Amalia Bruni

Cocciuta. Calabrese. Qualsiasi centro di ricerca nel mondo farebbe ponti d’oro per averla, lei invece no: resiste nella sua terra, non si muove da Lamezia e si batte con i denti per il suo centro di neurogenetica. Le sue scoperte hanno permesso di svelare molti segreti dell’Alzheimer, la quarta causa di morte in età adulta, fino a non molti anni fa una malattia vissuta segretamente in casa o in un manicomio, ventiduemila ammalati in Calabria. Rita Levi Montalcini, ovviamente più che ricambiata, la adora, la Calabria, raramente generosa verso i suoi figli, un po’ meno. Amalia Bruni è un fascio di nervi, emozioni e passioni. Il suo viaggio nel cervello dell’uomo è un’esplorazione iniziata molti anni fa. Ha giocato molto la sua determinazione ma un ruolo lo ha avuto il destino.

Lei è nata a Girifalco, città del manicomio. Un segno premonitore?

«Sono nata per caso a Girifalco. Poiché nel 1955 si partoriva in casa, il parto fu realizzato sotto l’occhio vigile di mio nonno che era il medico condotto di Girifalco. Mio padre, un giovane belloccio, fu il primo preside e professore della scuola media nascente, conobbe la bella figlia del medico del paese, se la impalmò, poi incominciò a errare nella Calabria per insegnare. Sono nata a Girifalco mentre passava la processione della Domenica delle Palme, tant’è che uno dei miei soprannomi da piccola era Palmina, che io detestavo. Infatti ricattavo tutti: se mi dai tre fichi secchi – ne ero golosissima – mi faccio chiamare Palmina».

Quindi, non ha vissuto a Girifalco?

«No, però ho recuperato la memoria di questo paese e del suo ospedale psichiatrico quando ho cominciato a lavorare sull’Alzheimer».

Ci arriveremo. L’infanzia dove?

«A Lamezia, a Nicastro, dove mio padre era stato trasferito. Liceo classico, scout da piccola, caposquadriglia, poi crisi esistenziale, Udi».

Passò dagli scout di area cattolica all’Unione Donne Italiane dominata dai comunisti.

«Non ci ho mai visto differenze, perché ho sempre ritenuto l’uomo l’oggetto di interesse».

L’università a Roma?

«No a Napoli. La decisione fu un po’ sofferta. Volevo scegliere psicologia che all’epoca era o a Roma o a Padova. Ma c’era già un fratello all’università di Napoli per cui mio padre disse: figlia mia, o lì o lì, tuo fratello è già a Napoli, due figli nella stessa casa riesco a mantenerli, diversamente no. Rimuginai e decisi di arrivare allo studio del cervello attraverso il percorso della medicina».

Dove si iscrisse?

«Al Secondo Policlinico. Al terzo anno mi presentai alla clinica dove fuori c’era scritto “malattie nervose e mentali”. Entrai per chiedere l’internato, avevo fatto una corsa per dare tutti gli esami utili. La clinica era già divisa tra psichiatria e neurologia ma nessun cartello lo faceva capire. Per caso capitai al piano terra dove c’era la segreteria del professore Buscaino, mentre al piano di sopra c’era il professore Rinaldi. Fosse successo l’inverso sarei diventata psichiatra». 

Perché l’attraeva il cervello?

«Mi ero sciroppata un trattato di psicoanalisi e mi affascinava capire il perché dei comportamenti umani».

Freud, Jung, a quell’epoca era fortissima la suggestione che esercitavano sui giovani. Anche su di lei?

«Ero piena delle idee del mio tempo. Diciamo che ho ricostruito e sanato tutto questo percorso nell’ottica della neurofisiologia. Ho capito poi di aver fatto la scelta giusta perché la trasposizione filosofica è importante ma i dati dell’esistente non possono essere negati». 

La scienza?

«La scienza vera, quella inconfutabile. Prenda lo shiatsu. I cinesi sono stati soltanto dei grandi empiristi nel senso che hanno utilizzato l’osservazione in maniera straordinaria, ma quella che è considerata una filosofia cinese in realtà è neuroscienza dal momento che tutto è spiegato benissimo nell’immenso contenitore del cervello umano».

Si laurea a Napoli?

«In cinque anni, una corsa rapida perché mio padre mi aveva allertato: figlia mia, tu vuoi fare medicina, tieni conto però che è una strada lunga e difficile, sei una donna, forse sarebbe meglio che facessi l’insegnante, ti lascerebbe più spazio. Insomma era forte la mentalità che tu puoi anche studiare, fai una bella figura, però comunque ti devi interessare di casa, famiglia e figli. Il lavoro di insegnante ti dà tre mesi di vacanza, i periodi festivi…».

Una volta.

«Esatto. Presa la laurea nel 1979 chiesi al professore Buscaino di rimanere a Napoli. Mi piaceva l’università, poi eravamo molto pochi all’epoca, tutti giovani entusiasti. Ricordo quante notti a vegliare il sonno dei parkinsoniani per registrare da un punto di vista neurofisiologico ogni variazione, facevamo noi i prelievi. È stata una formazione straordinaria perché non essendoci molto personale eravamo utilizzati come manodopera».

Napoli antica capitale nel bene e nel male, e comunque ancora un faro di cultura?

«Per la mia famiglia Napoli era un punto di riferimento, perché molti miei zii e cugini erano lì. In particolare c’era stato il fratello di mia madre, Salvatore Tolone, un neurologo, allievo di Buscaino il vecchio, morto a 42 anni in un incidente stradale, ma lì era rimasta la sua famiglia, c’era un mio cugino, Romolo, che all’epoca era direttore dell’istituto Pascale».

Era ben seguita?

«Sì, ma Romolo tentò di distogliermi dallo studio della neurologia soprattutto quando realizzò che non sarei rimasta all’università. Devi fare l’endoscopista perché in Calabria non ce ne sono». 

E lei come gli rispose?

«Andai per quindici giorni al Pascale a fare le endoscopie: i malati vomitavano da una parte e io vomitavo dall’altra. Non mi interessava minimamente. Io che non avevo mai avuto timore di fronte a un malato in crisi epilettica andavo in bestia per l’endoscopia. Lui insisteva: ritornerai in quella terra, lì c’è solo una neurologia manicomiale».

Lasciò Napoli?

«Non potevo restare, Buscaino mi spiegò che era difficile l’inserimento, tornai in Calabria e feci il tirocinio a Catanzaro, al reparto di neurologia del Pugliese. Contemporaneamente facevo le guardie mediche a Filadelfia dove le ho passate di tutti i colori, e frequentavo la scuola di specializzazione a Napoli da Buscaino dove ero riuscita ad entrare nonostante proprio quell’anno avessero introdotto la lotteria dei test per l’ingresso. Arrivai prima su sessanta».

Una vita piena?

«Una vita folle. Viaggiavo con la mia Renault 4 tra Napoli, Nicastro e Filadelfia».

Un’auto cult. Colore?

«Rossa fiammante. Era sempre nel filone. Tra l’altro mi ero sposata e la mia abitazione era una mansarda. Tutto un po’ bohemien».

Suo marito?

«È di Lamezia. Ho tre figli, un maschio di ventidue anni e due femmine di venti e di quattordici».

Quando incomincia a fare ricerca?

«A quell’epoca c’era solo la ricerca del posto di lavoro. Con mio marito, anche lui medico e scout, c’eravamo ritrovati a Napoli dopo anni di avventure: ci prendevamo e ci lasciavamo, poi ci fu il reincendio. Eravamo convinti che questa terra dovesse avere un riscatto. E siamo tornati per mettere su famiglia in maniera precisa».

Trova il posto di lavoro?

«Venne bandito un concorso per un posto di assistente in neurologia nell’ospedale di Nicastro, partecipai – devo confessare – per non viaggiare più. Quindi, ero anche un po’ amareggiata, mi ricordavo della premonizione di mio cugino. Entrai in questo ospedale, in neurologia. L’unico medico, Giovanni Caruso, per prima cosa mi mise nelle mani un neonato dicendomi: d’ora in poi della parte pediatrica della neurologia ti occupi tu. Volevo morire, io venivo da una scuola di neurologia dell’adulto, i bambini li avevo visti con Salvatore Striano, un maestro in materia al Secondo Policlinico di Napoli. Il primo anno fu folle. Per un periodo ho fatto l’autodidatta, sono stata al Gaslini di Genova per più di un mese a studiare. Ho lavorato con il primario Elisio Scuteri, che ha creato una pediatria e una neonatalogia in questa terra». 

Come passa agli adulti?

«I pomeriggi stavo sola, mio marito era in marina per il servizio militare, ancora senza figli, leggevo e studiavo. Poiché non mi sono mai fatta i fatti miei, trovai una corrispondenza sulla scrivania di Giovanni Caruso, una serie di lettere di un tal Jean Francois Foncin della Salpetriere di Parigi che chiedeva la collaborazione per lo studio di una famiglia con l’Alzheimer ereditario. Avevo visto casi strani ma di questo non avevo mai sentito parlare per cui chiesi informazioni a Giovanni. Mi disse che c’era una famiglia che aveva l’Alzheimer ereditario, ma che non era mai riuscito a saperne di più: questa potrebbe essere una cosa importante per te». 

E lei?

«Telefonai al professore Foncin, un mito per i neurologi di tutto il mondo, avvalendomi di un tecnico di radiologia che era stato emigrato in Francia e conosceva la lingua. Dopo una settimana Foncin era qui con un computer portatile che gli occupava tutto il bagagliaio, tra l’altro pieno di fieno perché faceva anche il contadino a tempo perso». 

Lo scopo?

«Nel 1973 era stata ricoverata alla Salpetriere una donna emigrata a Parigi che dopo aver partorito l’ultimo bambino non voleva allattare il bambino, era incurante, agitata. I neurochirurghi, che avevano sospettato un tumore frontale, facendo la ventricolografia – eravamo in epoca pre-tac – avevano prelevato un piccolo frammento di corteccia, l’avevano messo sul vetrino e l’avevano mandato a Foncin per l’estemporanea. Vedendo la colorazione, Foncin aveva detto: ma quale tumore, questa ha un Alzheimer, ha le placche senili a degenerazione neurofribillare. Enorme la sua sorpresa quando gli avevano detto che aveva 42 anni. Ed era aumentata sentendo il racconto del marito della paziente: veniamo da un piccolo paese della Calabria, nella famiglia di mia moglie sono morti tutti così all’ospedale psichiatrico di Girifalco». 

Il destino?

«Straordinario. Foncin aveva capito che era un filone importantissimo da seguire, assolutamente sconosciuto all’epoca: si parlava di Alzheimer come di una malattia molto rara, non si capiva cosa fosse la demenza senile. Foncin aveva chiesto dei finanziamenti al governo francese che li aveva negati accusandolo di voler fare il turismo scientifico. E lui più testardo di un mulo, più testardo di un calabrese, aveva deciso di trovare dei finanziamenti in una fondazione privata».

Venne a Girifalco?

«Nello stesso anno. Prese la cartella della famiglia, ma il lavoro si arenò perché a duemila chilometri di distanza era difficile portarlo avanti. Da lontano scriveva lettere al professore Giorgio Macchi, una delle grandi menti della neurologia italiana, e che al Gemelli era stato direttore di cattedra di Caruso. Per cui come Foncin scriveva le lettere a Macchi, questi le metteva in busta e le mandava a Caruso a Nicastro».

E Caruso le teneva sulla scrivania prima che lei ci ficcasse il naso.

«Infatti il giro si chiude con la mia telefonata a Foncin, che quando seppe che ero nata a Girifalco e che il direttore dell’ospedale con il quale aveva avuto i primi contatti era un mio zio acquisito, disse: la tua decisione per la neurologia è genetica».

È stata fortunata. Quello che cercava era a due passi. Le pare?

«Sì. L’archivista, che conosceva la mia famiglia, la più importante di Girifalco, mi apriva l’archivio di pomeriggio, la mattina lavoravo. Tirai fuori queste cartelle, di cui una bellissima, che ci ha permesso la ricongiunzione con la branca americana studiata in maniera del tutto indipendente da Feldman che nel 1963 – io avevo otto anni – nei ringraziamenti della sua pubblicazione citava l’ufficiale dello stato civile di Catanzaro. In effetti si trattava della prima paziente, da cui ha origine la ricerca americana, di cui ho trovato la cartella nell’ospedale psichiatrico di Girifalco. Una cartella del 1904, cioè tre anni prima che Alzheimer descriva la malattia. È il primo documento storico di un Alzheimer sicuro, perché da questa donna discendono pazienti con mutazione genetica che abbiamo sotto il naso».

Il primo riconoscimento del suo lavoro?

«La tesi di specializzazione. Il professore Buscaino , che si era pentito di avermi fatto andare via, mi disse: è una pietra miliare, te la pubblico. Il professore Macchi mi definì la chiave di volta dell’Alzheimer».

Anche Rita Levi Montalcini è stata prodiga di complimenti con lei.

«L’avevo conosciuta nel 1987. Un anno prima aveva avuto il premio Nobel. Nel febbraio ci fu un grande congresso al Cnr in suo onore. In quel mese fu pubblicato su Science il mio studio sulla prima identificazione del cromosoma 21. Il professore Luigi Amaducci decise di darne l’annuncio nel congresso. Ci fu, quindi, un’eco straordinaria. Nei tempi in cui nasceva la neurologia molecolare, l’idea di identificare il gene dell’Alzheimer nelle due famiglie calabresi su cui stavamo lavorando, aveva avuto un successo incredibile. E fu Amaducci che sapeva in quali condizioni lavoravamo – il servizio di neurologia era in una stanzetta in cui facevamo a turno per respirare –, a propormi di aprire a Lamezia lo Smid Sud, il centro per lo studio multicentrico italiano demenze».

Come andò con la Montalcini?

«La invitai all’inaugurazione e lei mi disse che era onorata di venire. Nacque una simpatia immediata, la mia era abbastanza scontata, ma devo dire che è stato lo stesso per lei. Mi ha voluto bene, forse si è un po’ impersonata con le mie difficoltà». 

Le ha dato consigli?

«Non ho mai lavorato con lei, ma mi ha seguito moltissimo. Credo sia ormai un mito, la donna che ha dato tanto e che ha fatto scoperte fondamentali. Un modello assoluto. Anche di longevità. Negli ultimi mesi, per le tante vicissitudini che viviamo, le ho scritto come un figlio si rivolge alla madre nei momenti di necessità, lei è la mia madre scientifica…».

Quando nacque il centro di neurogenetica?

«Nel 1992 Smid cessò le attività. Bisognava riconvertirsi, c’era un piccolo finanziamento del Cnr, si cercava un’unità operativa perché l’ospedale non era più sufficiente, tutto era precario. Passai la terza gravidanza a piatire un posto dove mettere le nostre cose. Il direttore amministrativo Pietro Caligiuri ci diede due appartamenti del consultorio».

A quel periodo risale l’isolamento del gene?

«Era il 1995. Una cosa emozionante. Non ci speravamo. Facemmo una conferenza stampa in comune con il Canada perché il risultato era stato conseguito con lo studio contemporaneo di cinque famiglie. Un clamore enorme. La mutazione condivisa era uguale, probabilmente rimanda all’anno mille. Questa conferenza volli farla con la regione Calabria, mi sentivo di condividere il successo con le istituzioni. Venne il presidente Giuseppe Nisticò, e forse perché la Montalcini gli si era messa nelle orecchie (“fai qualcosa per Amalia”) decise di far nascere questo centro, monco, senza soldi».

Non esageri.

«Non esagero. C’era solo un finanziamento triennale, scelta anche giusta perché dovevamo essere messi alla prova. Però i soldi arrivavano dopo tre anni, nei primi anni con difficoltà estrema, con un finanziamento di privati canadesi realizzammo uno studio sull’umore, abbiamo tirato la cinghia».

Una battaglia continua?

«Sì, direi che questo dei dieci anni non è un compleanno felice. Si celebra una resistenza, non un’esistenza».

Quando avverrà?

«Sto preparando un grande convegno dal 3 al 4 ottobre prossimi in cui celebreremo la resistenza del centro di neurogenetica. Nonostante tutto».

Perché il Sud è condannato a avere questi comportamenti?

«Ce li vogliamo. L’emigrazione ha privato la Calabria della maggior parte delle persone forse più capaci. Sono sempre convinta che quelli che siamo rimasti siamo i peggio non i meglio, i meglio se ne sono andati. Noi abbiamo perso quasi due generazioni, la mia e quella successiva, forse più del cinquanta per cento dei miei compagni di scuola sono fuori. Non c’è stato scambio. Sono state sottratte delle risorse straordinarie. Questa è la verità».

Anche in politica?

«Il problema è di aver visto la politica come qualche cosa di sporco, e nessuno ci si è voluto mischiare. I pochi tentativi fatti, anche a Lamezia con le liste dei movimenti, sono stati penalizzati, perché la politica ha le sue regole durissime, devi essere tagliato in una certa maniera per entrare nel gioco. Non vedo la Calabria difforme dal resto dell’Italia, ma qua i problemi sono acuiti perché manca la normalità, non ci sono procedure certe. Questo centro è andato avanti perché ci inventammo l’associazione di neurogenetica: l’ho fondata perché all’epoca mi avevano vietato di condurre la ricerca nell’orario di servizio».

Di positivo c’è che quando si impegnano le donne qualcosa succede. È d’accordo?

«Ne sono convinta. Perché abbiamo la capacità di metterci più passione. Anche se poi ci ritroviamo spesso una contro l’altra».

Si continua a scappare dalla Calabria?

«Sì». 

Lei ha avuto la possibilità di andare via?

«Sì. Adesso sono sufficientemente vecchia, soprattutto ho tanti anni di servizio che nel giro di tre-quattro anni mi posso mettere in pensione».

Quando si pensa alla pensione vuole dire che le cose non vanno bene.

