande generale spagnolo, con il quale Ferdinando il Cattolico fu sempre in conflitto anche se mai consumato platealmente. Gonzalo, protetto da Isabella di Castiglia, dopo aver conquistato Napoli e fondato il Vicereame nel 1504, disapprovò e si oppose alla politica oscurantista ed intollerante di Ferdinando il Cattolico con decisioni inequivocabili come quando cacciò gli Inquisitori da Napoli, mandati dallo stesso Re, proteggendo gli ebrei che fuggivano dalla Spagna».

Lei descrive dettagliatamente nel suo libro una pagina amara della sua vita.

«Sì, la ferita più dolorosa al suo prestigio, subita con la sconfitta militare nella “prima battaglia” di Seminara del 28 giugno del 1495. Lui vide massacrati dai francesi i suoi tremila Veterani, che avevano combattuto con lui e preso Granada e che aveva portato dalla Spagna in aiuto di Ferdinando II detto Ferrandino, assalito dalle armate francesi. Gonzalo stesso si salvò dopo un’odissea tra le paludose e malariche foci del fiume Petrace, accolto e protetto poi da una donna di Seminara che gli aprì tutte le porte, e che è la materia del romanzo in cui lui stesso si racconta e racconta».

Come entra in scena Ferdinando il Cattolico?

«Quando arrivò a Napoli con l’intento di destituire il Gran Capitán e di farlo rientrare in patria per punirlo per essersi rifiutato di schierarsi dalla sua parte nell’imminente guerra civile con Filippo il Bello, Ferdinando sospettò il tradimento. Infatti si era convinto che Gonzalo volesse farsi, lui, Re di Napoli con il favore di Giovanna e del marito Filippo il Bello. Il vecchio e irascibile Ferdinando il Cattolico destituì il Gran Capitán e avrebbe voluto consumare altre e più tremende vendette, ma, temendo il prestigio che questi godeva presso l’esercito e il popolo napoletano, si limitò a servirsi di loschi personaggi che lo accusarono di malversazioni dei fondi di guerra. Accuse da Gonzalo ridicolizzate con le famose “Cuenta del Gran Capitán” che in Spagna è rimasto un modo popolare di dire per indicare un’esagerazione oppure un’accusa falsa».

E lo stemma a Seminara?

«Perché questo era il luogo dove il più grande Generale spagnolo aveva subito l’unica, rovinosa sconfitta della sua vita, ma, anche, dove un suo Generale fedelissimo, Fernando de Andrade, il 21 aprile del 1503, sempre tra le rive del Petrace, aveva annientato le Armate Francesi, pronte a portare aiuto al Gran Maresciallo di Francia, cugino amatissimo di Luigi XII, Il Duca D’Armagnac, che, da nove mesi, teneva sotto assedio a Barletta il Gran Capitán. Ferdinando volle dire, così, al Regno e all’Europa, che senza la vittoria di Fernando de Andrade non vi sarebbe stata la Battaglia di Cerignola, ove, appena una settimana dopo i fatti di Seminara, il 28 aprile del 1503, trionfò il genio militare di Gonzalo che annientò i francesi privi dei fondamentali rinforzi che dovevano giungere dall’estrema punta della Calabria Inferiore».

Una vendetta sul filo della perfidia.

«Ferdinando il Cattolico, discendente dei Bastardi Trastamera di Castiglia, intese sottolineare che, forse, immeritato fu l’inizio della gloria del Gran Capitán e che l’altezzosa superbia dei re non può mai essere messa in discussione da comuni mortali. Tutto si svolse a Seminara».

Intervista pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno il 27 ottobre 2020

 

LA LEGENDA/ I significati dei numeri

Testo per 1 e 4

L’Arma dei Trastamera di Castiglia e Leon sul cui Trono, fino al novembre del 1504, sedette Isabella di Castiglia, moglie di Ferdinando il Cattolico. Isabella era già morta quando lo stemma fu inciso perché, negli stemmi della Corona di Spagna con Isabella viva, tra gli artigli dell’aquila c’era la scritta “Tanto Monta” (fa lo stesso), allusivo all’eguaglianza, nella gestione del potere, che intercorreva tra i due sovrani cattolicissimi.

Testo per 2 e 3

L’Arma del Regno di Sicilia del primo periodo Aragonese (1282-1410), con i Pali della Casa di Barcellona e l’Aquila degli Hohenstaufen (Svevi) dei quali gli Aragona furono gli eredi. Infatti, il Regno di Sicilia passò agli Aragona quando Pietro III sconfisse gli Angioini dopo aver sposato, nel 1262, Costanza di Hoenstaufen, figlia di Manfredi a sua volta figlio illegittimo ed erede di Federico II (si dice che ne fu anche il carnefice).

Testo per 5, 6 e 7

I simboli angioini. La Croce di Gerusalemme, Tappeto di Gigli di Francia e l’Arma d’Ungheria, casata a cui apparteneva l’ultima regina angioina, Giovanna II.

Testo per 8

Il melograno, simbolo della città di Granada.

Testo per 9

L’Aquila di San Giovanni (con una sola testa), simbolo amatissimo di Ferdinando il Cattolico.

Testo per 10

La corona

Testo per 11

Le Frecce. Stanno per Ferdinando.

Testo per 12

Un ramo di Yunco, dove per Y si intende Ysabel.

Pino Amato, il dc dallo sguardo lungo

Ha ragione Arnaldo Amato a ricordare la seconda condanna caduta sul capo dei familiari delle vittime del terrorismo, dopo quella della perdita insanabile di un padre, di un fratello, di un marito: l’oblio. O, peggio ancora, il dover assistere all’esibizione, spesso guardata benevolmente da chi la promuove, degli assassini che, talvolta sorridendo, raccontano le loro gesta senza mostrare non dico pentimento ma almeno un po’ di pietà per i morti. A questa infamia se ne aggiunge infine un’altra non meno dolorosa: la scomparsa dalla memoria collettiva dei caduti, come dire?, di serie B. Chi volete che possa occuparsi dopo tanti anni di Raffaele Delcogliano o di Pino Amato, due assessori regionali uccisi perché facevano bene, troppo bene il loro lavoro. Il primo stava operando con intelligenza nella delicata materia del lavoro, il secondo aveva colto il nodo cruciale della crisi strutturale della Regione. E di quest’ultimo, stimolato dalla bella lettera del figlio al direttore pubblicata domenica, voglio parlare.