«Non vanno bene. Diciamo però che questa cosa la tengo in un angolino del cervello, non ci penso quotidianamente. Ho tanti obiettivi di ricerca cui voglio dare una risposta. Però, la situazione è veramente difficilissima. Dopo dieci anni siamo riusciti ad avere un fondo stabile che è dovuto passare come emendamento in un Consiglio regionale per iniziativa di due consiglieri, Antonio Borrello e Franco Pacenza, persone che tra l’altro non sono di Lamezia e che io conosco molto poco, anzi Pacenza non lo conosco affatto, che evidentemente si saranno sentiti motivati dalla mia battaglia. Come devo andare avanti? Ma ci credete o non ci credete in questa struttura? Se non volete, ditelo chiaramente. È assurdo che una struttura del genere debba morire perché a qualcuno salta lo schiribizzo che debba essere chiusa».

I soldi sono arrivati?

«Per ora è una vittoria di Pirro perché con l’accorpamento delle Asl non si capisce se arriveranno. Vigilerò, vigileremo tutti».

I prossimi risultati importanti?

«A giorni verrà comunicato l’isolamento di un nuovo gene a cui lavoriamo da quindici anni». 

Dell’Alzheimer ormai si sa molto?

«Abbastanza. Con la sortilina annunciata a gennaio si è aggiunto un altro grande tassello».

Il manicomio di Girifalco è finito nella canzone vincente di Sanremo. Quando ha sentito Cristichi che ha provato?

«Un po’ di malinconia. La canzone mi è piaciuta anche se poi è Sanremo. Oddio, uno potrebbe avere un atteggiamento molto dicotomico: da un lato pensare che le canzonette un po’ involgariscono una sofferenza profonda, dall’altro che in tal modo questi temi vengono fuori. È altresì vero che questi ospedali psichiatrici erano anche una risorsa di cultura». 

Non erano dei lager?

«Erano sicuramente anche dei lager perché lì c’erano malati che non dovevano esserci, i malati in osservazione per un trauma cranico, gli epilettici. C’erano ingiustizie terribili. Ma io ho scoperto nell’ospedale di Girifalco una biblioteca che era degna della Salpetriere. Dove sono finiti quei libri non lo so».

Che cosa è il cervello?

«Un territorio affascinante. Patologie psichiatriche apparentemente tali in realtà non sono altro che dei segni di esordio delle malattie. Per trent’anni uno può essere etichettato come un malato psichiatrico e poi te lo ritrovi con un quadro di violenza frontetemporale. Capire che cosa si sviluppa, perché e come… Resto sempre affascinata dal cervello che purtroppo non è in grado di studiare sé stesso fino in fondo. Pensi ad una persona che si definisce brava, ma è brava perché è empatica, cioè capace di relazionarsi con gli altri, e l’empatia non è altro che cellule. Questo non è riduttivo, è straordinario».

Siamo bombardati da notizie scientifiche del tipo: scoperta la zona del cervello che controlla il sonno, e via elencando. 

«È un puzzle di una complessità incredibile».

A che punto siamo del puzzle? Alla cornice?

«Non le saprei dire. La cornice sicuramente sì. Si sta cercando di entrare in profondità».

La scienza sembra non avere più limiti. Pezzi di ricambio anche per il cervello?

«È molto più difficile. Non è ipotizzabile smontare e rimontare». 

Ai suoi figli augura un futuro in Calabria?

«I miei due figli grandi sono all’università a Roma. È un’amarezza terribile vedere i figli che se ne vanno via. È giusto che abbiano periodi di distacco dalla famiglia, però è anche vero che noi siamo andati a sederci sui binari per avere l’università in Calabria. È amaro. Ma c’è una rivoluzione così grande che ci deve spingere a considerare la Calabria come un pezzo di Europa in cui siamo figli d’Europa e del mondo, andiamo e veniamo. Però i calabresi vanno solo, qui chi arriva? Gli albanesi e i marocchini, con tutto il rispetto per gli extracomunitari, però non arriva il colto. Se ci fosse lo scambio mi andrebbe benissimo, ma non c’è scambio. Noi continuiamo a restare come un’isola genetica, quasi come la Sardegna, e a rivaleggiare tra di noi».

Lei è una calabrese cocciuta?

«Cocciuto è un termine positivo o negativo? Se cocciuto è cocciuto, indica il coccio tosto. Si, assolutamente calabrese. Ariete con ascendente Leone». 

Il suo sogno?

«Che questa struttura resti, che possa vivere di sé anche quando non ci sarò più».

Leopoldo Conforti

Classe 1925, ovvero quando l’intelligenza unita alla cultura non ha età. Generazioni di professionisti lo hanno temuto, amato e stimato e non lo hanno dimenticato. Era il professore di latino e greco del liceo classico Bernardino Telesio di Cosenza, ma chi lo ricorda parla soprattutto delle sue lezioni di letteratura greca, delle figure note e meno note che uscivano dalle pagine dei libri e si materializzavano nell’aula attraverso le sue parole. Leopoldo Conforti è persona schiva, d’altri tempi, ama la vita, la colonna sonora della sua casa è un concerto di uccelli, si infiamma se viene chiamato a parlare di quel mondo lontano. Lontano? Capo Colonna, Sibari, Locri, Reggio sono davvero così lontani? La Magna Grecia è vicina più di quanto disinteresse e incuria non facciano pensare. Prestare più attenzione al periodo più splendente della storia della Calabria non è solo un dovere se si vuole guardare a un futuro partendo dalle migliori radici di questa terra, ma è anche un gran piacere della mente. E il professore di greco è una guida straordinaria in questo viaggio all’indietro.  

Ha allevato tanti studenti, nel frattempo la città cambiava. Com’era Cosenza quando ha incominciato?

«Sono nato a San Benedetto Ullano, a Cosenza sono arrivato durante la guerra. Erano ancora evidenti i danni dei bombardamenti, era una città distrutta».

Dove si è laureato?

«A Bari».

Ma dalla Calabria non si andava solitamente all’università di Napoli?

«Mi sono iscritto all’università dopo l’8 settembre del 1943. Napoli era vista come una città difficile, era l’epoca in cui Curzio Malaparte scriveva “La pelle”. I miei genitori ritennero che era una città poco tranquilla, e preferirono Bari. Andavo in Puglia soprattutto per fare gli esami. Si viaggiava in vagoni con il cartello “uomini quaranta e cavalli otto”, solo che i cavalli non c’erano mentre gli uomini erano cento e non quaranta. Si partiva alle due del mattino e si arrivava a Bari alle dieci di sera». 

Dopo la laurea è venuto a insegnare a Cosenza?

«Nei primi tempi insegnai alle medie. Poi arrivai al liceo Telesio e ci sono rimasto».

Perché latino e greco?

«Ero laureato in indirizzo classico. Avevo una certa tendenza verso l’antico».

Al Telesio tanti studenti, uno per tutti?

«L’attuale sindaco Salvatore Perugini».

Bravo?

«Sì, era capace».

Lei era molto severo?

«No, anche se credo che una certa severità ci deve essere. Forse severità non è il termine giusto, diciamo che serve una certa serietà. Non dico che bisogna usare la sferza dei latini». 

Oggi può capitare che un professore subisca i rigori di un genitore che interviene a difesa di suo figlio. Tempi cambiati?

«In peggio. Sia chiaro, non sono uno che dice “ai miei tempi”, anche perché ai miei tempi c’erano quelli che copiavano, c’erano gli scostumati». 

Lei metteva anche un due meno a tutta la classe se sospettava che avessero copiato?

«Può darsi. Non bisogna esagerare con le punizioni, ma qualcosa ci deve essere».

Qualcuno che ha bocciato e che poi nella società ha avuto successo?

«Sì, ce n’è stato qualcuno. Ci sono gli incapaci a scuola che poi mostrano qualità importanti

fuori della scuola. Ma generalmente è difficile trovare un grande professionista che a scuola fosse scadentissimo».

Lei crede che l’insegnamento classico abbia ancora un fondamento?

«Secondo me, sì. D’altro canto non posso smentire me stesso che sono di formazione classica». 

Con gli amici lei parla in latino?

«No. Scherzo un po’ con un’amica mia e collega con la quale ci salutiamo in lingua latina».

Le sue lezioni di greco erano seguitissime. Come faceva a far appassionare gli studenti?

«Distinguiamo. Il greco si studiava in due anni di ginnasio e tre di liceo. I primi sono gli anni dedicati alla grammatica e alla sintassi che per forza di cose non sono accattivanti, nel liceo si parla di letteratura. È come in medicina: uno sciroppo può anche piacere, la siringa sicuramente no.  La sintassi è la siringa, la letteratura greca è lo sciroppo».

Pentito di qualche giudizio?

«No, forse ho peccato più di indulgenza».

Ai giovani calabresi consiglierebbe di studiare latino e greco?

«Ho l’impressione che si sia fatta una lotta incomprensibile a queste materie, anche forse per motivi ideologici. Si pensava che il liceo fosse la scuola dei signori. L’obiettivo doveva essere semmai quello di far sì che i poveracci andassero nella scuola dei signori. Non si distrugge la casa a chi l’ha, ma occorre costruirla a chi non l’ha».

Un professore di greco in una regione come questa forse ha un compito in più?

«Da un punto di vista culturale noi abbiamo diverse Calabrie, con una presenza significativa ma non da protagonisti in tutte le epoche, dalla Calabria pregreca alla greca È, da quella medievale e bizantina – pensi a Rossano – a quella rinascimentale, all’Accademia Cosentina». 

Soffermiamoci sulla Magna Grecia, il periodo di maggiore splendore. Si conosce abbastanza? 

«La scuola non insiste molto sulla Magna Grecia. Vi si dedica di più chi si occupa di letteratura, ma nel periodo scolastico non si ha nemmeno il tempo di focalizzarla. La Regione nelle scuole dovrebbe intervenire di più senza intralciare i programmi del Ministero». 

Proviamo a spiegare il valore della Magna Grecia parlando di alcuni luoghi fondamentali. Locri.

«È la realtà più interessante e complessa della Magna Grecia. È la città delle tavole di Zaleuco, il primo codice scritto d’Europa. È la città del matriarcato che nasce da varie leggende. Una di queste vuole che gli uomini fossero andati in guerra e che le donne rimaste a casa si fossero accoppiate con gli schiavi e si apprestassero a partorire. Poiché la situazione era diventata imbarazzante, queste donne decisero di andare via e vennero a stabilirsi nel promontorio Zefirio da cui nacque la nostra Locri. C’erano, dunque, figli di schiavi ma con mamme aristocratiche che preferivano far dimenticare la loro paternità e valorizzare l’origine materna. Da qui la maggiore considerazione che le donne a Locri avevano rispetto alla Grecia, tant’è che si parla di matriarcato locrese. Ma Locri fa pensare anche ad altro, al culto di Afrodite, agli epigrammi di Nosside, ai suoi versi “nulla è più dolce d’amore ed ogni altra gioia viene dopo di lui: dalla bocca sputo anche il miele…”. Locri è il luogo più stimolante».

Più di Sibari?

«Sibari ha una vita breve, duecento anni. Grande e splendida città ma anche sfortunata: fu distrutta e fu sommersa dal Crati deviato sulle sue rovine perché sparisse definitivamente. Si presenta come la città degli scialacquatori, di quelli che si dedicano alle gozzoviglie, dei sardanapali. Questa insistenza sulla corruzione di Sibari è eccessiva. Era una città piena di soldi, ma da questo a dire che era corrotta mi sembra un’equazione esagerata».

Un’equazione esagerata anche se pensiamo a Smindiride, l’uomo più ricco della città, come ricorda Erodoto? Ci parla del suo letto di rose?

«È un aneddoto più che un racconto. Smindiride giaceva su un letto di petali di rose. Era agitato e non riusciva a capirne il motivo. Si alzò per trovare pace e scoprì di avere il corpo cosparso di bollicine e lividi. Colpa, pensi un po’, di alcuni petali che si erano piegati in due e avevano maltrattato la sua tenera epidermide». 

Crotone? 

«Ovviamente è la città di Pitagora, della filosofia, della musica, della medicina, dell’astronomia, tutte propaggini della scuola pitagorica.  anche la città delle lettere della moglie di Pitagora, ma anche di altre donne».

Reggio?

«È la città dove fioriscono la cultura letteraria e la cultura storiografica. A Reggio nascono la questione omerica e gli studi grammaticali, mentre la storiografia occidentale ha in Ippi il primo esponente anche se di lui purtroppo conosciamo i titoli e non le opere».

La Calabria è una regione che si piange addosso?

«È la letteratura calabrese che si piange addosso, che ha sempre scritto di gente emarginata e sofferente, di briganti. Dobbiamo smetterla con questo lamento, che dura da secoli, sulla condizione miserevole della Calabria. Ne è piena tutta la letteratura. Forse le intenzioni erano positive ma se uno parla sempre del negativo finisce con l’afflosciarsi». 

Ma lei che idea ha della Calabria?

«La Calabria non si conosce. Il calabrese non conosce sé stesso. L’università l’abbiamo da poco. Poi la condizione economica, geografica, la mancanza di comunicazioni rendono la situazione difficile, ma un po’ dipende da quella tendenza dei calabresi, che è anche di tutti i meridionali, di afflosciarsi». 

Tornando alla Magna Grecia, se potesse catapultarsi all’indietro dove le sarebbe piaciuto abitare?

«A Locri, perché mi pare più interessante, più vivace. È l’esatto contrario della Locri di oggi. Un poeta come Pindaro si rivolgeva alle muse dicendo loro: andate a Locri perché lì trovate la vostra casa. Mi sembra una città più affascinante. E c’è ancora tanto da trovare, anche perché la Locri attuale non è costruita su quella antica com’è successo in altri luoghi». 

Ai calabresi indicherebbe Smindiride come un modello?

«Da quando scomparvero lui e la sua straordinaria città, sono spariti dalla Calabria l’opulenza e lo splendore. Loro, Smindiride e Sibari, sono la testimonianza di un tempo felice. Io continuo a pensare a loro come a un sogno. E i sogni aiutano a vivere».

È un messaggio?

«No, parlo un po’ ironicamente. Dico che siccome della Calabria si è parlato sempre come di una terra di poveracci, di emarginati, di briganti, finalmente abbiamo un personaggio che non è un poveraccio. Ripeto, ne parlo un po’ per scherzo».

Se la Calabria dovesse ripartire dalla sua storia, non dovrebbe prendere in considerazione il suo momento di massimo splendore, la Magna Grecia?

«Non c’è dubbio. Ma, attenzione, anche la Magna Grecia ha le sue negatività, le sue guerre intestine, i suoi odi interni. Non era certo il paradiso terrestre. Le città greche erano litigiose per natura, Sibari venne distrutta da Crotone, vi fu una guerra tra i locresi e i cotroniati vinta dai locresi. La Magna Grecia non è diversa dalla Grecia perché un male endemico della Grecia, che poi costituisce la sua debolezza, è la rissosità. Questo vizio, se vogliamo chiamarlo impropriamente così, si trasferisce alla Magna Grecia. Ogni colonia era autonoma. In fondo per unificare la Grecia c’è voluto uno straniero, Alessandro Magno, che era macedone anche se di educazione greca».

Un itinerario possibile? 

«Bisogna sapere da dove veniamo, qual è la nostra storia».

E si sa poco?

«Non si sa abbastanza. Non è che non ci siano libri, anzi. Però, i calabresi hanno prestato scarsa attenzione alla loro storia. Pensi ai nostri scavi: gli archeologi non sono calabresi. Non è che la Calabria con la sua miseria si poteva occupare di Locri o di Reggio, ma oggi bisognerebbe impegnarsi di più. Occorre farla finita con il lungo oblio. E lo devono fare soprattutto i calabresi, sicuramente non un piemontese o un lombardo».      

 

Rosa Villecco Calipari

Il doppio cognome richiama una delle pagine più tragiche ed eroiche degli ultimi anni, lei lo porta con naturalezza e fierezza ma sarebbe un errore immaginare che il suo ruolo pubblico sia il risultato di un’attenzione dovuta più a Nicola che a lei. La senatrice Rosa Villecco Calipari è di suo un’importante donna del Sud e la storia d’amore, che continua, con l’uomo ucciso da “fuoco amico” mentre salvava con il suo corpo Giuliana Sgrena appena liberata dai sequestratori iracheni, è tra due forti personalità. Conferma, se ce ne fosse bisogno che da sempre le donne sono la risorsa umana più interessante della Calabria. E verrà sempre troppo tardi il giorno in cui irromperanno sulla scena per togliere finalmente un po’ di spazio agli uomini.

Nata a Cosenza qualche anno fa.

«Il 24 marzo 1958». 

In una casa dominata da donne.

«Papà, avvocato, morì quando avevo quattro anni. È un’infanzia strana la mia. Ero figlia unica. Rimasi con la mamma, la zia e i nonni materni, soprattutto mia nonna. Erano tre donne molto diverse tra loro».

Sua madre era casalinga?

«Sì. Era nota perché in una famiglia impegnata in politica stava dietro al padre quando era giovane. C’è l’aneddoto carino di quando mamma andò a Roma e conobbe Sandro Pertini, che, famoso per essere un uomo amante delle belle donne anche più giovani di lui, disse: Pietro, peccato che tua figlia sia troppo giovane altrimenti le avrei fatto la corte. Quando poi divenne presidente della Repubblica, ricordo di aver preso io la telefonata dal Quirinale alla morte di mia nonna – avevo vent’anni – con la quale Pertini chiedeva o di Giacomo o di Anna, la piccola che lui ricordava».

Parliamo di Pietro e Giacomo Mancini, ricordiamolo.

«Certo».

Torniamo a sua madre. Pupà?

«Era il nomignolo. Aveva tre sorelle e un fratello, fu la più coccolata da nonni e zii, e dal fratello Giacomo che aveva dieci anni più di lei. Quando era piccolina, avrà avuto una decina di mesi, e la nonna era andata a trovare il marito al confino in Sardegna, era stata molto male, piangeva moltissimo, neanche la balia riusciva a tranquillizzarla, per cui mio zio Giacomo la teneva sempre in braccio. Il legame tra loro nacque allora. Lei lo ha sempre adorato».

Passiamo a sua zia.