Pino Amato fu la grande sorpresa della Regione. Quando morì erano trascorsi appena dieci anni di vita della nuova istituzione. La sua nascita era stata accompagnata da grandi speranze, la gente l’aveva colta come un’occasione di sviluppo reale, la possibilità di rimettere insieme “osso” e “polpa”, di ricucire il rapporto, mai saldo, tra zone interne e la costa, Napoli soprattutto. Lo Statuto suggellò questo cammino. Poi la delusione, ci si accorse che a Santa Lucia avevano preso il sopravvento la brutta politica e le vecchie pratiche.

Amato, direttore amministrativo del Formez, fu consigliere comunale di Napoli fino al 1975 quando venne eletto alla Regione diventando nel 1978 assessore all’agricoltura e l’anno dopo al bilancio e programmazione economica. Con Paolo Cirino Pomicino e Enzo Scotti era uno dei tre esponenti della corrente andreottiana della Dc, particolarmente attiva in quegli anni con il gruppo “Nuova Napoli” contro la corrazzata dorotea dei Gava. Anche per questo noi giornalisti di sinistra li seguivamo con particolare attenzione: ci davano sempre materia per scrivere.

Si diceva che il vero organizzatore del gruppo fosse Amato, essendo nota l’effervescenza di Pomicino e il volare alto di Scotti, tanto alto da sganciarsi negli anni a venire dal “Divo”. Amato emerse con tutto il suo spessore da assessore regionale all’agricoltura quando produsse atti rilevanti, come è documentato dal volume che raccoglie i suoi scritti, i due documenti sull’agricoltura e le relazioni al bilancio che gli valsero la condanna a morte da parte delle Brigate Rosse.

«La Regione è bloccata da un “circolo vizioso”». Nelle relaziono al bilancio di previsione del 1980 e del bilancio programmatico 1980-1982 affondò il bisturi nel cancro. Uscite correnti esorbitanti, attorno al 70 per cento, si combinavano con l’incapacità di spesa e la formazione di residui passivi nell’ordine delle migliaia di miliardi. In secondo luogo, anche per effetto del trasferimento di gran parte del personale da Comuni, Province e altri enti locali, la Regione si era strutturata su un modello organizzativo che rifletteva i difetti degli enti di provenienza. Il risultato finale era quello di una sostanziale impossibilità di pianificare, legiferare e spendere, mentre cresceva a dismisura la funzione amministrativa, indirizzata per lo più a deliberare sulla gestione della spesa corrente, cosicché la Regione, diventando di fatto un mega-municipio, veniva meno ai suoi compiti statutari.

Le Br, molto attente a colpire i “cervelli” migliori del sistema, leggevano i suoi documenti, così come facevamo in alcuni giornali. Ero in quel periodo il responsabile dell’edizione notte di Paese Sera e seguivo anche l’attività della Regione e in particolare di Amato anche per le sue aperture al Pci. Il 17 maggio 1980, era sabato, ospitai lui e il professore Alfonso Di Maio, consigliere regionale del Pci per un “faccia a faccia” sul bilancio. Un denso confronto nella redazione di piazzetta Matilde Serao a quell’ora deserta. Poi li accompagnai alla porta, ma quel percorso di qualche decina di metri durò un’eternità. Amato parlava, si fermava, si mostrava stranamente preoccupato, io e Di Maio ogni tanto ci guardavamo un po’ meravigliati, infine restammo davanti all’ascensore del terzo piano per un tempo lunghissimo, sembrava che non volesse andarsene e stesse per dirci qualcosa. Dopo una mezz’ora mi telefonò Di Maio per commentare quel comportamento, ma non sapemmo spiegarcelo. Il giorno dopo pubblicai il resoconto di quell’incontro.

Nel primo mattino di lunedì 19, una giornata di sole, mi ero affacciato quando sentii il suono di sirene spiegate. Da piazza Plebiscito sbucarono alcune auto. Le vidi sfrecciare davanti al San Carlo, su una intravidi un corpo accasciato sul sedile posteriore. Era quello di Pino Amato, che dopo poco sarebbe stato adagiato sul marmo dell’obitorio del Pellegrini. Scrissi un articolo per il giornale che dopo poche ore era in edicola e raccontai anche quello strano commiato di due giorni prima. Nei giorni seguenti Scotti, Pomicino, Enzo Giustino, tra gli altri, vollero incontrarmi per sapere di più di quella preoccupazione che Amato aveva trasmesso a me e a Di Maio. Fui anche a casa della vedova, Mariolina, a Palazzo Cellammare. Di Maio lo sentii per telefono. Addolorati per non aver capito che cosa voleva dirci e che non gli avevamo sollecitato a dire, ci dicemmo che mentre noi eravamo con lui, nelle stesse ore alcuni giovani con il fumo in testa e le pistole in tasca stavano studiando gli ultimi dettagli dell’agguato in vico Alabardieri. Oggi sono molto ascoltati, mentre l’oblio è calato sulla vittima: una persona di valore, limpida, impegnata, una risorsa di questa terra dalla memoria spesso corta.  

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 22 maggio 2018

Un clima sempre più pesante

Queste mogli di calciatori che decidono di scappare da Napoli sanno di già visto, di un vecchio e abusato copione che si ripete e che inquieta inevitabilmente anche chi della squadra di calcio, da cui le annunciate partenze avrebbero origine, non si interessa granché. Chissà se davvero ci sia una mano precisa dietro le disavventure capitate nel momento meno opportuno ad alcuni calciatori del Napoli, alle loro famiglie e alle loro cose. Ce lo diranno le inchieste e come al solito le attendiamo. Ma per dire del clima pesante, non nuovo, che si respira intorno alla squadra, non c’è bisogno di aspettare, perché, anche se non ci fosse, come ci auguriamo, una regia unica dietro gli episodi, il fatto stesso che la si sospetti non nasce dai cavolfiori ma dalla cronaca della città, compresa quella che è ormai storia.

Il copione, dicevo. Vale a dire la commistione inevitabile tra corso sportivo della squadra e cronaca non calcistica se non nera, tra campo di gioco e città. Una commistione che addolora la platea vasta e irriducibile dei tifosi, di quelli che con orgoglio e senza arrossire si dicono “malati” del ciuccio, e che dovrebbe essere risparmiata a un pubblico così fedele e invidiato in Italia e in mezzo mondo. Ma Napoli è così, divisa tra momenti sublimi e capacità masochistica di sporcarli, perché essa è quel caleidoscopio di realtà diverse, alcune repellenti, tenute insieme da un collante fatto di tolleranza, di lasciar correre, di perdono e sopportazione, di assuefazione, che alla fine diventa esso stesso, proprio quel collante, complicità, quasi uno dei caratteri peculiari della città se non il fondamentale.

Non sto a ripetere quanto si legge e sente da giorni sulla rivolta dei giocatori, sulle partenze minacciate, temute o desiderate, sull’allenatore in bilico insieme al figlio, sul presidente che invece di un manager affida anche lui, come nei migliori feudi, la gestione al figlio, sugli schemi di gioco, sulle formazioni troppo mutevoli in campo, sulle congiure di arbitri e var, anche perché ne capisco poco e non mi avventuro in giudizi, piuttosto è proprio quella fuga, quel clima, quel copione a sollecitare domande non nuove e anche un paragone non rassicurante.

Certo, nella sua storia il Napoli ha visto arrivare fior fiore di giocatori da tutto il mondo, anche i migliori in assoluto, ma quante volte non è stato possibile convincere calciatori di valore a venire stabilmente al San Paolo? Di alcuni si è saputo, ma probabilmente ce ne son altri di cui non si è avuta neanche notizia. Non sarà l’unico motivo, trattandosi di trattative in cui prima che il cuore spesso se non sempre contano i quattrini, ma sicuramente ha pesato più di una volta il clima, sono prevalsi i timori per le brutte faccende di questi giorni che in un baleno fanno dimenticare l’inebriante applauso dei tifosi e la bellezza folgorante di Napoli. E come non pensare, passando ad altro campo, a chi rinuncia a investire non solo nel nostro territorio ma in tanta parte del Sud, a chi vuole intraprendere un’attività imprenditoriale o commerciale e si ritrova a che fare con i delinquenti più o meno organizzati, e, se può, si ritrae dall’impresa e scappa, o subisce e paga.

Da napoletano, tifoso o meno non fa differenza, ma anche, come l’esempio appena ricordato che amplia l’orizzonte, da meridionale mi interrogherei su questo cancro che corrode e soffoca le nostre terre, e su come, Stato e cittadini insieme, ce se ne possa finalmente liberare per vivere meglio, per coltivare i nostri interessi, anche la passione per undici giovanotti in mutande che possono far sognare ma anche arrabbiare. Dovrebbe essere il calcio, bellezza. Sportivamente parlando. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 13 novembre 2019

 

Una città senza futuro

D’accordo, maledetta napoletanità! L’invettiva di Gigi di Fiore riassume un sentimento ricorrente e rinverdito all’infinito. E ritorna il tema del restare o andarsene, al quale si acconcia opportunisticamente anche chi solo per lavoro se ne allontana. Poi c’è Pino Daniele, emblema di Napoli e in conflitto con essa perfino nella scelta della tomba. Bene, parliamone ma dobbiamo sapere che lo si fa da sempre e senza risultati tangibili sul nostro modo di essere, sulle condizioni della città, sulla sua vivibilità, sulla sua incerta modernità. Piuttosto chiediamoci altro.

Vedete, questa vicenda per molti versi allucinante della Tangenziale ci dice molto di più dei disagi che poi metabolizzeremo come i tanti a cui abbiamo fatto il callo. Ci racconta una città ferma, bloccata o sul punto di esserlo a ogni alito di vento contrario. Direte, ma c’è la metropolitana delle meraviglie, il museo a cielo coperto e anche scoperto come, strabiliati, vedremo tra un po’ ai Quattro Palazzi. Salvo a imprecare per i treni che mancano, per gli allagamenti inconcepibili, per i guasti continui, per le corse saltate, per i vagoni strapieni. E, dopo quasi mezzo secolo, aspettiamo ancora che sempre un treno della metropolitana, come avviene in tutte le città d’Italia e del mondo che ne abbiano una, conduca noi e i benedetti turisti all’aeroporto. Di un’altra linea, la famigerata ex Ltr, non si vede ancora la luce sebbene la sua turbolenta realizzazione abbia attraversato quasi mezzo secolo e e rischi di fare altrettanto con l’attuale. Stop, però, a questa scontata litania, alla lamentazione che non modifica di un millimetro lo stato delle cose e che anche il sottoscritto fa quasi con un “copia e incolla” di cose già scritte e riscritte. Piuttosto focalizziamo un altro punto.