«Zia Menuccia era una donna molto autoritaria e forte. Aveva scelto di non sposarsi. Vivere sola in Calabria – la ricordo negli anni Sessanta – allora non era una cosa semplicissima. Nello stesso tempo era una donna fragilissima, perché all’esterno dava l’impressione di una donna dura, poi all’interno dava l’idea di una solitudine affettiva, l’unico affetto vero ero io».

E poi la nonna, una De Matera.

«Nonna Peppina è stata per alcuni aspetti la personalità a cui mi sono rifatta di più. Sembrava molto fredda, invece è riuscita a far passare una serie di messaggi educativi di forza e di determinazione. Ancora a novant’anni, gestiva affetti e relazioni pubbliche. Mi colpiva il suo coraggio».

Con il marito antifascista in pieno ventennio ce ne voleva?

«Infatti. Rimase sola, con cinque figli, con una situazione economica non semplice tanto che fu aiutata dal fratello in quella fase. Pensi a questa donna che partiva per la Sardegna in anni in cui peraltro non era facile viaggiare. Per di più nonno e nonna nascevano da famiglie molto differenti. Lei veniva da una famiglia patrizia, si innamorò perdutamente di mio nonno, ho letto le stupende lettere d’amore che si scrivevano. Ricordo che avevo diciotto anni e lei mi disse: un matrimonio funziona quando c’è la passione. Una passione che tra lei e il marito non era mai finita. Avevano un rapporto paritario assoluto, una cosa non comune a quell’epoca».

Giacomo Mancini amava raccontare la fierezza di sua madre, di quando gli insegnava a cantare la Marsigliese.

«Nonna parlava correttamente il francese. E io ho preso da lei anche questo: parlo non bene inglese, parlo correttamente francese. Da lei ho preso la caratteristica di essere dolce e comunicativa, ma anche la capacità di distacco e di giudizio verso gli altri che si trasforma in disprezzo quando una persona non mi piace. Mia nonna non camuffava, era molto nitida». 

Solo donne, dunque, nella sua formazione?

«No. A parte mio zio Giacomo che, oltre all’affetto, era un po’ il mito, c’era un uomo nella mia vita, che è stato il secondo marito di mia madre. Gaspare Turcaro, primario di neurologia per vent’anni a Cosenza, che è ancora vivo e che nella mia adolescenza ha avuto un ruolo. Un intellettuale che veniva dall’università di Napoli, aveva fatto ricerca, arrivò per amore in Calabria, perché mia madre non si sarebbe mai allontanata da Cosenza. Lui ha svolto una funzione molto viva nella Cosenza di quegli anni».

Anni di fermento?

«Anni ricchi di dibattito, di confronto politico, di grande apertura della città. Fiorivano centri studi, si facevano convegni in continuazione, si era aperta la libreria Feltrinelli nella zona antica. Gaspare influì molto nel mio percorso culturale suggerendomi libri, discutendo». 

Visto che parliamo di uomini che per lei hanno contato, torniamo indietro a suo nonno Pietro. 

«A nonnino. Un omone con un vocione ma per me era nonnino».

Pietro Mancini nell’Italia uscita dal fascismo poteva aspirare a qualsiasi incarico in Italia. Invece si ritirò dalla vita pubblica non appena suo figlio Giacomo si candidò alla Camera.

«Mi vuol far fare riferimenti alla politica di oggi?».

No, parliamo di suo nonno.

«Con Giacomo aveva difficoltà a comunicare, tra loro si scrivevano lettere. Quanto a me, con lui il contatto ero sensoriale, le mani, la voce, perché non vedeva. Mi colmava di tenerezze e complimenti. Sapevo che era un uomo importante. Gli leggevo il quotidiano. L’uomo politico l’ho scoperto dopo, leggendo quello che lui o altri hanno scritto, soprattutto i suoi discorsi sulla Costituzione. In lui ritrovo una grande etica politica, una politica alta, una capacità non di scontro ma di congiungere. Il 17 marzo 1947, nel commentare i primi sette articoli della Costituzione, disse: tra noi ci sono stati scontri anche violenti, però poi siamo addivenuti tutti a una decisione comune. Che nasceva dalla volontà di costruire uno Stato, una Repubblica condivisi. E questo è il mio principio morale». 

Lei ha avuto la fortuna di vivere in un ambiente familiare molto ricco e vivo. Era così anche la Cosenza di allora?

«La mia famiglia è stata sempre un po’ atipica. In essa molti temi di oggi c’erano tutti: la laicità, la proiezione al futuro, l’intensa discussione quotidiana su tutto quello che avveniva in Calabria e oltre. Però, c’erano tante famiglie che hanno segnato la città positivamente, penso a Guarasci, a Misasi, a Principe, storie e culture politiche diverse che consentivano un dibattito molto fervido». 

Gli studi dove?

«Il liceo Telesio e poi l’università ad Arcavacata. Il campus era nato nel 1972, io entrai nel ’76. C’erano ancora grandi nomi, Andreatta, Silos Labini, preside di scienze economiche dove mi iscrissi e mi laureai. È stata una bellissima esperienza, anche se all’inizio contò la volontà familiare. Influenzata dalla personalità del mio patrigno, volevo fare medicina. Ho conosciuto ad Arcavacata molti docenti a cui sono ancora legata come Giovanni Mazzetti che allora ci faceva studiare Keynes. Marco Biagi è stato mio professore di diritto del lavoro, giovanissimo, molto carino, le studentesse se ne innamoravano, parlava già di part time ma ci insegnò lo statuto dei lavoratori ed era rigorosissimo quando ci valutava».

Che voto le diede?

«Ventotto. Ricordo anche docenti calabresi. L’attuale rettore, Latorre, è stato mio professore di statistica generale. Con Renato Guzzardi diedi il primo esame, quello di matematica».

La tesi? 

«Nel 1982, in diritto pubblico dell’economia, sulle partecipazioni straordinarie nel Mezzogiorno e le Regioni. Avevo lavorato per un anno pensando alla possibilità di continuare ricerca nell’università». 

Rimase ad Arcavacata?

«Per un breve periodo per partecipare a un concorso. Avevo preso 110 e lode e la sera a cena i professori mi proposero di restare. I candidati erano sedici, fui la sesta, i posti erano due. Quindi, andai in Germania per un contratto con l’università di Saarbrucken. Una città molto simile a Cosenza, ha anche il fiume, in una regione depressa, la più povera. Volevo rompere il cordone ombelicale con la famiglia, svezzarmi e costruire una mia identità».

Provava a camminare con le sue gambe?

«Prima di partire, esattamente la sera del quattro marzo 1983, incontrai a una cena mio marito, che era arrivato a Cosenza nel 1981. Un colpo di fulmine. Non ho desistito. Tra l’altro mio marito era fidanzato ufficialmente e stava per sposarsi, mancavano due mesi al matrimonio. Fece saltare tutto nel giro di quindici giorni. Io comunque partii per la Germania. Ci vedevamo nei weekend a Como». 

Le chiedeva di tornare in Calabria?

«No. Questa forse è stata la forza del nostro rapporto di coppia. Il grande rispetto delle scelte dell’altro da parte di entrambi. I tempi non erano così pronti per le convivenze per cui lui mi propose: stiamo a 1500 chilometri di distanza, almeno possiamo stare insieme sposandoci. Un grande gesto di generosità e di fiducia».

Lei cosentina, Nicola reggino. Una bella miscela.

«Molto diversi. Mio marito aveva delle caratteristiche tipiche dei reggini, era una persona chiusa e introversa, molto diffidente. All’inizio. Con me no. Siamo riusciti quasi subito a entrare in comunicazione profonda. Mi definiva la sua migliore amica. Avevamo anche differenze culturali. Nel 1970 lui aveva difeso Reggio capoluogo».

Matrimonio nel duomo di Vibo Valentia. Come mai?

«Prima ci dovevamo sposare in casa, poi ci furono dei problemi familiari. Così decidemmo di sposarci a mezza strada in modo da rendere più facile l’arrivo delle rispettive famiglie».

Dirigeva già la squadra mobile di Cosenza?

«No. Era il vice di Salvatore Lanzaro. Era arrivato da Genova su richiesta del questore dell’epoca. Cosenza la conosceva molto poco, però riuscì ad inserirsi abbastanza velocemente nella città pur col suo carattere timido. Apprezzava molto la compagnia degli amici veri, era sempre un passo indietro, era molto riservato, sì riservato».

Lo si capiva anche vedendo le sue immagini.

«Era una persona molto elegante nei tratti, nei modi, nel rapportarsi con gli altri. Forse questo è il motivo per cui i giornalisti romani lo definivano un poliziotto atipico. Aveva un aplomb piuttosto inglese, era molto ironico, ma era anche molto reggino per il sarcasmo, frasi brevi ma coincise».

Come fu la sua esperienza cosentina?

«Non facile. Perché Cosenza non era nel periodo più tranquillo. In quegli anni ci furono scontri tra i clan, tra la vecchia e la nuova emergente ‘ndrangheta. Si sosteneva che la ‘ndrangheta non esisteva, quella vera era reggina, al massimo nella Locride. Invece Nicola cominciò a sottolineare il contrario e diede anche una collaborazione in termini statistici a Pino Arlacchi che allora era all’università, per dimostrare che c’era stato un passaggio dal gangsterismo all’associazionismo ‘ndranghetistico. Furono anni abbastanza caldi». 

Gli anni dell’omicidio di Sergio Cosmai, direttore del carcere.

«Mi toccò molto emotivamente. Ricordo ancora tutto: il giorno in cui è avvenuto, il come, il dolore nostro, poi l’affanno di Nicola anche dopo anni a Roma quando fu al centro Criminalpol. E ricordo queste cose perché ci fu un incrocio strano. Cosmai fu ucciso, dopo poco tempo Nicola fu sotto scorta perché cominciavano le minacce. Fummo costretti a fare un’esperienza all’estero più per motivi di prudenza che per altro».

Dove andaste?

«In Australia. Lui lavorò nell’International Crime Authority sulle ‘ndrine calabresi che controllavano la droga che partiva da lì e arrivava sulle coste ioniche. Era il 1988».

Poi tornaste in Italia.

«A Roma, Nicola passò alla squadra mobile. Io frattanto avevo fatto una breve esperienza a Cosenza come commercialista nello studio Scarnati, era nata la prima figlia. Decisi di entrare in pubblica amministrazione. Non che mi piacesse molto, però in quel momento era la scelta più razionale. Entrai al ministero delle finanze dove ho lavorato per undici anni. Un’esperienza molto formativa, ma la più dura è stata quella successiva di quasi sette anni alla presidenza del consiglio dei ministri. Era l’aprile ’99, lo scriva, per piacere, perché non sono andata lì con Berlusconi. Intanto era nato il mio secondo figlio. Le sottolineo la data: 4 marzo 1993».

Perché?

«Dieci anni dopo la conoscenza con Nicola, che avvenne il 4 marzo 1983. Mio figlio nacque il 4 marzo 1993. Mio marito morì il 4 marzo 2005. Una coincidenza impressionante».

Il fato?

«Non ci credo, però la coincidenza l’ho notata. Sono fortemente convinta del libero arbitrio».

Nel frattempo suo marito entrava nei Servizi. Lei come si trovò?

«Io che sono una persona molto comunicativa mi trovai in un ambiente ovviamente molto riservato, totalmente chiuso all’esterno, con logiche di estrema discrezionalità, dove tutto avveniva senza alcun parametro ma solo con criteri soggettivi. A un cambio di direttore ti puoi trovare dall’altra parte. Una realtà che cambierà con la riforma a cui stiamo lavorando noi e le forze di opposizione». 

Nicola come si trovò in questo mondo?

«Il momento difficile fu quando col cambio del capo della polizia, il prefetto Masone a cui era molto legato, con Giovanni De Gennaro, col quale pure aveva un ottimo rapporto, fu in qualche modo costretto a fare dei passi indietro. Questo può capitare in qualsiasi amministrazione, e naturalmente crea frustrazione e insoddisfazione. Anche a Nicola, soprattutto perché non c’era alcuna motivazione. Tuttavia mio marito era non solo riservato ma anche rispettoso dei ruoli istituzionali per cui accettò il cambiamento. Lui allora stava al Servizio Centrale Operativo, per un periodo lavorò come consulente ministeriale con Alessandro Pansa, attuale prefetto di Napoli, che ricordo sempre con affetto. Però Nicola era un operativo e il ministero gli stava stretto. Stette anche male fisicamente».

Quando ebbe l’incarico che poi doveva portarlo all’operazione più tragica?

«Prima gli venne offerto di andare a gestire l’ufficio immigrazione della questura di Roma, un ufficio disastrato, con quarantamila fascicoli fermi, corruttela diffusa. Riuscì in quello che sapeva fare benissimo: ridare regole. La sua speranza comunque era quella di tornare a essere operativo. Ma passava di delusione in delusione, e questo lo fece soffrire. E allora scelse il Sismi, perché era una sfida e perché poteva essere una cosa importante per il paese».

E così si occupò di sequestri nell’area più calda del mondo. 

«Nell’area mediorientale è andato almeno per un anno e mezzo». 

Lei era preoccupata?

«Quando si fanno scelte di condivisione di questo tipo non si può non essere consapevoli dei rischi che l’altro corre e che, quindi, indirettamente anche tu corri. Di rischi – ricordi l’esperienza cosentina – mio marito ne aveva corsi tanti nella sua vita. Però, devo dire che – e posso dirlo anche per le mogli di tutti coloro che fanno questo tipo di lavoro – la paura viene accantonata, rimossa altrimenti non si potrebbe vivere».

Ma lei in quell’anno e mezzo rimosse la paura?

«La mia ansia aumentò. E non posso dire che quando era assente, ed era molto assente non solo quando andava in Iraq ma anche in altri paesi dove le situazioni non è che fossero più semplici, non ho avuto paura. La esprimevo poco perché non ho mai voluto condizionarlo. Non gli chiedevo di rimanere, forse oggi è il mio unico cruccio soprattutto alla luce di quello che è avvenuto dopo. Aveva un ruolo molto alto e non è che doveva giocare lui sempre in prima persona. Questo avrei dovuto chiederlo come moglie e come madre dei nostri figli. Ora sento la colpa di non essere stata più invasiva, di non aver interferito». 

Sapeva che faceva?

«Sapevo tutto. Sapevo dov’era e cosa faceva. Ogni tanto mi chiamava, cercava di mettersi in contatto telefonico, a volte mi faceva capire che sperava di chiudere le trattative».

Poi quel 4 marzo 2005 le arrivò la notizia. Come?

«Quella sera ero uscita un po’ prima dal mio ufficio perché era il compleanno di mio figlio. In auto ho fatto una telefonata sul cellulare di mio marito che avevo sentito la mattina quando aveva cercato il bambino per fargli gli auguri. Poi non l’avevo più sentito. Ho chiamato e ho sentito una voce in arabo, quella che normalmente dice che il numero non è raggiungibile. Ovviamente non capivo perché ma sapevo che era in Iraq quando sentivo questo tipo di voce. Ed era in Iraq. Poi lui mi chiamava attraverso altri cellulari. In quel momento non era acceso e dopo ho capito perché. Io ho chiamato nel momento in cui lui è stato ucciso. Era all’incirca proprio quell’ora. Gli ho mandato un messaggio che probabilmente non ha mai ricevuto. Poi sono arrivata a casa».

Chi glielo ha detto?

«Ho trovato la casa piena di persone. Ho capito al volo che qualcosa di molto grave era successo. Ci hanno messo tanto a dirmelo, nessuno aveva il coraggio di dirmi la verità».

Tanto quanto?

«Più di quarantacinque minuti. Dicevano che aspettavano delle conferme. I loro occhi mi sfuggivano, non mi guardavano. Io pensavo che era stato rapito dagli iracheni. Sapevo che la Sgrena era stata liberata perché mia figlia mi chiamò per dirmelo. La notizia uscì prima, non ho mai capito come Al Jazira abbia fatto ad averla. Pensavo agli iracheni, vedevo scene di decapitazione, mai e poi mai avrei immaginato quello che era accaduto. Poi mi hanno parlato di un incidente di macchina. Allora ho pensato a un’autobomba. Solo alla fine mi dissero: no, hanno sparato sulla macchina. Anche lì ho pensato agli iracheni. E loro: no, sono stati gli americani. Non riuscivo a capire. Come gli americani? Perché?».

Tutta l’Italia ebbe un moto di commozione per il gesto di suo marito che morì per coprire col suo corpo Giuliana Sgrena.

«Tutta l’Italia, ma anche all’estero. È un caso che ha suscitato non solo un’emozione ma anche una riflessione sulla mancanza di diritto internazionale di alcuni paesi».

Ha pensato mai che suo marito sarebbe vivo se si fosse comportato diversamente?

«Il comportamento di mio marito non mi ha stupito. Nicola è stato ricordato come una vittima del dovere. È un eroe appunto per il suo gesto di sacrificio e generosità. Le dico che non poteva essere che questo. Lo hanno capito anche i suoi figli. Nicola veniva da una famiglia molto cattolica, ha fatto lo scout per moltissimi anni – a Reggio c’è una delle comunità scout più grosse -, aveva un sistema di valori che va oltre l’adempimento del dovere, che in quel caso era già compiuto. Quello che ha fatto era una risposta ai suoi valori morali. Non è stata una reazione istintiva, ma estremamente razionale. Se fosse stato istintivo avrebbe fatto quello che ha fatto chi guidava, per esempio, quello che ha fatto anche Giuliana. So oggi che la perizia balistica ha dimostrato che lui si è piegato su Giuliana». 

Cosa si augura?

«Un primo successo, impensabile due anni e mezzo fa, è chi si stia celebrando un processo. Il secondo è che la presidenza del Consiglio dei ministri si è costituita parte civile. Mi auguro che si possa accertare la verità e condannare tutti i responsabili». 

Come si supera una tragedia come la sua? Con la responsabilità verso i figli?

«No, mi perdoni. C’è una responsabilità verso i ragazzi ma se fosse questo avrei fatto la mamma. Io ho temuto che si volesse far cadere il silenzio sul caso che era molto, molto scomodo. Le mie scelte successive nacquero da una reazione da cittadina che chiedeva legalità. Sono andata in giro per l’Italia, e durante questi incontri quando sostenevo la necessità di rispettare le regole, notavo che la gente mi chiedeva di continuare: lei ha coraggio, noi siamo con lei». 

E così ha deciso di impegnarsi attivamente in politica?

«Quando mi proposero di candidarmi, dopo essermi consultata con i miei figli che per me sono le persone più importanti, decisi autonomamente e accettai la candidatura leggendola come una continuità di questo impegno».

È anche una testimonianza?

«No, attenzione, è un impegno. Se lei guarda la mia attività in Parlamento vedrà che la mia non è una testimonianza. Anzi per assurdo da quando ho questo ruolo io non ho mai parlato da senatrice del caso Calipari. Ho sempre distinto i ruoli. È uno stile». 

Non pensa di essere un simbolo?

«Non voglio esserlo. Qualcuno – e non chi mi ha candidato ma chi non voleva che mi candidassi – ha cercato di chiudermi in questo ruolo. Anche in Calabria c’è chi mi ha definito donna-simbolo o donna-immagine. Non lo sono. Io sto lavorando per la politica, credo nella politica, ho avuto il coraggio di fare le mie scelte, mi sono tesserata nei Ds, sono impegnata nella costruzione del Partito Democratico perché credo in questo percorso».

Rosa Villecco Calipari. Anche nel cognome un impegno che continua?

«È chiaro che quello che sono oggi è il frutto di tutta un’esperienza, anche quella drammatica, di una vita».

I suoi figli come vivono questo suo impegno?

«I miei figli hanno condiviso la scelta, l’hanno appoggiata e sostenuta. Mia figlia, la più fragile, mi disse: mamma, ti è sempre piaciuta la politica, perché dovresti dire di no? Certo, i miei figli non vivono una situazione facile. Loro vogliono rimanere nel privato, per loro la mamma lavora, ha solo cambiato lavoro. Mi vorrebbero più con loro, però capisco che sono fieri e orgogliosi della loro mamma».

Un ricordo di Nicola?

«… no… vuole un ricordo, un fatto?».

Qualsiasi cosa.

«Nicola non lo ricordo. Nicola vive con me. Per me non è mai morto. Lui e io siamo insieme. Non lo penso come una persona che non c’è più. Le dico una cosa. Io avevo paura degli elicotteri. Nicola amava il volo, amava l’acqua, amava il mare. Non ho mai voluto volare in elicottero, l’unica volta che ci sono salita ho avuto il panico. Bene, io oggi salgo sugli elicotteri militari e sono tranquillissima e mi sembra che io sia anche lui. Quindi, Nicola c’è». 

Franco Piperno

Accusato di delitti terribili – ventitré omicidi, compreso quello di Aldo Moro -, ritenuto uno degli ispiratori del terrorismo o, se si preferisce, un “cattivo maestro”, ha consumato la sua vita tra lotte e insegnamento, tra latitanza e carcere. Personalità complessa e per tanti versi enigmatica, ha il fascino, per molti perverso, dell’intelligenza e dell’affabulazione, ha un rapporto forte con la Calabria dove è nato, lavora e vive. Odiato, amato, temuto, ricercato, sospettato, Franco Piperno custodisce segreti importanti della storia italiana, qualcuno si intuisce tra le parole, i toni, gli accenti, i puntini sospensivi, il movimento degli occhi. Che si illuminano quando parla di una ragazza dal nome strano, Svava.

Dove nasce?

«A Catanzaro nel 1945». 

Famiglia borghese?

«Mio padre faceva il direttore didattico. Discendeva da ebrei venuti in Italia subito dopo l’Unità d’Italia nella zona del Papato: Pipero diventò Piperno con le leggi razziali del fascismo. Mia madre era della Sila dove il mio bisnonno, che aveva fatto un po’ di fortuna, aveva comprato delle terre, e mio nonno, quando fu costruita la diga dell’Ampollino, si ritrovò un emporio come quelli orientali dove si vendeva tutto, specialmente agli operai del Nord che lì lavoravano».

Dove ha studiato?

«A Catanzaro, l’università l’ho fatta a Pisa, poi scuola di specializzazione a Roma, ho insegnato al Politecnico di Milano, sono ritornato qua, un po’ prima dei guai giudiziari mi sono trasferito a L’Aquila».

Che città era Catanzaro?

«Da ragazzo ho avuto un fenomeno di rigetto della mia città. Mi sembrava ipocrita. Mi sono iscritto alla Fgci – ero per la verità l’unico iscritto, – e a parte alcuni funzionari di partito, persone autentiche che avevano occupato le terre, c’erano avvocati comunisti, che per quanto considerati al pari dei criminali dai benpensanti erano comunque dei comunisti addomesticati».

Perché decise di iscriversi alla federazione dei giovani comunisti?

«Intanto per il venir meno del mio rapporto con la religione. E poi tra il ’57 e il ’58 sono andato da un mio zio a Melito Porto Salvo che aveva un po’ di terra e lì ho visto i miei cugini e altri ragazzi lavorare in condizioni dure, a piedi scalzi. Mi interessava meno la cultura contadina dell’insalata di pomodori o della marmellata d’amarene».

Fu la scoperta dell’ingiustizia?

«Soprattutto dell’ipocrisia pubblica. A scuola a Catanzaro quando sollevavo dei problemi – c’era anche Olivo, l’attuale sindaco – il preside non mi rispondeva, semplicemente mi puniva. Da piccolo ho letto Campanella e mi sorprende che nel descrivere il Sud non gli viene mai in mente di parlare di povertà e di mancanza di lavoro, dice giustamente che il problema è la menzogna e l’ipocrisia del Sud. Veda, qui in questa università di Arcavacata la maggioranza dei ragazzi sono considerati nullatenenti ma arrivano con auto di grande cilindrata. Al Sud, non solo in Calabria, si “chiagne e fotte”».

Un giudizio pesante sui meridionali.

«No, ci sono anche valori positivi come l’amicizia, la solidarietà, la famiglia, ma la dimensione pubblica è inesistente o quasi».

Come nasce la sua passione per la fisica?

«Io ed altri amici subivamo l’influenza straordinaria di Giovanni Mastroianni, un professore di filosofia del liceo di Catanzaro. E fino all’ultimo sono stato indeciso tra filosofia o fisica. Non mi piaceva di mio padre, professore di filosofia, il ragionare in libertà che invece in fisica è costretto alla concretezza. Mi sembrava che la fisica fosse una filosofia ma meglio fondata. Evidentemente mi sbagliavo, perché quando andai a fare il concorso in Normale mi aspettavo che esigessero una dissertazione, non so, del tipo filosofia della natura, e invece mi chiesero un calcolo su come si orienta una vela se c’è un vento o una corrente di un certo tipo o di un altro». 

Pensa di aver fatto una scelta sbagliata?

«No, la ritengo ugualmente sbagliata di come se avessi fatto filosofia. All’università ho deciso di restare a fisica perché ho pensato che a quel punto un errore valeva l’altro». 

Alle sue spalle c’è la foto di Einstein. È un caso?

«Einstein tra i fisici del Novecento è stato una figura guida, per la lotta al nazismo ma anche per la posizione contro l’uso delle armi atomiche e per i suoi atteggiamenti libertari. Un grande fisico e una straordinaria figura morale. Lui è uno di quei quattro che hanno salvato l’onore della fisica abbastanza compromesso dopo la brutta luce della bomba atomica su Hiroshima».

Perché si iscrisse alla Normale di Pisa?

«Ho seguito il consiglio del professore di filosofia e feci il concorso in Normale. Dopo due anni sono stato cacciato perché avevo preso due ventiquattro, e il massimo consentito era prenderne uno solo. Nessuna discriminazione. È una scuola molto selettiva, del resto ti davano da mangiare, da dormire e anche diecimila lire al mese».

Comunque non ha abbandonato il suo impegno politico?

«A Pisa ho conosciuto un altro partito comunista. Molti di quei dirigenti avevano fatto la Resistenza, c’era soprattutto l’organizzazione delle Case del Popolo, il ferroviere, il professore universitario, c’era un’aria straordinaria che ancora oggi rimpiango, in Toscana il partito comunista era davvero inserito nella società a differenza della Calabria dove c’erano figure importanti ma che io definirei liberali piuttosto che comunisti e socialisti».

Quando si stacca dalla casa madre comunista?

«In realtà abbastanza presto. Io e altri ventidue studenti di Pisa fummo radiati dal partito nel 1967. La rottura con il partito era avvenuta già nel 1964 quando facemmo la prima occupazione ponendo, con grande scandalo dei docenti comunisti, questioni come il controllo degli studenti sulla prestazione didattica dei professori. Non c’ero solo io, c’era Adriano Sofri, c’era un’altra figura importante anche se meno conosciuta, Gianmario Cazzaniga. Avevamo sollevato in termini nuovi il tema della scienza e poi da lì siamo passati alle fabbriche dove davamo volantini della sezione universitaria che il partito non voleva. In una fabbrica della Marzotto lavorammo contro i bassi salari mentre il partito comunista faceva le manifestazioni contro le basi Nato. E fui radiato. Un giorno Giancarlo Pajetta mi disse che dovevo considerarmi un fortunato perché la radiazione era meno della espulsione. Ci chiesero di fare autocritica, ma le cose ormai avevano preso un’altra piega».

Che avrebbe portato al terrorismo.

«Sì, ma io mi muovevo in altro modo. Nel 1976 venni a Cosenza, e qui incontrai Berlinguer, che avevo conosciuto a Parigi nel Maggio Francese, che infatti venne a trovarci con Alberto Jacoviello, giornalista dell’Unità e marito di Maria Antonietta Macciocchi che era corrispondente da Parigi del giornale. Non è che non facessi politica ma ero su un’altra strada».

Sta di fatto che lei ha dovuto rispondere di accuse pesanti?

«Cinquantadue per la precisione. Tra i capi di imputazione c’erano ventitré omicidi, diverse rapine, altre cose che non ricordo e anche intralcio al traffico.  In Canada il giudice, che esaminava la domanda di estradizione, disse: gli italiani non si sono scordati niente».

Com’è finita giudiziariamente?

«La maggior parte delle accuse me le hanno tolte subito, poi hanno eliminato una prima volta Moro ma, quando sono tornato in Canada, per rendere più convincente l’istanza di estradizione lo hanno rimesso».

Lei era accusato di essere l’ispiratore di via Fani, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro?

«Al giudice dissi subito che molti dei delitti addebitatimi erano avvenuti quando non ero in Italia. Lui disse: ma noi non la accusiamo di essere l’esecutore materiale. Risposi: ma così potete accusarmi di tutto. E lui: le daremo tutto. Così avvenne, ma fu una mossa eccessiva perché all’estero hanno avuto dei dubbi sulle accuse».

Ci parla di via Fani?

«Ero in attesa di partire per l’America. Nel frattempo sequestrano e uccidono Moro, e accusano una mia moglie, Fiora Pirri Ardizzone, di essere materialmente presente a via Fani. Lei aveva gli occhi a mandorla e una delle ragazze che conoscevo, Adriana Faranda, aveva anche lei gli occhi a mandorla». 

Ma quando ha saputo di via Fani che ha pensato?

«Per dirla tutta, che loro facessero qualcosa di eclatante me l’aspettavo perché la crisi dei gruppi extraparlamentari aveva fatto sì che fra i militanti che si occupavano del servizio d’ordine, che erano quelli più propensi allo scontro e qualche volta maneggiavano anche le armi, c’era stata un’emorragia tanto da Potere Operaio tanto da Lotta Continua verso le Brigate Rosse. Sapevo che loro a Roma avevano una serie di contatti ed avevano determinazione e una certa preparazione. Che poi l’obiettivo fosse Moro o Andreotti… Sa, io da tempo pensavo che avrebbero puntato a Andreotti, perché abitavo a via dei Coronari e vedevo dalla finestra che Andreotti (e anche Giacomo Mancini) andava a piedi dal Parlamento a casa sua, alla fine di Corso Vittorio Emanuele. Mi ha sorpreso che sia stato colpito Moro ma non il fatto che avessero fatto una cosa alta e drammatica».

Ha pensato che potevano risalire a lei?

«Quando hanno preso mia moglie era evidente che sarebbero arrivati a me o a Toni Negri. Non subito, ma ci arrivarono. Lei faceva delle cose veramente rischiose. Ma io quando sono venuto a Cosenza e mi hanno affidato il nuovo dipartimento di fisica, ero completamente preso da questa attività straordinaria e non pensavo ad altro. E poi ho avuto una rottura, che è stata anche una rottura personale, con mia moglie per il fatto che lei era una di quelle compagne che resistevano». 

Rottura perché non condivideva la lotta armata?

«In realtà io nel 1973, con la crisi del petrolio, mi ero reso conto che era cambiato lo scenario di classe. Mi aveva impressionato che la quota di assenteismo dal 20-23 per cento fosse scesa al 2-3 per cento. Le cose in Italia erano cambiate. Potere Operaio si era sciolto. Mentre nel ’68 tra gli operai della Fatme di Roma eravamo più forti della Cgil e sostenevamo la paga uguale per tutti. Pensavamo di potercela fare. Intanto erano nati i consigli di fabbrica, poi la crisi del petrolio e il mutamento profondo, di cui si ebbe piena cognizione nel 1980 con la protesta dei quadri dirigenti della Fiat».

I quarantamila in piazza a Torino…

«Tempo fa a casa di Maurizio Barracco ho incontrato Cesare Romiti, che si ricordava di quegli anni e mi ha detto: voi non avete idea di che forza avevate nelle fabbriche. Mi ha raccontato che in quegli anni arrivò una delegazione giapponese e loro la mandarono in giro da sola nella fabbrica perché gli operai, se vedevano lui e Agnelli, avrebbero lanciato bulloni».

Quando tempo è stato in carcere?

«Con i premi ho fatto otto mesi dei due anni di condanna, una parte a casa mia».

Condannato per che cosa?

«Per associazione sovversiva. Credo di essere l’unico italiano condannato per questo reato. Anche mia moglie ha avuto lo stesso reato ma le sono stati addebitati anche reati specifici». 

Si lamenta?

«Per dieci anni sono stato fuori Italia. Ma non posso lamentarmi. L’università, sia pure con molte resistenze, mi ha ripreso. Mi è stata tolta subito l’interdizione dai pubblici uffici. Ciò che mi offende è che mi avevano accusato di fatti gravissimi come ventitré omicidi. Cosa possibile quando c’è una guerra civile, ma erano fatti in cui non c’entravo. Loro i comunisti – casa di mia suocera per rapporti familiari era frequentata da Emanuele Macaluso – sapevano benissimo che non c’entravo, ma mi ci hanno tirato dentro anche sul tema della trattativa per liberare Moro».

Conobbe Giacomo Mancini in quella fase?

«Giacomo è una conoscenza che risale al liceo. Il mio professore di greco, un socialista, si chiamava Riolo, ci portò ad un processo per diffamazione contro Mancini intentato dal presidente della Cassa di Risparmio locale. Gli strinsi la mano. Fu condannato a centoventimila lire di multa, per il giudice un modo di dire che aveva ragione. Lui non aveva vinto, ma per noi aveva vinto. Poi l’ho perso di vista».

Fino a quando?

«Erano passati molti anni, io ero segretario nazionale di Potere Operaio e Lino Jannuzzi, molto amico di Giacomo, mi ha cercato perché Giacomo voleva parlarmi. Sono andato nel suo studio a via Della Croce. C’erano i moti di Reggio. Lui aveva qualche preoccupazione sui fascisti, noi invece pensavamo che bisognava stare fra la gente. C’era anche un cattivo rapporto tra lui e la città di Reggio. Non se ne fece niente. Poi fui a pranzo a casa sua a piazza Cairoli. L’ho di nuovo perso di vista. Quando sono venuto qui, il primo anno, mi ha invitato per il Capodanno a casa sua. E siamo diventati amici. Ho fatto anche il suo assessore».

Che giudizio ne dà?

«Non vorrei esagerare con la retorica, ma lui era uno statista. Ho conosciuto Ingrao, che mi ha sposato, ho conosciuto altri dirigenti comunisti, ma Giacomo aveva un’esperienza di governo. Ho avuto l’impressione che fosse un politico che non si piegava, poi magari non affermava tutte cose giuste. Nell’orazione funebre ho detto che non ritengo Giacomo un socialista per come io intendo la parola».

Lui cosa apprezzava di lei?

«Stimava la mia indipendenza di giudizio, era affascinato dal fatto che mi lasciassi prendere dal ragionamento, che è anche il mio guaio».

Era spregiudicato?

«Aveva la spregiudicatezza del borghese meridionale. Grande cultura accompagnata da grande cinismo».

Lei ha fatto l’assessore alla cultura a Cosenza. Organizzò molte feste?

«Soprattutto la cosa buona fu quella di recuperare il centro storico prima che ci fossero i finanziamenti. Le famiglie patrizie erano già tutte andate via, quello era diventato il luogo della delinquenza. Abbiamo cominciato a inventare delle ricorrenze, come Carlo V che in realtà era venuto a gennaio e noi lo celebrammo a giugno, abbiamo fatto “I falchi di Federico”, tutte cose che avevano il carattere di mirabilia. Era un modo per dire alla gente: guardate che avete una storia. E Cosenza si prestava perché è stata una città libera, al contrario di Catanzaro e Reggio». 

Cosenza è un po’ orfana di Mancini. La sua assenza è una presenza molto forte?

«Sì, è senz’altro vero. Con Giacomo ero amico ma anche qualcosa di più, quasi un parente perché lui mi ha anche protetto personalmente. Premesse tutte queste cose, dico, come farei con mio padre, che tuttavia Giacomo proprio per la formazione di alto borghese aveva anche un fondo autoritario. Intendiamoci, sto parlando di una personalità notevole. Però, e l’ho detto anche a lui, malgrado abbia contato moltissimo in questa città alla fine non è riuscito, salvo suo nipote – è una brava persona, ma è più un caso di familismo – a lasciare una scia di persone. Perché era una persona che tendeva ad accentrare tutto e, salvo rari casi come il mio, lui non sopportava chi frapponeva ostacoli. Lo faceva senza calcolo. Però, era una personalità che alla fine schiacciava, per cui o stavi con lui o contro di lui. Questo è stato il guaio per la città. Forse il merito maggiore di Giacomo sarebbe stato che la città non avesse avuto più bisogno di una personalità così grande come la sua. Come dice Brecht, guai al paese che ha bisogno di eroi».