Sono andato a rivedere qualche giornale del secolo scorso, compreso qualcuno a cui diedi un po’ di me, ho ripreso in mano opuscoli e libri di un tempo che ormai sembra preistorico, per confrontare l’oggi con l’ieri non solo per capire come eravamo ma anche per cercare, se c’era e se c’è, la direzione di marcia che seguiamo ai nostri giorni. Dico subito, onde evitare che mi venga mossa l’obiezione, che scandali e corruzione non mancavano, e che le “mani sulla città” non erano solo il titolo di un film straordinario, ma non posso non constatare che da trent’anni Napoli non ha progettato quasi più niente. Le grandi opere, a partire dalla nostra dolente Tangenziale che la Dc volle e il Pci osteggiò, sono quelle che il trascorrere del tempo ha reso insufficienti. La mente visionaria di un Luigi Buccico, che in Valenzi trovò il complice della “banda del buco” e che disegnò la linea 1 della Metropolitana, sembra appartenere a un altro mondo. E che dire del Centro Direzionale, che ha mutato anche lo skyline della città e che volle Servidio con il quale si confrontarono Andrea Geremicca e tanti politici-intellettuali di quel tempo! Ma pensate anche, volendoci allontanare dal centro, a quale inferno, che a tratti pure c’è, nella viabilità attorno al capoluogo se non si fosse concepito e realizzato l’asse mediano. Ci metto dentro, scusate la provocazione, la battaglia per ammodernare l’Italsider di Bagnoli, purtroppo diventata vecchia nel momento in cui era diventata un gioiello, al cui posto oggi c’è un deserto che inchioda le attuali classi cosiddette dirigenti alle loro responsabilità. Sto anche sfogliando i volumi che raccolsero il dibattito e le proposte del tanto contestato “Regno del Possibile”, di cui si può dire tutto il male possibile e ricordarne la controversa accoglienza ma di cui non si può riconoscere la ricchezza di soluzioni per il futuro della città a partire dal centro storico e per finire alla sua viabilità. Ne ricordo una che in questi giorni mi sembra di una stringente attualità: una strada sotterranea da via Acton fino al Consolato americano che, come avviene nelle grandi e moderne città del mondo da decenni, avrebbe consentito di liberare, e per davvero, la linea litoranea di Napoli dalle auto e creato, con gli opportuni raccordi, un collegamento funzionale e alternativo alla Tangenziale.

Progetti. Tanti. Condivisibili o no. In ogni caso idee sul futuro di Napoli. Ditemi oggi quali sono i progetti per la nostra città del domani se non il faticoso e a tratti scandalosamente lungo completamento di opere progettate e avviate tanti anni fa. Bene il richiamo costante alla cultura, al nostro inestimabile patrimonio materiale e immateriale, alla manutenzione ordinaria che migliorerebbe la nostra quotidianità; vada pure avanti il dibattito sulla napoletanità, sempre fecondo di parole e non di fatti; si esaltino lo sbarco di folle di turisti a caccia di esotismo e il proliferare di friggitorie che sostituiscono negozi prestigiosi che un tempo facevano accorrere acquirenti competenti da ogni angolo del Mezzogiorno: ma poi? Il fatto è che una città che non ha progetti e non ha sogni se non il primato della sua squadra di calcio, è come il paese che non fa più figli. Non crede nel futuro e se ne sta, silente e paziente, in coda su una strada. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 29 ottobre 2019

 

Rompiscatole

Ha un senso raccontare la città, magari denunciandone anche le magagne, partendo dal generale e sfiorando qualche volta il particolare per lo più genericamente. È difficile il contrario. Ed è quello che fa Francesco Emilio Borrelli, un rompiscatole di professione. Il quale è anche consigliere regionale dei Verdi ma soprattutto un napoletano che denuncia e documenta, mettendoci faccia e corpo, aspetti precisi della difficile condizione quotidiana dei suoi concittadini. Prende spesso ceffoni, è sempre indolenzito da pugni, deve guardarsi attorno e dietro quando cammina per le strade. Lo fa per farsi propaganda? Boh! Intanto lo fa.

Tra le tante, la sua più ricorrente testimonianza riguarda i soprusi che, sotto gli occhi di tutti, un cittadino deve subire come pedone e automobilista: la sosta selvaggia e, annessa e connessa, la camorria dei parcheggiatori abusivi. L’altro giorno ha detto di essere stato aggredito davanti al Teatro delle Palme da uno che sosteneva di avere tra i suoi clienti anche un magistrato. Millanteria? Chissà. Ma a suo modo ci rammenta che viviamo in una città nella quale da un capo all’altro, dalle strade dei benestanti a quelle popolari, la casistica delle violazioni e degli abusi, anche delle prepotenze, è sterminata. Non serve andare a Taverna del Ferro, dove forse c’è qualche regola in più, basta recarsi a viale Maria Cristina di Savoia o, volendo, al salotto di piazza dei Martiri. La buona borghesia, piccola e media, non so la grande (a trovarla), si è da tempo adeguata al modello egemone che si fonda sul predominio degli interessi particolari in una città sempre più consegnata da chi amministra, soprattutto negli ultimi anni, all’anarchia. E allora un cittadino che denuncia, fisicamente, questi modi partendo da terra-terra, per quanto possa apparire anacronistico, può risultare provvidenziale.

Cambiando panorama e stile, eccoci dalle parti di piazza Vanvitelli, di via Tino di Camaino, di piazza Medaglie d’Oro. Qui opera da decenni – l’età non è quella di Borrelli – un altro rompiscatole di mestiere. Di professione è ingegnere ma Gennaro Capodanno è noto soprattutto per la sua attività pubblica, di segnalazione, di denuncia, di proposta. Ogni giorno, non ne salta uno. La materia è sterminata, in certi casi anche non condivisa da chi scrive come la campagna per spostare l’opera di Tatafiore da via Scarlatti. L’ultima: l’orologio guasto e un globo mancante dei tre del palo della luce di piazza Vanvitelli. Piccoli preziosi dettagli ma anche iniziative su temi cruciali di vivibilità del quartiere. Una miniera per gli organi di informazione per quanto la costante valanga di segnalazioni possa a volte risultare fastidiosa.

Servirebbe molto spazio per dare conto dei non pochi rompiscatole napoletani, anche di chi, come qualche giovane di belle speranze che andava piantando alberi e che si è un po’ perso per strada. Vale la pena, però, ricordarne due scomparsi da qualche anno. 