Lei è anche grande amico di Eva Catizone, che raccolse l’eredità di Mancini.

«Io conoscevo e collaboravo con il padre di Eva. Lei era piccolina, avrà avuto nove-dieci anni. L’ho vista crescere, poi sono andato in Canada. Quando sono ritornato, lei è venuta alla nostra radio Ciroma. Con lei Giacomo fece una mossa intelligente: una figura della borghesia cittadina, giovane e donna, alla guida della città». 

A proposito di donne lei ne ha avuto molte. Ma non è di questo che è invitato a parlarci, semmai del frutto di una di queste storie. Lei ha scoperto di essere padre a sessant’anni. Ce lo racconta?

«Ho una figlia, Svava, di ventidue anni. Per me è stata un’esperienza unica, anche incredibile. Sapevo di avere una figlia, ma finché all’età di sedici anni non si è fatta viva non la conoscevo. Avevo degli amici che ogni tanto mi parlavano di lei. Essendo un irresponsabile, fin da ragazzino ho pensato di non volere figli e in tutti i modi ho sempre evitato di averne, invece questa signora, una canadese sposata con un islandese, ha deciso di tenerla perché non aveva figli e aveva difficoltà ad averli con il marito. Tutto questo accadeva quando ero in Canada. Un giorno sul computer ho trovato una mail in francese di una che diceva che voleva venirmi a trovare. All’inizio ho pensato che fosse una tipa che avevo conosciuto. Non solo non le ho risposto, ho anche evitato di leggere le altre lettere. A un certo punto c’erano troppi messaggi andati indietro e lei mi ha mandato una mail: sono tua figlia. Ho avuto una commozione vera. L’ho chiamata e pian piano siamo diventati amici. È una persona straordinaria».

Svava ha già avuto grattacapi politici e giudiziari. Questione di Dna?

«È una no global, è stata anche arrestata alle manifestazioni contro il G8. Evidentemente, lei sapendo che io mi sono impegnato per fare un po’ di male in giro, ha pensato di emularmi… Ma sono cose di ragazzi. In cambio va molto bene. Sa, io poi sono un piccolo borghese e la prima cosa a cui tengo è se studia o non studia. Lei fa relazioni internazionali, lavora per mia fortuna con le organizzazioni non governative, conosce un sacco di lingue. Sono orgoglioso quando vado in giro con lei, conosce perfino l’islandese, per via di suo padre, parlato da duecentomila persone appena».

Diceva che siete amici.

«Questo probabilmente è favorito dal fatto che l’ho conosciuta quando era grande, e non ho avuto quel rapporto di tenerezza iniziale che credo sia fondamentale nella paternità. Mia figlia è importante. E poi gli elementi significativi della mia vita sono volti di donne a cominciare da quello di mia madre, Maria Nicola».

Che vive dove?

«A Cosenza. Tutte le volte che posso vado a mangiare da lei la domenica. È anche una donna difficile, di grande energia. Pensi a quello che ha passato con un figlio latitante o in carcere. Per mio padre è stata effettivamente dura. Lei no, ha tenuto con grande dignità. Il matriarcato è la grande forza della società meridionale».

Renato Nisticò ha scritto un libro, “L’Arcavacante”, su questa università ricostruendo in forma di romanzo il clima degli anni di piombo. Parla di lupi e di un lupo mannaro. Lei sa chi è il lupo mannaro di quegli anni?

«Mio nonno, che stava in Sila, aveva cani e anche un lupo. Poi ho letto Lorenz e “Zanna Bianca”. E quando sono uscito di prigione un mio amico mi ha detto: Franco, che regalo vuoi? Ho risposto che volevo un lupo per accoppiarlo con la mia cagna per rinsanguarla avendo letto che il cane ha dello sciacallo e del lupo. Poi ho lasciato qui cane e lupo perché non potevo portarli alla frontiera. Ho scritto un racconto sull’argomento, i disegni li fece Pazienza». 

Ma non ha detto chi è il lupo mannaro?

«Difficile dirlo, perché l’autore finisce con il mettere diversi caratteri nel suo romanzo».

Che giudizio dà del terrorismo?

«Quello di allora o quello di adesso?».

Il terrorismo che la vide in qualche modo protagonista.

«Credo che il terrorismo sia stato la conseguenza della sconfitta. Non sarebbe neanche giusto parlare di terrorismo, meglio parlare di lotta armata perché non è che hanno messo le bombe in un cinematografo, hanno fatto nella maggior parte dei casi, soprattutto per quanto riguarda le Br, omicidi mirati. A via Fani hanno tagliato le gomme della macchina del fiorista per evitare di ammazzarlo. Non sto mica dicendo che hanno fatto bene. Conoscevo molti di loro, non solo quelli che sono venuti dal mio gruppo. La mia impressione è che il loro rafforzarsi fosse legato all’indebolirsi delle possibilità di massa. Un fenomeno sociale destinato alla sconfitta ha dei colpi di coda micidiali. Forse un’amnistia a quel tempo avrebbe consentito di evitare la lunga scia, che, guardi, non è mica finita. Le Brigate Rosse non sono state sconfitte sul piano politico ma su quello della repressione dello Stato, che, beninteso, era anche inevitabile. Ma quella generazione non ha cambiato idea, e nell’immaginario dei giovani di oggi che si ribellano i brigatisti restano un simbolo».

Lei è ancora comunista?

«Sì. Più che un partito politico immagino un modo di vivere in cui uno privilegi le cose comuni. Per me ci sono tracce di comunismo nella Crotone di Pitagora, nei gesuiti che vanno in America Latina, nei kibbuz israeliani. Penso che la differenza tra gli uomini non debba tradursi in una disuguaglianza».

Carmela Franklin Vircillo

Colta, potente, italiana, americana. Calabrese. Insegna latino medievale alla Columbia University di New York, soprattutto è la direttrice dell’American Academy di Roma, porta di ingresso della cultura d’oltreoceano in Italia, un’istituzione che si avvale di fondi privati raccolti tra i magnate americani dell’economia, collocata sul Granicolo (undici edifici distribuiti in un parco lussureggiante di oltre quattro ettari) e che ospita in 67 appartamenti artisti soprattutto americani. Investimenti in cultura per milioni di dollari, una cifra non monetaria dà l’idea dell’impegno: nella biblioteca sono contenuti 134mila volumi. Nome meridionale, cognome calabrese, Carmela Franklin Vircillo aveva una passione: lo studio.

Vogliamo partire da Santa Caterina Albanese dove lei è nata 58 anni fa?

«Sì. Ricordo tutto, dove sono nata, come sono cresciuta, la mia famiglia, le mie maestre, i miei maestri, la mia scuola, i miei parenti, i miei giochi. Dopo tutto, sono partita da Santa Caterina Albanese che avevo quattordici anni anche se l’ultimo anno ho frequentato il quarto ginnasio a Cosenza dove ero a pensione in una famiglia. La scuola media l’ho fatta a Malvito viaggiando con il bus che ci prendeva ogni mattina quando non dimenticavo o quando non era rotto, e ci portava a Malvito».

E quando era rotto?

«A piedi. Quattro-cinque chilometri. Una bella passeggiata. Per questo io sono diventata una grande jogger. L’esperienza dell’infanzia mi ha convinto di essere atletica, ma anche da bambina lo ero abbastanza».

Suo padre?

«Era un professore, mia zia, Irma Ippolito, è un medico e sta a Cosenza».

Come mai la sua famiglia andò in America? Da quello che dice non dovette trattarsi di un’emigrazione indotta dal bisogno?

«Diciamo che non era normale, tipica. Non siamo mai riusciti a capire veramente la decisione, che non è stata immediata. Certamente c’era nella nostra come in tutte le famiglie calabresi la tradizione dell’America. C’erano rami della famiglia di mia madre che erano andati in America: mio nonno materno, che era quasi cresciuto lì, aveva sposato mia nonna che era di Cerreto, ed era un matrimonio combinato, ma ogni tanto tornava dall’America e lo fece definitivamente quando andò in pensione. Fece soldi e comprò proprietà che hanno permesso a mia zia di diventare medico. Nella famiglia di mio padre, anche suo padre era andato in America molto prima che io nascessi, vi era rimasto alcuni anni, aveva guadagnato e aveva comprato una proprietà che si chiama Quartarone. Grazie a questo potette mandare il figlio a scuola, l’altro figlio era rimasto in America».

Da quello che dice sembra che l’America fosse dietro l’angolo.

«Parliamo piuttosto di una tradizione, di un’America come posto di rifugio, alternativo, di crescita. E anche se mio padre era maestro e avrebbe potuto rimanere, non si è mai capito perché andò. All’inizio è andato per un paio di anni e poi è rimasto. Ad un certo punto mia madre gli ha detto: o torni tu o veniamo noi». 

E siete andati voi.

«Nell’agosto del 1964. All’inizio eravamo d’accordo che mia madre e mia sorella più piccola si sarebbero fermate un paio d’anni con papà mentre io e mio fratello maggiore saremmo tornati a Cosenza a finire il liceo. Invece quando è venuta la fine di agosto mia madre non se l’è sentita di farci tornare. Siamo rimasti così, senza preavviso».

A proposito di liceo a Cosenza, ha frequentato il Telesio?

«Sì, la quarta ginnasiale. Sapevo che cosa mi avrebbe dato il liceo in termini di qualità ma ci sono stata poco. Ho incontrato calabresi lungo la mia vita, tra cui il grande Enzo Crea, morto il 20 agosto scorso, che hanno frequentato quel liceo, che mi sembra abbia svolto una funzione molto importante per i calabresi che sono partiti».

A Cosenza stava da sola?

«Ero da sola in una famiglia, e questo ha sviluppato la mia indipendenza».

Quindi in America è rimasta per caso?

«Per caso, e anche per scelta perché a un certo punto papà e mamma mi hanno detto di provare la scuola americana. Una volta cominciata, è durata. Anche l’effetto dello sradicamento non si è risolto fino ad una certa maturità quando abbiamo parlato degli effetti di questo trauma anche se al momento incosciente».

Un mondo nuovo, nuova anche la lingua.

«Ho imparato presto e benissimo la lingua, ero bravissima a scuola. Però si cambia la posizione. Da una famiglia ben conosciuta e ben stimata di un paesino calabrese ad assumere il ruolo di immigrata in una società in cui l’immigrato resta sempre un immigrato».

Dunque, frequenta le scuole americane. Da dove nasce la sua passione per il latino e il greco?

«Ero stata sempre brava a scuola, non solo in latino e in greco ma in tutte le materie, anche in matematica. Vincevo le gare che si facevano anche a New York. Credo che la scelta del latino e del greco per me sia stata determinata dal distacco dalla mia terra, da un modo intellettuale di legarmi ad essa. Era un mio modo di pormi, già a quattordici anni mi definivo una studiosa. Ero superiore a tutte le ragazze della mia scuola, c’era anche una specie di snobismo perché essere bravi in latino e in greco, non in italiano che non ho mai studiato in America perché la consideravo una cosa inferiore, mi sembrava un modo con cui definirmi superiore agli altri nel campo scolastico. Oltretutto era anche una continuazione della scelta del liceo classico, che era considerata la scuola migliore e più difficile».

Con questa scelta, come la definisce lei, snobistica le si aprono le porte dell’America. Come arrivò ad Harvard?

«Con una borsa di studio. Harvard per me è stata un paradiso. Mi sono sentita a casa, queste bellissime biblioteche dove c’erano tutti i libri del mondo, piene di studenti che si interessavano delle stesse cose di cui io mi interessavo, con questi professori che capivano la mia terra, cioè la sua storia e la sua tradizione».

Del resto lei veniva dalla terra della Magna Grecia.

«Ecco. Questo mi dava un certo status. I professori mi avevano accolto bene anche nel liceo americano. È stato un sistema che per me ha funzionato benissimo, perché non è rigido come quello italiano. Hanno potuto scegliere per me, togliermi da una classe per mettermi in un’altra, mi hanno aiutato molto».

Conferma che l’America premia il merito.

«Assolutamente. Sono sempre grata e ho una grande ammirazione per questa terra, anche se ne conosco i grandi difetti, però continuo a dire specialmente alle mie figlie, che sono molto più critiche di me verso gli Stati Uniti, che ci sono questi esempi e che io non sono l’unica, ad Harvard e anche nelle scuole delle mie figlie ne ho incontrati tanti».

Quanti anni hanno le sue figlie? 

«Una, Barbara, ne ha diciotto ed è al primo anno ad Harvard anche lei, la più grande, Corinne, ne ha ventotto, ha due lauree, si sta specializzando come medico in chirurgia ortopedica. Vedo tante ragazze che vengono scelte e premiate con borse di studio. Le possibilità ci sono».

Suo marito?

«È un americano».

Lei ha sposato l’America in tutto e per tutto. 

«Sì, ero innamorata dell’America. L’idea di sposare un italo-americano non mi è mai passata per la testa».

Alla fine ha poi avuto in sorte di potersi ricolllegare alla sua terra venendo in Italia a rappresentare la cultura americana come direttrice dell’American Academy.

«È stata una grande fortuna. Sono stata borsista all’Accademia nel 1985 e nel 1986, ed è stata la mia prima esperienza di ritorno in Italia come studiosa. Ho potuto studiare alla Biblioteca Vaticana i manoscritti medievali. Sono tornata in Italia venendo in un ambiente che era parallelo a quello che frequentavo in America. Nell’autunno del 2001 sono venuta di nuovo come residence, invitata dal direttore come una senior scholar. Mi trovavo infatti lì durante l’11 settembre. E poi mi avevano sempre invitato a prendere in considerazione la direzione, ma la mia situazione familiare non me lo permetteva (le figlie erano ancora piccole). Poi ho accettato pensando: se non lo faccio ora non lo farò più. Come famiglia abbiamo deciso. Ho partecipato e ho vinto il concorso».

Adesso la famiglia è divisa tra Roma e l’America?

«Le mie figlie stanno a New York. Io e mio marito, che è un ministro anglicano che lavora alla chiesa episcopale e anche per l’Accademia, viviamo a Roma».

Quindi, suo marito è un suo dipendente?

«No, dipende dall’America. Ma questa è una cosa molto americana che è quella di far diventare la coppia una entità sola grazie alla sistemazione dei membri della famiglia».

L’Accademia che fa?

«Intanto diamo borse di studio a giovani artisti americani che vogliamo che vengano formati dalla cultura romana. In questo momento abbiamo un borsista, un giovane ingegnere che è capo di una squadra di ricerca per capire l’arco romano, di cui non si conoscono ancora i segreti. Diamo modo a tanti di venire in Italia e di aprirsi all’influenza italiana, ma abbiamo anche borsisti italiani, la nostra biblioteca, una delle migliori di studi classici e di storia dell’arte, è aperta a scolari italiani. Non prendiamo solo da Roma, ma diamo qualcosa anche a Roma e all’Italia in generale».

E alla Calabria?

«Sono stata un paio di volte all’università della Calabria, ho amici che non avevo prima e mi fa piacere. Però, con l’università della Calabria come istituzione non sono riuscita ancora a sviluppare una relazione. Vorrei portare gli amministratori dell’Accademia nel corso del meeting annuale di maggio in Calabria dove non sono mai stati».

Magna Grecia. Commenti come vuole questi nomi di città. Locri?

«La mafia».

Non la Magna Grecia?

«Anche. Tutti e due».

Reghion?

«Reggio, naturalmente i grandi bronzi. Per me era il porto per andare a Messina da mia zia».

Sibari?

«La grande città della Magna Grecia e anche lo scalo dell’autostrada dove si esce per Cosenza».

Crotone?

«Un altro grande paese della Magna Grecia ma purtroppo anche la mafia».

Insomma un’idea molto pragmatica?

«Quello che si legge nei giornali e quello che si impara a scuola. Il passato non è molto presente. Quando vengo in Calabria non è che il passato è molto messo in evidenza. Le bellezze della Calabria dovrebbero essere più valorizzate».

Se lei per caso dovesse governare la Calabria che cosa farebbe?

«Migliorerei l’educazione, perché so che la formazione nel Sud non sta andando bene. Dati recenti hanno dimostrato che un laureato nel Sud non verrebbe promosso al Nord. Questa mi sembra una grande novità rispetto a quando ero ragazza. Noi eravamo ben educati. È un grande problema per il futuro della Calabria. In secondo luogo cercherei di fermare l’emigrazione, che continua come vedo nella mia famiglia: un mio cugino che abita a Venezia, altri cugini che non trovano lavoro in Calabria. Infine cercherei di rendere la regione più efficiente, più attiva nel fare. Penso alle strade che sono mezze finite, le case che sono mezze finite, l’autostrada che non si finisce mai. L’incompiutezza. È uno scandalo. Al Nord non lo consentirebbero. Al Sud ci perdoniamo».

Il difetto dei calabresi?

«Pensare troppo alla loro famiglia».

Il pregio?

«Pensare troppo alla loro famiglia».

Torniamo a New York. Prima ha ricordato l’11 Settembre. Che ne pensa?

«È una grande tragedia per New York, una grande tragedia anche personale perché noi conosciamo persone che sono morte quel giorno. Però rappresenta anche un momento in cui New York, l’America e il mondo si sono uniti, un periodo in cui c’era un senso di solidarietà che purtroppo non esiste più. Io non condivido le decisioni del mio governo che penso abbiano allargato la tragedia invece di rimarginarla. Né penso di essere l’unica americana a pensarla così sulla guerra in Iraq. Gli americani sono ottimisti. I vecchi ateniesi quando succedeva qualche tragedia avevano l’abitudine di eliminare quel giorno dal calendario, gli americani non fanno così, celebrano la tragedia e nel farlo celebrano il trionfo sulla tragedia, non stanno lì soltanto a piangere. Di qui la delusione di oggi».