Uno aveva inventato – per anni era solo lui – un’associazione per difendere il trasporto pubblico: Alfredo Capasso. La sua costante produzione di comunicati e di attività su tutti gli aspetti della mobilità urbana che veniva recepita dai giornali senza difficoltà anche per la gentilezza del loro autore, alla lunga lo fece diventare un personaggio noto e, soprattutto, utile alla città. L’altro era un rompiscatole sui generis e forse qui viene ripescato dalla memoria perché è stato un napoletano che, con la sua umiltà, ha scritto una bella pagina di umanità e cultura: Beniamino Pontillo. Viveva al Dormitorio Pubblico di via De Blasis. Leggeva i giornali (e per questo gli dobbiamo imperitura riconoscenza) e scriveva lettere sulla sua città ma anche su altro trovando ospitalità in tutta la stampa nazionale. A volte poteva risultare fastidioso («C’è un’altra lettera di Pontillo» si sentiva spesso nelle redazioni), ma nel tempo era diventato una persona, se si può dire, di famiglia. 

Servono i rompiscatole? Per quanto pochi, a ben riflettere sono spesso e sempre più la prova di un’assenza o di una debole presenza, sicuramente quella dei partiti, delle associazioni, dei comitati, delle strutture organizzate. Ci si infiamma per un quadro, per quanto prezioso, da spostare e si tace sulla qualità della vita della città, si accetta supini che anche il professionista possa portare il cane a defecare in via dei Mille vistosamente senza busta e paletta, che si parcheggi di lungo uno scooter per riservarsi il posto per l’auto in una strada accorsata alla stessa maniera del commerciante che un po’ dappertutto mette la sedia o un cassetto vuoto della frutta ritenendo suo quello spazio, o che si piazzi la propria vettura in seconda fila anche se è libero il posto nelle strisce blu perché in queste puoi beccarti la multa e in quelle al massimo puoi trovarti la portiera rigata. E via elencando le mille facce della quotidianità dando per scontati gli aspetti ben più gravi ma in linea con tutto il resto che Borrelli mette alla berlina quasi ogni giorno.

Ci salva (la coscienza, soprattutto) l’arguzia che ci consente di chiudere con una battuta sugli altri quasi noi fossimo di un altro pianeta. E ha ragione Aldo Masullo quando ci dice che ci manca l’ironia che è la capacità di mettere in discussione gli altri facendolo automaticamente con sé stessi e, quindi, agendo di conseguenza nei propri comportamenti. Sarebbe curioso chiedere a Cuoco se oggi scriverebbe ancora dei due gradi che separano la città, la parte alta da quella bassa, la nobiltà dalla plebe, la borghesia dalle masse o, come si dice ai nostri giorni, l’élite dal popolo. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 6 aprile 2019

Napoletanità

Un balzo indietro di quarantadue anni. L’ho fatto leggendo di questo saggio di Raffaele La Capria su Napoli e l’articolo “coraggioso” di Antonio Polito nella sua rubrica domenicale. Un tuffo nel passato e anche l’amara sensazione che il tempo scorra invano in questa nostra città.

Era il 1976 quando Antonio Ghirelli pubblicò per la Società Editrice Napoletana un “saggio-inchiesta” dal titolo inequivocabile: “la Napoletanità”. Era, quel libro di dimensioni non ordinarie e corredato da un servizio fotografico di Luciano D’Alessandro, lo sviluppo del capitolo conclusivo della sua “Storia di Napoli”, nel quale Ghirelli si chiedeva: «Si può parlare di napoletanità in un senso analogo, anche se su un piano assai più modesto, di quanto si fa per l’hispanidad? In altre parole, esiste o almeno è esistito un patrimonio culturale della nazione napoletana, una civiltà napoletana?». Confortato da un mosaico di scritti – venti firme napoletane della cultura e un testo memorabile di Pasolini sui “napoletani che sono una tribù che ha deciso di estinguersi” pur di non cambiare – scendeva di nuovo in campo per confutare due stroncature che lo avevano ferito: quelle di Gerardo Chiaromonte su “l’Unità” e di Paolo Ricci su “Rinascita”, in altre parole la bocciatura del Pci che a quel tempo contava non poco. Ricci gli aveva rimproverato di aver ignorato il fatto più rilevante intervenuto a Napoli nel dopoguerra vale a dire «la nascita e l’affermazione di grossi nuclei operai nella città e nelle province, i quali, con la loro presenza, hanno cambiato i rapporti di forza nell’interno della società meridionale operando un’azione traumatizzante soprattutto nei riguardi della plebe». Chiaromonte aveva definito «concetto ambiguo» quello della napoletanità respingendo in toto l’idea della nazione napoletana: «Napoli non è una nazione; ne mancano – ma ne mancavano anche quando era capitale di un regno – alcuni presupposti e condizioni essenziali… l’Italia è un’unica nazione in cui domina un unico sistema economico-sociale… la questione meridionale è la più stridente contraddizione della nazione italiana: ed è solo nell’ambito della nazione italiana (e in alleanza con la classe operaia e i lavoratori del Nord) che può svilupparsi una lotta positiva e vittoriosa delle popolazioni meridionali, che vogliono far sentire, con forza maggiore, la voce di questa o quella città, di questa o quella regione del Mezzogiorno».

Ghirelli chiamò a raccolta autorevoli testimoni, che chi scrive liquidò, un po’ con l’accetta, su “la Voce della Campania” come gli “esperti di napoletanità” guadagnandosi un articolo con reprimenda da parte di Domenico Rea.  In effetti, pur senza confutare le critiche alla “sua” nazione napoletana, incassò il colpo riconoscendo con un finale riparatore in risposta alle osservazioni del sindaco Valenzi, che «il solo modo di spogliarsi da ogni nostalgia e ogni retorica, per considerare quanto vi è di positivo nella tradizione napoletana, sia nel costruire per Napoli un “volto nuovo”». Perché, aggiungeva, «la salvezza della nostra città e della nostra patria può venirci soltanto da un movimento dei lavoratori che sia capace di egemonizzare la nostra democrazia senza schiacciarla». A seguire la foto di tre operai della Sebn: «Queste rughe, questi occhi severi e malinconici, queste labbra serrate come in un’incrollabile testimonianza». Testimonianza sì, ma di un mondo che non c’è più.