Lei è più americana o più italiana, e quanto si sente ancora calabrese?  

«Mi sento sempre calabrese specialmente quando sono in America dove mi sento più italiana, in Italia mi sento più americana. In America penso sempre alla Calabria, a questa terra del Sud. I miei studenti alla Columbia pensano che io sia del Nord, che io sia milanese, perché sono istruita, sono professoressa, ci so fare. Dico loro: voi siete proprio razzisti, io invece sono calabrese del Sud povero dell’Italia».

Lei tra l’altro ha un nome che è tutto un programma.

«Assolutamente. Mi tradisce o mi rivela. Sono molto cosciente della mia storia, che abbraccio ma che mi rendo anche consapevole di quello che non devo fare. Poi io

ho sposato una persona del Mississippi che è la Calabria dell’America, quindi la cultura del Sud fa parte del dna familiare».

Le sue figlie come vedono la Calabria?

«Come la terra che spiega la loro madre, che gliela fa capire. Hanno visitato la Calabria, sono state nella mia famiglia, però non è un posto dove vorrebbero vivere. Una volta che dovevo fare un lavoro alla Biblioteca vaticana ho lasciato le mie figlie in Calabria con i parenti. Corinne voleva fare jogging, però c’era qualcuno che la seguiva perché non voleva che lo facesse, e lei mi ha chiamato: mamma, ma qui è ancora il medioevo? E io: sì, ma tu fa finta di essere un’antropologa e di studiare questa società e di capirla. Penso che anche loro abbiano un affetto per la Calabria, che la conoscano e la capiscano abbastanza bene perché attraverso la Calabria capiscono la loro mamma».

Mamma Calabria?

«Sì, mamma Calabria».

Il lupo mannaro di Arcavacata

di MATTEO COSENZA*

Una notte poco fa, mentre lasciavo la Sila e mi avviavo verso la discesa per Crotone, all’improvviso ho visto una palla luminosa, più gialla che bianca. Ho pensato a un lampione più o meno lontano ma mi è sembrato strano perché a vista d’occhio non c’era una luce che fosse una, solo una fitta e indistinguibile selva scura di centinaia di migliaia di alberi. Ho fermato l’auto e ho osservato meglio. Era la luna. Un’apparizione folgorante, quasi un sole sonnacchioso. Sono rimasto fermo a lungo. Ho anche abbassato i finestrini, per ascoltare il rumore di fuori. E invece neanche un fruscio, una notte calma, eppure la montagna respirava anche se non lo dava a sentire. Non nascondo che provavo un certo timore. Il buio, la solitudine, la mancanza di luci compresi i miei fari nel frattempo spenti, e il sapere che lì attorno a me c’era vita, c’erano animali, c’erano sicuramente i lupi. Ho cercato di distrarmi armeggiando con lo smartphone con il quale, in mancanza di una macchina fotografica, mi sono arrangiato per fare qualche foto: non perfette ma bastevoli per immortalare un’emozione. E poi, nel buio appena rischiarato dalla luna, un po’ pastore errante, ho ripensato ai lupi e al lupo mannaro, perché da quelle parti ce ne sono di veri e c’è anche quello della leggenda.

Ce ne dovevano essere anche a valle, dall’altra parte rispetto alla mia direzione di marcia, al termine della vallata di Cosenza e Rende, laddove inizia la collina di Arcavacata. Cinquant’anni fa, dopo sette mesi di guerra urbana conclusa solo con l’arrivo dei carri armati, alla rivolta di Reggio Calabria che rivendicava il capoluogo della nascente Regione si pose fine con il compromesso del “pacchetto Colombo”, poi rivelatosi un fallimento salvo che in un punto: non a Reggio o a Gioia Tauro ma proprio lì su quell’arida collina rendese-cosentina nacque l’Università della Calabria, un innovativo campus concepito e realizzato da Beniamino Andreatta che raccolse attorno a sé il fior fiore dei saperi di quel tempo.

Un’università nuova in tutti i sensi dove gli studenti soggiornavano e alla quale accorsero di buona lena professori di valore da ogni parte. Nella temperie di quegli anni Settanta non fu una sorpresa che i fermenti del paese, anche quelli tragici del terrorismo, si avvertissero anche in questa cittadella senza confini, un ponte della regione più dimenticata e dolente verso il mondo. E così ci furono attentati e si immaginò che un ruolo lo avrebbe potuto avere il calabrese Franco Piperno, allora leader di Potere Operaio, ma non fu indifferente il fatto che questa era anche la terra di Giacomo Mancini, il più garantista dei politici italiani per di più anche sfiorato in famiglia dal vento brigatista. E così nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1979 il generale Dalla Chiesa dispose un blitz che portò all’arresto di docenti e “fiancheggiatori”. Mi toccò andare lì per “Paese Sera” e scriverne.

Ventisette anni dopo, appena arrivato in Calabria per restarvi a lavorare per un bel po’, ritornai quasi subito in quel luogo. In un’affollata aula dell’università personaggi importanti presentavano un libro. Lo aveva scritto un professore che nei cenni biografici si definiva “un lupo mannaro”. Era stato docente all’epoca del blitz, ora era il bibliotecario della Normale di Pisa. Si chiamava Renato Nisticò e il libro si intitolava “L’arcavacante”. Un romanzo che con partecipazione raccontava quel lontano periodo, mai chiarito nella sua effettiva verità, e faceva riecheggiare l’ululato dei lupi – i terroristi o presunti tali? – che l’abitavano e insidiavano. L’incontro iniziò con un po’ di ritardo perché mancava un relatore e da una bella signora che mi sedeva affianco sentii dire: «Nessuna sorpresa, la rivoluzione non si sa mai quando arriva». E da un altro vocio appresi che forse il lupo mannaro era proprio lui, Franco Piperno, e non l’autore del libro.

Renato mi piacque e gli chiesi di scrivere per il mio giornale. Lo fece con regolarità. Poi una pausa. Infine, quando stavo per sollecitargli di uscire dal letargo, mi arrivò un nuovo pezzo. Lo lessi e lo rilessi. Sentivo che c’era molto di non detto, avvertivo una strana sensazione ma non ebbi il coraggio di chiedergli una spiegazione. Chiamai suo cognato, Mimmo Cersosimo, professore di economia all’Unical, e scoprii che non mi ero sbagliato: c’era un problema, un problema serio, Renato aveva la Sla.

Ma il lupo calabrese per quanto mannaro fosse era un animale fiero, non si arrese alla malattia e per tutto il tempo che gli è rimasto da vivere l’ha vinta viaggiando, pur restando fermo nella sua Pisa, più di quanto possa fare un vacanziere incallito. Perché dalla prigione della sua sedia superaccessoriata ha continuato a lavorare e a vivere. Attorno a lui si formò una comunità di amici, familiari, studenti, colleghi, che ha assecondato i suoi desideri e le foto che lo ritraggono, felice sulle spiagge toscane o sulla vetta del Monte Serra, raccontano a meraviglia la sua tenacia e la curiosità.

“Caro Matteo”, quel giorno quasi mi veniva un colpo. Era lui, mi parlava attraverso Messenger. Poche parole perché, compresi in seguito, per lui era un’impresa disumana trasferire le parole una lettera alla volta attraverso impulsi meccanici. Ma seguirono altre parole, anche per giustificare, figuriamoci, il silenzio, “…sarà stata la pigrizia o l’invadenza della malattia”, e poi “una domanda a bruciapelo: “Sai di qualche giornale di carta o online che potrebbe ospitare qualcuno di questi pezzi irrituali provocatori ma anche divertenti”.

Chiamai il direttore del “Tirreno”, Luigi Vicinanza, e così Renato riprese anche a scrivere per un giornale. Lentamente, faticosamente, mentre continuava ad attraversare mondi e paesi con la mente e con il cuore e spesso anche con il suo corpo imprigionato. Gli mancò un viaggio: volare con il parapendio, liberando nel cielo e sul mare della Versilia il suo corpo fragile e il suo animo irriducibile. I suoi amici non fecero in tempo a prepararlo e lui se ne andò. Io l’ho ritrovato nel buio della Sila, al lume della luna. Poi, ho rialzato i vetri, messo in moto e sono ripartito. Ciao Arcavacante.

 

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/il-lupo-mannaro-di-arcavacata

La musicassetta

di MATTEO COSENZA*

Più che ai luoghi ci sono viaggi legati alle persone, in questo che racconto ad un amico e, in un caleidoscopio di avventure e scoperte, a una musicassetta che ne divenne il filo conduttore. Lui si chiamava Gennaro Pinto, una figura leggendaria per generazioni di giornalisti e diffusori della cosiddetta gloriosa stampa comunista a Napoli e in Campania. Sempre in seconda fila, non nell’ombra perché il suo era uno spazio importante e intoccabile. Il figlio Gianni, che ne ha seguito le orme, è diventato, come lo era nel primo dopoguerra il padre, animatore di spettacoli teatrali e soprattutto è stato l’assessore dell’Estate a Napoli con Maurizio Valenzi sindaco.

Che ha a che fare tutto questo con il viaggio? Intanto in origine c’è il primo viaggio, non da turista, di Gennaro. Con la divisa militare andò a combattere per la nostra patria in terra prima di Grecia e poi d’Albania. Gli ci volle poco per capire che quella storia non gli apparteneva, presto fu uno dei tanti soldati lasciati allo sbando dopo l’8 Settembre e divenne partigiano, tanto da meritarsi l’amicizia riconoscente degli albanesi. Nel frattempo ebbe anche il tempo di incontrare l’amore della vita, Deshira Potossi, a tutti noi nota come Cilò, e di sposarla e condurla con sé a Napoli. Il fatto è che Cilò era la principessa bei di Tirana e, mentre i suoi familiari vennero privati delle non poche ricchezze e del potere immenso di cui avevano goduto fino a quel momento e poi furono sottoposti al regime carcerario per anni, lei non poteva fare ritorno nel suo paese e affidava i messaggi per la famiglia al marito che, essendo un amico dei governanti albanesi, poteva andare e tornare da lì quando e come voleva.

Gennaro, napoletano verace come si dice dalle nostre parti, aveva l’innata capacità di stabilire e moltiplicare i rapporti di conoscenza e amicizia. E, sia per quello sguardo verso est per i motivi prima ricordati sia perché a quei tempi i comunisti puntavano la loro attenzione, e molti le loro speranze, verso quella parte d’Europa, il nostro intrecciò saldi rapporti a Mosca come a Bucarest, a Sofia e, come si è detto, a Tirana. E’ stato un mio grande compagno e dopo la morte di mio padre divenne il mio amico, se si può dire, paterno. E fu naturale accettare una sua proposta di viaggio, alquanto ardita, per le nostre due famiglie.

Partimmo da Napoli con la mia Fiat 131 diesel. C’erano lui e Cilò, io, Anna e le nostre figlie, Valentina di anni cinque e Ilaria di tre. Tappa finale la Romania. Era settembre, nell’incertezza del clima preparammo molti e voluminosi bagagli. Per stiparli nel portabagagli e poi chiuderlo quasi ci si sedeva sul cofano. In più avevamo imballato la parte residua, buona per tutte le stagioni, in una sorta di cubo che stava sul tetto della vettura. Gennaro, che era anche molto paziente, nelle numerose tappe perdeva quasi mezz’ora per disfarlo o ricomporlo.

Il giro fu lungo. Prima tappa sulle Alpi per dormire e poi di corsa a Vienna. Una toccata e fuga, per vedere qualcosa, respirare l’aria della città e soprattutto gustare un dolce nella pasticceria Demel e contemporaneamente osservare da una vetrata uno dei pasticcieri che decorava una torta con minuscoli confettini alla maniera di un pittore del puntinismo. Avevamo programmato di dormire dopo aver superato il confine con l’Ungheria e quindi ci recammo verso quella direzione. Non avevamo calcolato che stavamo entrando in un paese del socialismo reale, per farlo ci diedero i tormenti e a nulla valsero le simpatie di Gennaro che però in Ungheria non erano molto collaudate. Insomma, passammo la frontiera che era notte e la speranza di trovare un albergo svanì presto. Strade buie, di case o parvenze di negozi neanche l’ombra, solo in un punto vedemmo delle luci, vi andammo incontro speranzosi ma erano quelle di una fabbrica. Gli operai stavano uscendo a fine, credo, dell’ultimo turno: non riuscimmo a fermarne nessuno, tutti scappavano e poi c’era la lingua che faceva il resto.

Andammo avanti e ci trovammo su un’autostrada. Nell’unica area di sosta che incontrammo il bar era chiuso. Gennaro era preoccupato e mi lanciava sguardi allarmati senza farsene accorgere dalle mogli, visibilmente terrorizzate, e dalle bambine stanche e più che agitate. Al primo svincolo uscimmo e alla cieca andammo avanti. Nel buio non ci saremmo neanche accorti di dove eravamo se una voce familiare non ci avesse gridato: “Italiani?”. Eravamo finiti in una tenuta frequentata da cacciatori italiani. Dormimmo nella stanza del proprietario ancora frastornati.

Non eravamo lontani da Budapest, che raggiungemmo a metà mattinata. Non so come mi fossi ritrovato sulla corsia dei tram, ma ricordo che all’improvviso due militari con i mitra spianati picchiavano sul cofano dell’auto spingendoci per farci tornare indietro. Eravamo arrivati, non so come, all’ingresso della piazza del Parlamento. In quel preciso istante colpi di cannone rintronarono e si sentì anche un fragoroso battere di tacchi da parte dei soldati in gran parata. Da un’auto stava scendendo Gheddafi che si avviò verso il portone dove l’attendeva, immagino, il presidente magiaro. Non vedemmo null’altro perché la mia auto andava all’indietro senza che pigiassi l’acceleratore. I soldati, in dubbio se arrestarci o fucilarci all’istante, avevano il solo scopo di cacciarci da quel luogo e di liberarsi della nostra presenza. Appena riuscimmo a girare volammo lontano ancora increduli di quanto ci era capitato. Intanto Gennaro se la rideva sotto i baffi che non aveva. Io, mi dissi, ci tornerò e me la godrò questa città, impegno poi onorato come anche per Vienna.

La nostra meta era la Romania, ci aspettavano amici di Gennaro nella città di Oradea, bella non solo per il nome. Lui era un medico, la moglie una funzionaria del partito comunista. Trascorremmo giorni ricchi di esperienze e incontri, percepivamo sentimenti contrastanti: l’orgoglio non celato per l’autonomia che Ceausescu rivendicava dall’Urss e al tempo stesso, più custodita, l’insofferenza per i rigori e le degenerazioni vistose del regime. La mia auto non era nuova ma attirava l’attenzione. Ci osservavano quando attraversavamo le strade, e se ci fermavamo si radunava quasi sempre una folla di curiosi con occhi emozionati per la nostra “favolosa” Fiat, manco fosse una Ferrari. Un po’ più complicato era fare carburante, ma a noi, che avevamo amicizie solide, il pieno era garantito da taniche ricolme che venivano portate direttamente nella nostra residenza.

I negozi non erano invitanti, almeno per noi abituati a ben altro, sicuramente non nascondevano la carenza di merci. Ma nelle case che frequentavamo scoprivamo frigoriferi maestosi colmi di ogni bendidio. E quelle case, di professionisti e soprattutto di uomini o donne del partito, erano arredate riccamente e si aprivano al nostro godimento come oasi di benessere, si potrebbe dire di ricchezza, di cui in giro c’erano scarse tracce. In compenso, per una fortuita necessità, facemmo tappa in un ospedale e avemmo ovviamente un’attenzione particolare, ma capimmo anche che quella struttura funzionava molto bene non solo per noi ospiti da trattare con riguardo.
La girammo in lungo e largo, la Romania, ci bagnammo nelle piscine termali e non, affollate per i turni settimanali di ferie garantite a tutti i lavoratori, andammo sui Carpazi, visitammo naturalmente Bucarest, furono una decina di giorni intensi che ci procurarono amicizie non d’occasione se è vero che ricambiammo l’ospitalità accogliendo i rumeni nelle nostre case napoletane. E quando lasciammo la Romania la nostra auto era un deposito di attenzioni, gastronomiche, artigianali, librarie, tessili, al punto che non avevamo alcuna possibilità di muoverci.

Ritornammo in Italia attraverso la Jugoslavia, con un’esperienza notturna in un albergaccio (non trovammo altro sulla “camionabile”) in cui io e Gennaro restammo svegli nel timore che qualche topo potesse insidiare le nostre quattro donne. Scappammo molto prima che albeggiasse e tirammo un sospiro di sollievo nella splendida Lubiana, e poi ce la spassammo per un paio di giorni sul lago di Bled prima di puntare a Napoli dopo una tappa a Bologna.

E la musicassetta? È quella che registrammo durante il viaggio, all’andata e ritorno. Scoprimmo, mentre lasciavamo l’Italia, che in mezzo a noi c’era un cantante. Non so se per necessità, considerato che erano vistose le sofferenze a cui costringevamo le due piccolissime viaggiatrici e che qualcosa occorreva inventarsi per non farle innervosire, sta di fatto che a un certo punto Gennaro intonò “È arrivato l’ambasciatore con la piuma sul cappello…”, e Ilaria e Valentina scoprirono di aver trovato il terzo nonno. Le conosceva tutte, le canzoni popolari, non solo quelle napoletane più famose, certamente non musica per bambini, comunque le più orecchiabili; tant’è che le vocine delle mie figlie spesso accompagnavano la robusta e dolcissima voce di Gennaro mentre intonava “come facette mammeta”, “funiculì, funiculà”, “core ingrato”, o – e questa alla fine si cantava in coro – “quando hai vent’anni ti ci vuole la mogliera per aumentare la famiglia di papà”. Dopo qualche migliaio di chilometri non ricordo chi prese l’iniziativa ma imbracciammo il mangiacassette e iniziammo a registrare. Quella cassetta è stata poi una delle colonne sonore, sicuramente la più cara, della crescita delle figlie. E se loro, ma anche io, ricordiamo Gennaro pensiamo inevitabilmente all’ambasciatore e alla sua piuma sul cappello.