Dunque, pur con tutti cambiamenti intervenuti, stiamo a ruotare sempre attorno allo stesso tema, inchiodati sadicamente o masochisticamente a un’idea identitaria che, ritornando a Pasolini, ci fa sembrare una tribù, quasi una riserva indiana indisponibile all’integrazione e all’omologazione. Sarà forse perché, come sostiene Paolo Macry nel suo ultimo libro, Napoli è una “metropoli intelligente”, affermazione che fa ritornare alla memoria la tesi di Percy Allum che, quasi mezzo secolo fa, sosteneva che la città era più forte di altre metropoli italiane e più capace di affrontare e metabolizzare la crisi – ce n’era una anche allora – proprio perché perennemente in crisi. Altri parlerebbero di arte di adattarsi e di arrangiarsi. 

Se posso permettermi, io direi che è una città paziente, capace di sopportare la sregolatezza individuale che alimenta l’invivibilità collettiva, l’approssimazione delle classi dirigenti e degli amministratori, lo scarto tra le élite colte e moderne e il popolo, l’illegalità diffusa dal piccolo abuso alle truffe in grande stile, lo sberleffo e, volendo rubare un attributo caro a al governatore De Luca, il pulcinellismo. E chissà che non sia questa sua geniale pazienza la corda che mentre la soffoca al tempo stesso non la fa precipitare e la salva. Piuttosto viene da chiedersi se a queste condizioni ci sia un futuro degno di essere vissuto e addirittura se ci sia un futuro per i giovani, poi si guarda all’Italia di oggi e ci si accorge che tutto sommato non stiamo messi così male. Quasi quasi è il caso di accontentarsi. O no?           

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 19 ottobre 2018

Dizionario dei giorni «sospesi»

BALCONE Quello di piazza Venezia? Quello di Rosina? Il sovrano? O il celeste? Quello dell’anima? O quello d’Oriente? E perché non quello in ferro e panciuto? Largo all’immaginazione. Ma poi ci affacciamo al balcone, se ce l’abbiamo, e se non è un balconcino lo trasformiamo anche in un parco giochi per i figli. In fuga condizionata dal mondo virtuale di dentro verso quello reale di fuori, grande o piccolo, luminoso o meno che sia. E cantiamo e suoniamo, un po’ sempre meno dei primi giorni. Stare al balcone può anche non significare fare gli spettatori e non partecipare. 

CONTAGIO Ma che colpa ho io se così mi chiamo? Sono un sostantivo innocente, ma date a me la responsabilità di farvi ammalare, soffrire, morire, incenerire senza un saluto e una preghiera e sotterrare finanche in fosse comuni. Vi prego, aggiungete un aggettivo, una specificazione, per distinguere tra il contagio infettivo e il dannunziano “contagio dell’ardore e della generosità”, tra il contagio della pestilenza e il “contagio delle nuove opinioni” di Cuoco. Io posso trasmettere anche affetto, amore e cultura. Vi imploro, per carità: rispolverate un sostantivo desueto e dotto come la contagione che implicava l’infezione. Renderete un po’ più lieve la mia pena.

DISTANZA Geometrica o sociale? Più facile la prima anche per uno a digiuno di rette, punti, curve e taxi (per misurare servono anche questi). La seconda comporta almeno tre variabili: il luogo, le persone, il terzo incomodo. Quest’ultimo si sa è un invisibile viaggiatore il cui raggio d’azione e velocità ci è ignoto. Il luogo non aiuta perché tra lo stare in una strada o in un ascensore ne corre. Ah, poi ci siamo noi. Potendo bardati, ma non sempre. Meglio affidarsi alla geometria.

ECCELLENZA Stupore, meraviglia, incredulità. Maccaroni siamo e tali, noi napoletani, siamo condannati a restare, anche per molti conterranei altrove collocati. Un ospedale, il Cotugno, è un’eccellenza? Una stranezza, perché, a dirla con Corrado Alvaro, “un popolo come quello napoletano… passa per disordinato e tumultuoso per eccellenza”. Ma quella che faticano a scipparci è “l’eccellenza della pietà” (Torquato Tasso).

EROI Troppo facile. Bertolt Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Onore ai medici, agli infermieri e a tutti quelli che sono eroi perché non siamo un popolo beato.

FAME Ristoranti, pizzerie, friggitorie e pasticcerie chiuse, fila alle mense dei poveri. Nei primi si asseconda il palato, nelle seconde lo stomaco. In comune hanno il cibo, che, negli incubi ormai non solo notturni, fa temere che possano patire la fame gli utenti delle due tavole. La fame, lo spettro che da sempre si aggira nel mondo, da bisogno primordiale a dramma dei popoli. E ancora una volta il rimedio non saranno le brioches ma il pane. 

FASE Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, dove siete? Un due tre, non ci raccapezziamo più. Siamo un motore non in fase, ancora non fuori fase, chissà quando e se in fase. A chi affidarci? Non a Ugo e Raimondo che giocavano, divertendoci, con i numeri e non con le fasi, piuttosto all’uomo dei campi di leopardiana memoria che per allontanare le disgrazie si regolava “colle diverse fasi della luna”. E ci azzeccava pure. 

GREGGE E pensi alle pecore. L’immunità? Boh! Il gregge passava ogni giorno davanti alla mia casa di montagna quando la strada era ancora sterrata, ora è quello che tento di far vedere ai nipoti piccoli. I quali neanche immaginano che le “pecorelle” siano destinate a morire se prive di protezioni immunitarie da infezioni, e figurarsi se loro già sapessero che per nutrirsene le si ammazzano senza rimorsi. Anche noi umani come loro? Pecorelle smarrite. 

LIEVITO Dacci oggi la nostra pizza quotidiana. Altrimenti ci arrangiamo. Purché non ci manchi il lievito. Che sparì all’improvviso e miracolosamente ricomparve. E, in attesa dell’arrivo di quella consegnata a domicilio, la pizza domestica, si sa guarnitissima, esalò caldi effluvi che profumarono le cucine. Confido che anche Riccardo Bacchelli, che ben si intendeva di farine e il cui mulino era, ahimè, meta primaverile di chi scrive, si sarebbe accomodato alla nostra tavola. 

Mare Non tutti possono vederlo da vicino, ma quelli che possono non lo dimenticheranno. E faranno bene perché lungo le coste e nei porti, quando finirà, anche se non ridiventerà rapidamente quello di prima, ancora di nuovo i delfini non saranno a casa loro. Certo, ce ne vorrà per sporcarlo come sappiamo, ma l’uomo è bravo a costruire e bravissimo a distruggere. Chi vincerà? Balena permettendo, chiedere a Achab. 

SCERIFFO Morto Sergio Leone, anche il western sembra finito. Ma una speranza che il genere non sia morto si è riaccesa, e dove se non alle falde del “Vesevo” per poetica antonomasia “sterminator”. Lo sceriffo è tornato per proteggerci dai nuovi banditi per definizione semantica cattivi. Lui, che ha la stella, li vede prima degli altri. Tornerà anche sugli schermi? Solo se Quentin Tarantino, che di Sergio tenta invano di essere figlio, scenderà dalle montagne innevate del Colorado per riscaldarsi un po’ nel paese d’ ‘o sole. De Luca è già sul set.

SOSPESO Non appeso a qualcosa. Interrotto temporaneamente. Per quanto non si sa. Volgiamo l’aggettivo al femminile e troveremo il sostantivo appropriato: la vita. Scrisse anni fa Percy Allum che Napoli era più attrezzata dell’Italia ad affrontare la “crisi” perché di essa si nutriva da sempre. Così pare per questo tempo sospeso nella città che ha inventato il caffè sospeso, la spesa sospesa e, da ultimo, l’abbraccio sospeso. 

SPERANZA “Finirà”. “Ce la faremo”, “Speriamo”. Appunto, la speranza. La parola che ci accompagna nutrendo di fiducia l’animo. E Speranza, nomen omen, si chiama anche il ministro che deve proteggere la nostra salute. Un serio meridionale di Lucania, chiamato dal destino ad una prova fuori dalla portata di chiunque. Speriamo che faccia bene. Per lui. Per noi. Per tutti.

VACCINO O, a voi piacendo, Godot… Quando, se e come arriverà. In paziente per quanto trepida attesa. Mentre leggiamo e ascoltiamo parole esperte e inquietanti su trame e interessi mondiali attorno al futuro della nostra salute. Meglio consolarci con la speranza (di nuovo). Io, per esempio e per il momento, mi accontento del vaccino (l’aggettivo, non il sostantivo) commestibile, un saporito e genuino fiordilatte dei miei amati Monti Lattari. 

VECCHI Vocabolo su cui non si scherza. Lo imparai all’età di dodici anni. Con mio padre stavamo sulla mulattiera che da Serrara scende alla Cavascura. Dal mare saliva il fratello del mio bisnonno, don Filiberto. Contadino, ben vestito, gilet e sigaro. Chiacchieravano. Qualche mese prima Jurij Gagarin era volato nello Spazio. Per il mio anzianissimo parente erano tutte invenzioni. Io, arrabbiato perché non sentivo obiezioni, dissi la mia. Non ricordo come ma papà mi zittì bruscamente e poi, una volta da soli, mi disse che occorre avere rispetto per i vecchi. Ora, taccio sgomento dinanzi alla strage dei miei coetanei?

VIRUS Stavamo rischiando l’assuefazione a quello dell’odio, poi… abbiamo intravisto il filo a cui la vita si aggrappa. Ce lo ricorda Italo Calvino: “I virus, i veleni, le radiazioni dell’uranio… il caso che governa la generazione umana che si dice umana proprio perché avviene a caso”.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 26 aprile 2020

Patroni

Se nomen omen capirete che il mio cuore batte per Matteo, poi ricordo di essere napoletano per scelta di vita e di lavoro da quasi mezzo secolo e allora lascio aperta una porta anche a Gennaro. Ma loro, i santi, si importano poco di questi personali dilemmi e, per quanto le due città di cui sono patroni rivaleggino da sempre e se mai un giorno dovesse giocarsi una partita di campionato tra Napoli e Salernitana, loro non hanno derby in calendario, avendo ben altro a cui pensare. Matteo è tirato per la giacca in mondi, come l’amministrazione pubblica, da cui si ritrasse senza indugio quando Gesù, incurante dello scandalo tra i pubblicani, gli disse “seguimi”, Gennaro invece ha da preoccuparsi solo di chi vorrebbe prenderlo in castagna e dimostrare che il suo sangue si liquefa tre volte l’anno non per un suo miracolo bensì per artifici chimici di altri. 

È ben evidente che i due svolgono, se il termine non risulti blasfemo, due mestieri diversi. Più laborioso quello del patrono di Napoli messo alla prova a scadenze precise, al punto che anche quando nella teca non accade nulla lo fa per dare un segnale, vuoi uno sprone ai fedeli a insistere con la preghiera vuoi il presagio di una sventura. San Matteo non è sottoposto a tali fatiche, lui, che secondo l’ordine evangelico è il primo testimone della discesa in terra di Gesù, può fare a meno dei miracoli, e pertanto i fedeli chiedono ma nulla pretendono.

Sarà forse anche per questo diverso rapporto con la città – non vorrei essere banale ricordando chi ha scritto che san Gennaro è il vero dio di Napoli – che cambia l’approccio degli amministratori. Tanto per dire, i sindaci di Napoli, di qualsiasi colore, non si sognerebbero mai di rivendicare qualcosa: sono lì, naturalmente in prima fila, fedeli tra i fedeli, pregando o facendo finta, scrutando il sangue del santo dal basso in alto. I napoletani, le parenti del gialluto in primis, apprezzano questa prova di fede democratica.