Io, per la verità, ne rammento anche un’altra. Eravamo a Oradea a casa di un collega di Remhir, il medico che ci ospitava, e attorno a un sontuoso tavolo ovale, impreziosito da tovaglia, piatti, posate e bicchieri di rappresentanza, pranzavamo con leccornie di ogni genere. Siusi, la moglie del padrone di casa, molto bella e vestita con un abito dalle ampie scollature, incurante di Cilò, civettava con Gennaro che, come sempre gli accadeva, era al centro delle attenzioni. All’improvviso calò il silenzio mentre Gennaro, rivolto alla signora, cantò: “Femmena, tu si ‘na malafemmena…”. Ma questa non la registrammo.

 

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/la-musicassetta

Lettopalena, una Pompei del ’43

di MATTEO COSENZA*

Ero in Italia ma ebbi bisogno dell’interprete. Stesa nel letto, Ladina parlava un abruzzese così stretto che io non capivo una parola. Aveva 84 anni, non gliene toccavano molti altri, eppure poteva dimenticare qualsiasi cosa ma non quella tradotta del gennaio 1944.

Un metro di neve, al Valico della Forchetta quasi due. Un corteo di donne e bambini che affondavano i piedi con tutte le gambe in un tappeto morbido, un’ingannevole panna che a ogni passo si trasformava in una tenaglia di aghi ghiacciati. «Raus, raus! I tedeschi vennero nel pagliaio e ci portarono via. Gli mostravo la pancia, ero all’ultimo mese, stava per nascere il mio terzo figlio, il primo aveva sei anni il secondo tre. Mi stesi a terra facendo finta di essere morta. Un soldato mi sentì il polso mentre un altro portò via i miei due figli. Una donna non riuscì a tacere: ma dove li porti questi due bambini con la mamma morta? Si prese il calcio del fucile nello stomaco. Dicevano che ci avrebbero portati a Rocca Pia. Dopo una marcia terribile arrivammo sull’altopiano. “Non ce la faccio più, aiutatemi”. Quasi nessuno mi dava ascolto, un’amica mi rincuorava: “Forza, tra poco arriviamo”. Partorii nella neve. Da sola ruppi il cordone ombelicale e lo attaccai con un po’ di spago, mentre una signora prese il bambino e se lo portò via. E io dietro di lei, lasciando scie di sangue. Dopo ore giungemmo a Rocca Pia. Non si sapeva dove avevano portato il bambino, alla fine lo trovai in una casa dove lo stavano lavando. Quando lo vidi pensai: vedi come stiamo combinati, non era meglio se morivi?».

Ladina Di Stefano si salvò e Giuseppe solo quando capì si rese conto di come era venuto al mondo. Altre persone, diciotto, non ce la fecero. Si aggiunsero alla lista dei caduti di quei mesi terribili.

Ero capitato per caso in Abruzzo. Ne conoscevo poco, mi bastava Roccaraso dove si andava in escursione domenicale mordi-e-fuggi, a bordo di corriere che arrancavano nella salita e si fermavano troppo spesso e a lungo per mettere o togliere le catene. Il rito ancora continua, come la teoria di modernissimi pullman parcheggiati sulla Nazionale sta a dimostrare. Poi con gli anni venne la scoperta del Parco Nazionale d’Abruzzo, l’oasi di Alfedena, i lupi e il gioiello di Pescasseroli, ma anche qualche discesa verso Pescara. Al bivio di Rivisondoli mi fermavo, al massimo arrivavo a Pescocostanzo quasi solo per il gusto di assaporarne l’armonia. All’altopiano che veniva dopo neanche ci facevo caso. Poi, ripeto per caso, un giorno mi avventurai fino alla Forchetta dove c’è la stazione alla quale la domenica delle belle stagioni ancora si ferma il vecchio treno oggi al servizio di turisti intelligenti. Qui puoi decidere se svoltare a sinistra verso Campo di Giove e attraverso una strada dolce, aspra e a tratti lunare, raggiungere Sulmona, o a destra verso Palena, che sta undici chilometri più giù. Imboccai quest’ultima trentacinque anni fa e non me ne sono mai pentito.

Un bosco fitto, spesso bianco d’inverno, verde nelle belle stagioni e un mosaico di arancione, giallo e rosso quando le foglie agonizzanti iniziano a cadere. La musica di qualche ruscello che casca qua e là, un cervo che rischia di finirti sul cofano, la volpe non furba che non attraversa sulle strisce, i cinghiali che nel buio ti spaventano più di un lupo. Sei sulla Frentana, che poi diventa il “Terrazzo d’Abruzzo” dannunziano, più avanti, prima di Lama dei Peligni, nelle imperdibili Grotte del Cavallone fu ambientata la “Figlia di Iorio”.

In verità non ci arrivai subito, a Palena presi a destra verso Lettopalena. Mi ritrovai proprietario di un pagliaio sull’Aventino sotto la Maiella, dalla parte opposta. Misi radici. Uomo di mare che scopre la montagna. E che montagna! La grande madre, territorio mitico di antichi popoli, i Peligni, dura come le Dolomiti, mentre dall’altra parte del fiume se ne scivola fino al mare un’altra, addolcita da linee quasi arrotondate come i paesaggi umbro-toscani. Là in fondo si intravede una striscia appena più scura del cielo per avvertirti che l’Adriatico ti aspetta con i suoi Trabocchi. Per capirci, puoi fare di tutto, anche startene seduto per ore a guardare e a non stancarti mai. Poi puoi muoverti e il bello del pianeta ti sembra concentrato tutto qui.

In verità più guardavo dall’altra parte del fiume e più mi incuriosiva un altro film. Un luogo disabitato, ogni tanto un resto di muro, l’incavo di una casa, forse di una bottega, la nuda parete con rosone di una chiesa, un profilo lungo in cui doveva esserci stato qualcosa, forse un paese. E, una volta lì per ripetuti sopralluoghi, la scoperta di antiche tracce di vita, l’intonaco colorato di una stanza, un abbozzo di fontanina. Sì, lì c’era il paese nel quale in un tempo felice vivevano anche più di mille persone, una metropoli per queste montagne in crisi di abbandono.

Uno strano paese, con una sua dignità urbanistica. In mezzo il fiume, che quasi gioca con macigni e dirupi donando angoli che sembrano inventati come le Acquevive a Taranta Peligna (il paese della taranta, l’antica mantella abruzzese, c’è ancora una fabbrica di un padrone-operaio fiero di aver prodotto i suoi soprabiti per “La vita è bella” di Benigni), e poi più giù divertimento assicurato con rafting fino al lago di Casoli. Ma risaliamo a Lettopalena.

Su una riva, quella sotto la Maiella, c’era il vecchio paese. Una porta di sotto e una di sopra, e un presepe di case su più piani a vani singoli attaccate una all’altra. Questo era il paese degli uomini. Sull’altra riva, su un pianoro un po’ più in alto, il paese delle bestie: una serie di pagliai dove ogni sera le pecore ritornavano dai pascoli imboccando secondo un codice quasi genetico la porta del proprio rifugio. E ancora più su c’era il cimitero, e accanto a questo l’Abbazia di Monteplanizio, la più importante dell’Abruzzo, che simbolicamente, vedremo, l’accosterà a quella di Montecassino.

Che fine aveva fatto il vecchio paese? Ora, con l’erba e le piante che ne hanno appiattito i contorni, non si scorge più quello che osservavo allora: mi sembrava una Pompei del ventesimo secolo e, quando vidi le foto del dopoguerra, mi resi conto che non ero molto lontano dalla verità. Lì era passata la Storia. E aveva seminato distruzione e morte. Per un’imponderabile scelta del destino quel paesello e anche altri della zona si erano trovati sulla Linea Gustav, il fronte dall’Adriatico a Montecassino che i tedeschi difendevano dall’Ottava armata inglese da un lato e dagli americani dall’altro. Quando la trincea vacillò, il generale Kesserling ordinò “terra bruciata”. E fu tragedia.

Gli abitanti, soprattutto donne, bambini e molti vecchi, non gli uomini che o erano in guerra o si erano dati alla macchia, furono cacciati dalle abitazioni. Una mattina i tedeschi minarono una casa, la fecero saltare in aria e procedettero allo stesso modo con tutte le altre. Finirono a tarda sera. Poi distrussero il ponte che congiungeva le due rive, ma l’operazione durò giorni perché qualcuno aveva manomesso l’esplosivo. Seguì la traversata del “deserto bianco” prima ricordata, mentre si andavano costituendo nuclei di partigiani che inizialmente inseguivano i loro averi, soprattutto il bestiame, che i tedeschi avevano razziato. Così nacque la Brigata Maiella, uno dei più straordinari esempi della Resistenza, anche perché i partigiani abruzzesi, prevalentemente contadini a cui si unirono i soldati sbandati dopo l’8 settembre, non si limitarono a liberare il loro territorio ma combatterono contro i tedeschi fino alle regioni del centro-nord. Un sacrario sopra uno sperone della Maiella, un po’ più su di Taranta Peligna, che ebbe la stessa sorte di Lettopalena come di altri paesi della zona, è una tappa obbligata per un viaggio della memoria.

Dunque, mi serviva un interprete. Non devo aggiungere che queste montagne abruzzesi sono state teatro di un’emigrazione infinita. Quando partivano i pullman per andare alla stazione di Pescara o al porto di Napoli per raggiungere altrove il lavoro, anche in una miniera che stava a Marcinelle, c’era tutta la popolazione a salutare chi andava via. Un giorno fui incuriosito dall’agitazione per un terremoto a Newcastle, una città sulla costa orientale dell’Australia. A sentire i lettesi sembrava che avesse tremato la Maiella. In realtà lì viveva una comunità di emigranti più numerosi di quanti ce ne fossero nel paese natio: oggi Lettopalena ha poco più di trecento abitanti.

Una sera venne a cena a casa mia una signora australiana che era partita tanti anni prima. L’accompagnava il sindaco Agostino Terenzini. Mi regalarono il loro amarcord mentre mi indicavano punti e spiegavano quello che individuavano al di là del fiume. A un tratto mi chiesero, non ricordo chi dei due, perché non scrivessi quella storia. Così nacque un mio libro, quasi un reportage da inviato nei giorni tragici del 1943 e 1945.

Incontrai tutti i sopravvissuti, soprattutto donne e bambini, di quella tradotta e degli altri eventi tragici. Terenzini mi faceva spesso da interprete, come si è visto con Ladina, mentre io raccoglievo le loro memorie che si sarebbero sicuramente disperse.

Il manoscritto viaggiò molto prima di andare in libreria, perché fu mandato a Greensburg, ad un professore dell’University of Pittsburgh, Gaetano Rossetti, anche lui un emigrato lettese. Lo tradusse, lo rimandò in Italia, e di nuovo il libro attraversò l’Oceano per chiarimenti e infine ritornò in Abruzzo. Fu pubblicato in doppia lingua proprio perché doveva raggiungere i lettesi sparsi per il mondo. Del resto, chi ha più diritto al viaggio di un libro?

Ho sempre sperato che a Lettopalena come negli altri paesi sconvolti dalla guerra si potesse creare un percorso della memoria. Qualcosa c’è stato ma resta tanto da fare prima che il tempo non ne consumi le tracce. Il soldato Carlo Alberto Ciampi il suo contributo a questi territori che gli erano ben noti lo ha dato. E ogni tanto, anche la ricorrenza del 25 aprile, piccole comunità in luoghi viceversa sconosciuti si riuniscono per rievocare un eccidio o uno scontro a fuoco, a riprova che da queste parti la Resistenza non fu episodica e contingente.

Qui c’è la storia, ma qui non manca la malia, che ha tante facce. Quella, per esempio, di Carlo, di cognome fa Rossi, che, sulle orme del padre emigrante, visse la gioventù a Milano, fu in un gruppo che partecipò a Castrocaro, per anni suonava in un night meneghino e un bel giorno ritornò a casa da dove non si è più mosso. Per anni ha cercato pietre e ne ha fatto sculture senza mai dimenticare la musica che quasi ogni giorno suona con la chitarra all’ombra di un’ albizia insieme al suo amico Giampietro Como (famiglia vasta quella di Perry Como). Lo chiamo “l’orso di Lettopalena” per distinguerlo dalle quattro orse che vivono da anni in pace nell’oasi al centro di Palena. O di Erminio Di Carlo, morto povero, che ha lasciato tracce materiali della sua vita laboriosa: cercava, solo per passione, pietre e fossili nella montagna, dove in altre ere c’era il mare, e ha donato i reperti che hanno fatto nascere il Museo Geopaleontologico dell’Alto Aventino nel castello di Palena. O di Leonardo Angelucci, un giovane agronomo che aveva titoli per cercare altrove fortuna e che, insieme alla sua compagna, ha creato alle porte della Fonte della Noce la “Casetta bianca”. Fa il pastore e manda avanti il caseificio con il latte di capre e pecore. Ama la sua terra e nei giorni della pandemia ha donato il ricavato dei suoi formaggi all’Asl.

L’Abruzzo può sorprenderti. Uno può mai immaginare di trovare da vivo il suo nome su una lastra di marmo in uno spazio pubblico? A me è capitato il 19 novembre scorso. All’ingresso della vecchia Lettopalena distrutta dai nazisti, su un macigno, che è esso sì un’opera d’arte, hanno posto la frase conclusiva del mio libro su una targa. Parafrasando la canzone di De Gregori ricordavo che la Storia «entra nelle case senza bussare». E non bisogna mai dimenticarlo.

*MATTEO COSENZA (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)

 

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/lettopalena-una-pompei-del-43

 

Ischia sogno mio di bimbo, con Stalino e il profilo di Hitchcock

di MATTEO COSENZA*

Piedi, treno, tram, nave, bus, piedi, all’andata; piedi, bus, nave, tram, treno, piedi al ritorno. Due mezze giornate, in tutto una giornata di viaggio. Ma chi se ne importava! Le estati scorrevano come un sogno tra acqua del pozzo e lume a petrolio, tra asini e porci, conigli e cani (Campaniello che non invecchiava mai). Appena arrivato, via scarpe e abiti (nulla di importante, vestimenti modesti di figlio di operaio), piedi scalzi, neanche gli zoccoli, una mutanda, un pantaloncino corto blu con le tasche plissettate con cotone bianco e una canottiera. Le scarpe e i vestiti li rivedevi dopo tre mesi per il ritorno nella civiltà. Eppure non si stava tanto lontano, solo al di là del mare, quello del golfo di Napoli, poco più di un’ora di traghetto, ma a quel tempo Serrara era più isola dell’isola, il massimo delle ristrettezze, il paradiso per me.

Un viaggio che, si è capito, era complicato, molto complicato. Appena finita la scuola, mio padre e mia madre si caricavano di valigie e di qualche regalo e, tenendo per mano, non so quale, me e mia sorella più piccola, ci trascinavano dalla collina di Quisisana alla stazione di Castellammare. In treno fino a Napoli e qui trasbordo sul tram numero 1 che da corso Garibaldi ci portava al Molo Beverello. La nave era una goduria per un bambino che le vedeva mentre scendevano in mare e che ne era orgoglioso perché il padre le costruiva. A Ischia raggiungevamo Serrara con una delle due circolari che circumnavigavano l’isola. I nostri genitori, stoici più che tenaci, imboccando sul lato della chiesa un viottolo, allora più o meno una mulattiera, precipitavano, e noi e i bagagli con loro, per un buon chilometro fino alla casa della zia che ci aspettava. Papà si rimetteva, più leggero, in viaggio per riprendere il lavoro al cantiere, si ripresentava per i quindici giorni di ferie a cavallo di Ferragosto, ritornava di nuovo a Castellammare e infine veniva a riprenderci per l’apertura della scuola.

Il ritorno era ancora più duro. Perché quando si partiva dalla casa della zia, lungo quella mulattiera ora in ripida salita c’erano le case di altri parenti che ci riempivano di affettuose e ingombranti attenzioni. E noi salivamo sul bus con buste piene di bottiglie di vino e soprattutto con molte scatole delle scarpe, legate con lo spago e forate ai lati per far respirare i conigli che vi stavano dentro. Un anno sul tram dal Molo Beverello alla Circumvesuviana, per il caldo e per lo sballottolamento, un paio di bottiglie di vino spumante rosso scoppiarono. Il resto potete immaginarlo.

Valeva la pena fare questi sacrifici? Avreste dovuto chiederlo soprattutto ai miei genitori, per noi piccoli era non un viaggio, ma il viaggio, il trasferimento da un mondo ad uno diverso, una fuga, peraltro molto lunga, in un’altra vita. Perché l’isola era un altro mondo, e Serrara era un altro mondo rispetto all’isola.

Tanto per cominciare io non dormivo in un letto. La casa era divisa in due pezzi, da un lato due stanze comunicanti con i tetti bombati, che la sera diventavano un dormitorio, e dall’altro una cucina angusta dalla quale si passava in un bagno (un lavandino e una tazza) o per una scala scavata nel tufo si scendeva alla cantina dove c’era anche il forno per il pane. Tra i due ambienti un pergolato con un grande tavolaccio in un angolo che da un lato affacciava sul mare e dal quale si intravedeva la piramide di Sant’Angelo. Per dormire ci si arrangiava perché mia zia, prematuramente vedova, cresceva una famiglia numerosa. Miseria tanta, ma lei, un vulcano, teneva l’allegria nel sangue, pensava a tutti e a me riservava ogni sera un tenero scappellotto (quasi un “bacio della mamma” prima di dormire).

Dall’altra parte di un cortile adiacente, dove c’era il pozzo, un fabbricato di forma rettangolare svettava come una piccola torre. Era una colombaia. La notte mio cugino Paolo dormiva sul “piano di sopra” attento a non far entrare i colombi e io in quello di sotto, i nostri giacigli erano fatti con le foglie delle pannocchie di granone. La sveglia ce la dava il gallo. E noi, mezzo assonnati, raggiungevamo gli altri parenti e un paio di asini, per andare nei campi, che poi erano terrazzamenti che spesso davano le vertigini perché sotto in certi tratti a precipizio c’era il mare. Naturalmente lavoravano loro, io ero troppo piccolo. Per me era un divertimento, compreso il momento dei bisogni sotto qualche vigna e per carta igienica una foglia di fico. Ma della vite e del fico apprezzavo soprattutto i frutti, un’uva cornicella croccante, la mia madeleine.