Per due anni – e così rafforzo la locuzione iniziale – ho lavorato a Salerno e ricordo le processioni del 21 settembre. Il sindaco De Luca era al massimo del suo splendore. La folla immensa invocava… san Matteo, ma io sentii osannare maggiormente il primo cittadino. “Vincenzo o’ funtanaro” aveva conquistato il loro cuore per aver fatto il miracolo del buon governo. Più controversa la visita della statua del patrono nel Municipio dopo che la curia ha messo negli ultimi anni qualche paletto per separare il sacro dal profano. La città lo vuole, il sindaco lo chiede, i portatori sono d’accordo. Chissà che pensa l’interessato. Il suo collega napoletano, intanto, ha altri problemi: c’è una teca che l’aspetta. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 17 settembre 2018

Hitler a Napoli

Il filmato dell’Istituto Luce sulla visita di Hitler a Napoli, riproposto sul sito del Corriere del Mezzogiorno, non lascia indifferenti, come e più di quelli sulle folle oceaniche di Trieste per le leggi razziali o di Roma sull’entrata in guerra o delle tante città invase da un popolo acclamante il duce ora per questo ora per quel motivo. L’8 maggio di ottant’anni fa il regime si propose, riuscendoci, di dare una prova di forza che non doveva sfigurare di fronte alle sterminate parate del Führer in terra di Germania. Decine di migliaia di militari schierati per chilometri ai lati delle strade per far ala all’auto con Hitler e Vittorio Emanuele II, ogni palazzo ricoperto da drappi, bandiere, svastiche e fasci sarebbero bastati, ma Mussolini intendeva dimostrare all’alleato le proprie capacità militari in mare schierando duecento navi in una parata memorabile. Non a caso il percorso “terrestre” fino alla Stazione Marittima fu riservato ai due capi di stato, lui accolse il Führer sulla nave ammiraglia “Conte di Cavour” mentre dalla flotta rimbombavano nel Golfo le “salve regolamentari” di cannone.

Il messaggio che Mussolini voleva mandare era chiarissimo: l’Italia c’è, ed è pronta all’”ora della storia” che presto scoccherà. Il tono e le parole del giornalista dell’istituto Luce corrispondono alla perfezione allo scopo. Uno spettacolo impressionante di forza, di organizzazione, di potenza, che nulla lasciava presagire della catastrofe nella quale i due dittatori condurranno i loro paesi e il mondo intero. Naturalmente c’era Napoli, si può dire tutta Napoli, per fede fascista, per curiosità, perché non poteva non esserci, e chi poteva disturbare, come Ettore Scola ci ha ricordato in “Una giornata particolare”, era stato messo nell’impossibilità di farlo. In molti di noi napoletani quel documentario richiama ricordi familiari, racconti di quel giorno. 

Mio padre, nato nel ’25, aveva poco più di dodici anni. Abitava a Castellammare, nella zona di Quisisana, poco al di sotto della Reggia. Sparì prima che albeggiasse. La mamma, vedova, bidella della scuola elementare, sulle prime non si preoccupò sapendo che il figlio viveva in strada e scorrazzava in lungo e in largo con qualche tappa in parrocchia. Nel pomeriggio incominciò ad impensierirsi e a sera l’apprensione crebbe fino a diventare paura del peggio. Il ragazzino era sparito, nessuno lo aveva visto, il passaparola si trasformò in breve da solidarietà e vicinanza in mobilitazione di tutto il quartiere. Le ricerche continuarono per ore, solo dopo le quattro di notte lo si vide sbucare mentre risaliva il primo tornante di via Quisisana. Era andato a piedi a Napoli per vedere Hitler ed era ritornato a piedi. Da solo. Affamato, stanco. E pur tuttavia, con l’incoscienza dell’età, felice dell’impresa e perfino sorpreso per la gente che gli stava attorno e poco consapevole della sofferenza procurata alla madre. Cinque anni dopo – era già operaio del cantiere navale – fu costretto a ripararsi sui Monti Lattari dopo una manifestazione di donne per chiedere la liberazione degli antifascisti detenuti nel carcere di Salita San Giacomo: delle infatuazioni di ragazzino aveva ormai solo un vago ricordo.

Dunque, il filmato ci racconta che i napoletani erano fascisti? Che poi divennero antifascisti quando il regime crollò e la guerra fece il resto? Antica questione, che nulla toglie ai meriti degli antifascisti che in Italia o in esilio non erano nel coro. Per esempio, per restare a Castellammare, non vanno mai dimenticati quegli operai che il 16 settembre 1924 accolsero con gelo e anche qualche fischio il presidente del consiglio Mussolini in vista al più famoso cantiere navale del Mezzogiorno. Ma quella corale esultanza popolare per i capi del fascismo e del nazismo, che sarà riscattata con le “Quattro giornate di Napoli”, fa riflettere su un problema che gli storici, e non solo loro, hanno più volte affrontato e approfondito: l’opportunismo dei voltagabbana, il diffuso e ricorrente riciclarsi dalla sera alla mattina sull’onda del nuovo vento. 

Tornano sempre attuali le pagine di Ruggero Zangrandi, uno storico e giornalista che raccontò dal di dentro “il lungo viaggio attraverso il fascismo”. Lui, che era nato durante il ventennio e che ebbe in sorte, quale compagno di banco e amico di Vittorio Mussolini, di frequentare Villa Torlonia e il Duce, raccontò in un libro con quel titolo il tormentato e drammatico itinerario di un’intera generazione. Soprattutto, nella seconda edizione, chiamò in causa, con nomi e cognomi, la classe dirigente di prima della presa del fascismo – intellettuali, magistrati, scienziati, avvocati, filosofi – che preferì tacere e convivere con il regime e che, alla sua caduta, come se nulla fosse accaduto, continuò ad occupare nella nuova Italia i posti di comando. Un riciclaggio che fu permesso, ai più alti livelli, anche ai responsabili del disastro dell’8 settembre 1943, della fuga “protetta” da Roma del sovrano e dei generali e della mancata difesa della capitale.

Quello straordinario documentario sulla visita di Hitler a Napoli fa pensare anche a queste cose, a un’Italia che ha pensato a sé stessa mentre altri ne riscattavano l’onore combattendo per le strade di Napoli o sulle montagne del paese.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 5 maggio 2018