Con la calura, verso le dieci tornavamo da zia Eleonora che, sotto un rigoglioso e profumato gelsomino (il mio “biancospino”) ci aspettava con una scafarea di insalata di pomodori, patate lesse, cipolle, peperoncini e sedano o basilico (la carne compariva solo per il pranzo della domenica). E soprattutto con il pane che lei faceva una volta la settimana; io impazzivo per il “gulurcio”, così chiamavano il pezzetto terminale della pagnotta che inzuppavo nell’insalata e che mi lasciava attaccato sui denti il nero della scorza bruciacchiata. Ma che te ne fai di una coppa di caviale con champagne!

La giornata trascorreva veloce tra una scorribanda e l’altra. Stanchi, la sera aspettavamo in fila il nostro turno davanti alla cucina, dove sul focolare l’acqua bolliva e veniva travasata in una tinozza nella quale ci lavavamo uno alla volta.

Finì quel tempo sospeso, una lunga pausa tra un inizio e un fine anno scolastico. Tornavo lassù sporadicamente. Soprattutto per rivedere i luoghi e ritrovare l’emozione delle intermittenze del cuore, il nostro bagaglio di memoria. Se ci penso, avverto un friccico nella parte bassa del corpo, come quando a noi bambini ci facevano entrare nell’immensa tinozza per pigiare l’uva pronta a divenire un bianco nettare divino e dopo non riuscivamo a camminare perché le gambe zuccherose eroticamente si accoppiavano.

Ma poi risalivo sul “trono” come i miei, e non so perché, chiamavano quel promontorio nel quale il maiale regnava nel suo porcile avido del cibo che gli portavamo per ingrassarlo al punto giusto per potergli fare la “festa” a fine anno. Soprattutto andavo sul crinale, uno strapiombo e, come in un film, abbracciavo con lo sguardo la Punta della Campanella e la “testa di coccodrillo” di Capri e al di qua del mare Punta della Signora, i Maronti e la spiaggia che si allungava sulla destra verso Sant’Angelo. Me ne stavo seduto, quasi come su una sedia, con le gambe penzolanti nel vuoto, a sentire il silenzio, solo un’eco del mare, e la frescura di un alito di vento leggero come una carezza.

Per andare al mare scartavo la mulattiera, un avventuroso canyon scavato nei secoli dall’acqua, che portava direttamente a Sant’Angelo, io preferivo quello, non meno accidentato, che calava verso la Cavascura. Lungo il tortuoso cammino potevi fare anche qualche brutto incontro, come quella volta che io e una mia cuginetta ci trovammo davanti a un serpente: passava lui o noi? Gambe in spalle e velocissima risalita verso casa senza mai voltarsi indietro. Che coraggio! Ma poi riprovavi. Il rigagnolo di acqua tiepida che correva verso il mare era il segno che eri arrivato alle antichissime terme, ma non ti fermavi perché poco più avanti c’era lui, il mio idolo, il mito, l’icona dell’isola: il bisnonno Pietropaolo. Noto come “Stalino” ad ogni latitudine e non solo nazionale, le cartoline postali con la sua immagine si vendevano in tutta l’isola. Un gigante con un volto scultoreo e due baffi che spiegavano il soprannome.

La sua casa era un po’ più su ma lui viveva in quel buco ricavato dalla pietra, che oggi è una taverna con il suo nome e soprannome. Anche allora era un ritrovo per buongustai. Soprattutto per merito della sua seconda moglie (sposata all’età di 78 anni, si favoleggiava che lui non avesse avuto figli da questo matrimonio non per propria responsabilità): sapevi che cosa stava cucinando molto prima di arrivare da lei, tanto netti erano i profumi che le sue pietanze diffondevano in ogni direzione. Venivano da ogni luogo, dall’Italia e dall’estero, artisti e personalità dei vari campi, per salutare il bisnonno che io chiamavo nonno. Credo anche, ed essendo piccolo mi fido del racconto di mia madre, la prima del suo esercito di nipoti, di aver incontrato lì Renato Guttuso, che gli fece un ritratto per anni appeso al muro e che ora si trova nella casa di un professionista di Barano.

L’isola penso di conoscerla bene e l’ho anche abitata in molti dei suoi comuni: strade, anfratti, spiagge, tutti i suoi immensi e sbalorditivi parchi termali. Sempre bella, unica, da vedere, ricca di incontri. Lasciata la taverna e raggiunto l’arenile, una piacevole passeggiata sulla sabbia fino alle Fumarole, l’acqua di mare che gorgoglia. Un giorno restai al sole, quasi prendendomi una scottatura, per “studiare” il signore che se ne stava più in là sornionamente steso su una sdraio. Lo osservavo e sentivo risuonare in testa la musica che accompagnava la sua panciuta sagoma nera mentre entrava nel profilo bianco appena definito da un filo scuro che lo avrebbe perfettamente contenuto. Alfred Hitchcock. Erano i tempi d’oro di Lacco Ameno, quando Angelo Rizzoli fece diventare Ischia una capitale del cinema. E anni dopo fu la volta del ministro del tesoro dell’epoca, Emilio Colombo, che, solitario e senza alcun segno di vigilanza, godeva in quella spiaggia della privacy che l’isola ha sempre riservato a tutti, famosi o meno che fossero.

Un paio di anni fa feci una passeggiata a Sant’Angelo, rifugio da sempre di Angela Merkel. Una volta sul lato del porto guardai in alto per cercare di individuare i luoghi della memoria. Infine mi decisi a inerpicarmi verso Serrara e da qui a scendere con l’auto per il viottolo, sempre ripido ma più attrezzato, fino alla casa delle mie estati felici. A piedi andai verso il “trono” seguendo di nuovo quel percorso che conoscevo come le tasche del mio pantaloncino corto. Mi bloccai davanti a un cancello che ostruiva ingresso e vista e dietro il quale non vedevo ma intuivo una costruzione verosimilmente abusiva e chissà se condonata. Così va il mondo anche se ce ne vuole per privatizzarne o distruggerne la bellezza.

Via questi cattivi pensieri, mi consolo con un sapore gelosamente custodito. Un piatto, il piatto dell’isola, il coniglio per il quale c’è anche una contesa con l’isola di Arturo, quella Procida dal diverso e inimitabile fascino. Certo non trovi facilmente il coniglio che mia zia faceva crescere nelle fosse scavate nel tufo della scala che portava alla cantina e con l’erba raccolta in giro. Ognuno aveva il suo segreto. Io l’ho gustato in quasi tutte le case della mia sterminata famiglia e ho stabilito quale fosse, secondo me, il migliore e da quella cugina non solo mi sono fatto dare la ricetta ma ho anche preteso di assisterla mentre lo cucinava. Da allora se trovo un coniglio non di allevamento, lo preparo in quel modo. E l’intermittenza fa del mio cuore un’orchestra.

*MATTEO COSENZA  (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)

 

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/ischia-sogno-mio-di-bimbo-con-stalino-e-il-profilo-di-hitchcock

La mia Russia in un quadro di mucche e betulle

di MATTEO COSENZA*

“Dopo otto giorni dal mio ritorno dall’Unione Sovietica cercherò di essere il più obiettivo possibile…”. “Discorsi pieni di parole e di citazioni nelle quali il nome di Lenin è abusato ed usato a sproposito…”. “Alla fine di tutte le conversazioni ci trovavamo pieni di parole ma privi di conoscenze…”. Il tono è questo, e non cambia di città in città, da Barnaul a Novosibirsk a Mosca, di fabbrica in fabbrica, tra i pionieri o nei kolchoz, negli incontri di partito. Il “paradiso in terra” non è quello immaginato e l’operaio che incarna la mitologia del Pci osserva e giudica e poi, il 28 agosto 1970, redige la sua lettera riassuntiva, un “rapporto” scritto con calligrafia minuta e pieno di errori grammaticali che io trasferii sulla macchina da scrivere. Il destinatario era Giuliano Pajetta, responsabile dell’Ufficio Fabbriche del Pci, il mittente era mio padre Saul, che, come di rigore nella tradizione del Pci, aveva finalmente compiuto il suo viaggio nel paese del socialismo e ora scriveva la sua relazione. Salvava l’idea del “mondo socialista”, ma che delusione la realtà del “socialismo reale”!

Di quel viaggio non mio, ma che un po’ sentii tale, mi sono rimaste le carte e il regalo che gli avevo chiesto di portarmi dall’Urss: un busto di Lenin. E, per quanto fossi vaccinato già da tempo, quale delusione anche la mia, venticinque anni dopo, nel settembre 1995, quando, dopo aver visitato come di rigore il Mausoleo della Piazza Rossa con la salma imbalsamata del protagonista della Rivoluzione d’Ottobre, in un negozio di Mosca comprai una t-shirt con il disegno di un canonico volto di Lenin con l’aureola a forma della M di McDonald’s e lo slogan: McLenin’s. L’allora grafico del “Mattino” e oggi art director del “Corriere della Sera”, Bruno Delfino, mi soprese con una delle sue genialate: fotografò la maglietta e disegnò la pagina del mio reportage per l’inserto domenicale riproducendola quasi a grandezza naturale. Il sogno di mio padre, un po’ ereditato e un po’ già ampiamente svanito, era finito su una bancarella.

In realtà io non cercavo Lenin ma non mi dispiacque quando in una vecchia libreria vidi alle spalle della titolare un piccolo busto impolverato di Marx, le chiesi quanto costasse e lei: «Niet, niet. Marx non si vende». Io ero lì nella speranza di trovare la mia Russia ma il lavoro mi imponeva di conoscere Mosca. Il mio desiderio principale si realizzò poi in una maniera singolare, ma di questo parlerò più avanti. Ora, dopo il tramonto di Gorbaciov c’era da raccontare la Mosca di Eltsin, da quattro anni al timone di un paese disastrato e a quattro anni da un clamoroso tentativo fallito di colpo di stato per estrometterlo.

In un cimitero puoi afferrare lo spirito di un luogo. Andai in uno di quelli più grandi della capitale russa, il Vagan’kovo. Il mio sguardo non si posò sulle stele dedicate ai caduti del partito e ai militi ignoti, ma sul punto più appariscente dell’inizio del vialone centrale. Stavano ancora finendo una orripilante scultura, una foglia celeste con una striscia grigia, alta due metri e mezzo e che un po’ invadeva anche il vialone. Era la tomba di un giovane di 26 anni, ucciso un paio di anni prima: un mafioso. Me ne ricordai molto tempo dopo quando Michele Albanese, giornalista sotto scorta da anni, volle farmi visitare il cimitero di Gioia Tauro: i quattro quadrati convergevano da ogni lato verso il centro dove si trovava, e non so se sia ancora là, la tomba di famiglia del potente boss della ‘ndrangheta di quella zona. Tutto il mondo è paese.

Ma per capire l’aria, almeno in quel periodo, poteva bastare non muoversi dal Sovinceter dove tra le tante cose c’era anche l’albergo. Nella immensa hall, ultramoderna e con una teoria di ascensori di cristallo a vista, si muoveva un popolo variegato, di uomini d’affari, faccendieri, prostitute. Osservare era già un modo per capire. Per esempio, un gruppo di sette uomini vestiti di nero si erano salutati battendo ognuno la propria spalla destra su quella destra dell’altro e cingendo con il braccio destro da dietro il collo la propria testa, infine una manata sulla spalla e un bacio. Era la mafia caucasica che lì si ritrovava, altri protagonisti emergenti della nuova Russia trattavano in ogni angolo.

Le strade di Mosca non erano meno eloquenti. A una flotta di vecchie auto più o meno sgangherate facevano da contrappunto tante ma tante Mercedes 600 nere, mai viste tante in una volta sola. Intanto la Russia si stava preparando al nuovo Zar che muoveva i primi passi alla corte di Eltsin.

Il vecchio sistema era stato sconfitto, la nuova nomenklatura si andava formando. Il mondo di prima viaggiava in auto con me. Anna Mavlyanova, una giovane fisica nucleare, mi faceva da guida “turistica”, la sua nuova professione. Nostalgica, mi ripeteva un ritornello: «Prima nei negozi non c’era niente e in casa tutto, ora nei negozi c’è tutto e in casa niente». Ma più significativo era l’autista proprietario di un’anziana Fiat 125, Boris Balaskov, un quarantottenne che aveva chiuso con il suo passato e ora faceva il tassista e, alla bisogna, anche da scuola guida. Era un ingegnere specializzato nelle onde corte, per 28 anni aveva lavorato in Siria, nella DDR e a Cuba per realizzare installazioni militari. Ancora vincolato dal segreto di stato, dopo giorni di frequentazione seppi che aveva lavorato per l’installazione di missili terra-aria a Cuba. E ora faceva l’autista nella sua città preoccupato soprattutto dei “missili” della polizia: «Quando ti fermano vogliono soldi, altrimenti ti fanno multe a volontà se non ti sequestrano anche la macchina».

Ma dov’era la mia Russia? Ne trovai un pezzetto in una bottega d’arte: un’icona con un numero incredibile di figure di cui mi innamorai subito. Un segno dell’anima di quell’immenso paese. La comprai e con qualche preoccupazione la feci passare alla dogana, poi una volta a casa mi fu detto che mi avevano fregato perché era una “crosta”. Me ne importava poco perché a me piaceva. Poi un giorno Eduardo Cicelyn, giornalista e cultore dell’arte, mi disse che Vittorio Baratti, esperto in materia, poteva dire l’ultima parola. Gli portammo la “crosta” e lui due giorni dopo mi sentenziò che era autentica: «Ho fatto solo un’incisione quasi invisibile e mi sono fermato perché ho visto che cosa c’è sotto».

Ma era destino che dovessi cercare in quel campo. A conti fatti il mio viaggio è un quadro. Nella galleria d’arte moderna, il direttore ci stava mostrando le opere nelle varie sale, quando mi colpì una tela che stava adagiata provvisoriamente nell’angolo di un corridoio e che con il contesto non sembrava essere in sintonia. Non so che valore avesse ma io vidi la Russia in quei colori, in quei paesaggi, negli alberi, nel contadino con i secchi, nella chiesa, nelle betulle, nelle mucche, negli uccelli su un ramo spoglio, nelle orme lasciate sulla neve, nel sole pallido. La Russia dei grandi scrittori, i più amati da me. Non solo Dostoevskij (qualche amico mi chiama Fëdor) che sono andato a cercare di recente a San Pietroburgo.

Ma lì sono stato distratto dalla mia guida, un professore di scuola superiore, che, per mettere le carte in tavola, mi ha mostrato con orgoglio il suo documento di identità nel quale risulta che è nato a…  Leningrado. E nella meraviglia dell’Hermitage ci ha fatto una lezione nella non grande stanza in cui si riunì il primo governo della Rivoluzione. Con gli occhi abbagliati dall’arte ma anche dall’infinito parquet, dalle montagne di marmi, oro e qualsiasi prezioso metallo si ricavi dalla Terra, ho capito che quella Rivoluzione, al di là dei suoi esiti, non poteva avvenire che in Russia, tanto stridente era il contrasto con le condizioni del popolo. Quanto a “Delitto e castigo” e agli altri capolavori dostoevskiani sarà per un’altra volta, se mai ci sarà, per stare con loro mi riparo al caldo della mia biblioteca.

Ma torniamo a Mosca dove pensavo a Tolstoj, non a quello dei tre grandi romanzi bensì ai racconti, alle migliaia di pagine di una scrittura soave e penetrante, o alle anime morte di Gogol, ma soprattutto a Cecov, che di romanzi ne ha scritti pochissimi ma ci ha lasciato un piccolo gioiello, quasi un racconto più lungo, il viaggio, ci risiamo, di un bambino, Egòruška, dalla casa natale alla città in cui una famiglia lo adotterà per farlo studiare. Attraversa la “steppa”, da cui il titolo dell’opera, la vastità dei suoi orizzonti, la sua asprezza e aridità e poi gli squarci di umanità, le locande con i cortili coperti, le minestre, i samovar, la raccolta della lana, le notti rischiarate dalla luna che pare un sole, la nuvola improvvisa che esplode in una pioggia impetuosa…: «Non vi erano più colline e ovunque si guardasse si stendeva una pianura sconfinata triste e bruna; qua e là sorgevano piccoli tumuli e volavano le gracchie. Più avanti, in lontananza, biancheggiavano i campanili e le isbe di qualche villaggio… per due minuti tutto fu silenzio, come se il convoglio si fosse addormentato; si udiva soltanto smorzarsi in lontananza il rumore secco del secchio che ballonzolava legato alla parte posteriore del calesse».

Non so quando restai a fissare quel grande quadro che era ai miei piedi. Doveva essere mio. Ma per quanto studiassi il modo non riuscii a trovare una soluzione e capii, senza tanta convinzione, che dovevo rinunciarci. Tornai a casa, al mio lavoro. E dopo qualche mese il ricordo fu accantonato. Un pomeriggio, era appena iniziata l’estate, mi arrivò una telefonata. Era Anna, la fisica nucleare, che mi diceva che con un gruppo era venuta dalle nostre parti, che si trovava a Minori e che aveva un regalo per me. Andai incuriosito. Con lei c’era il direttore della galleria d’arte moderna. Mi avevano portato il quadro. Credo che l’abbiano fatto proprio per vedere la mia reazione, ma non saprei. Chiesi che cosa dovessi. «Nulla, è un regalo della Russia». Si ricordavano di quella mia emozione nella galleria della loro città e quasi mi volevano sentire vicino come se fossi un russo autentico anche io. Faticai molto almeno per dargli i soldi che avevano dovuto pagare alla dogana, poco più di centomila lire. E infine li salutai. Non ho più saputo nulla di loro. Ma ho quel quadro e quel quadro è la Russia, e un viaggio, per quanto appeso a una parete, può non finire mai.

*MATTEO COSENZA  (*nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)

 

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/la-mia-russia-in-un-quadro-di-mucche-e-betulle