Quel Sud dimenticato in fondo al Mezzogiorno

Se non ci fosse stato Il Covid 19 l’Italia probabilmente avrebbe pianto lutti di numero incalcolabile per una strage assurda quasi come quella del ponte di Genova. È vero, con le ipotesi non si va da nessuna parte, ma i fatti sono chiari. Il tetto della sala Calipari, l’auditorium del palazzo della Regione di Reggio Calabria, è crollato di venerdì, vale a dire in un giorno che normalmente poteva contenere centinaia di persone: potevano esserci anche gli studenti che in tempi normali visitano con assiduità la struttura. La sala ha seicento posti a sedere, in un incontro abbastanza recente ha ospitato più di mille persone. Se, ci risiamo, non ci fosse stata l’emergenza che ha bloccato tante attività e reso deserto quell’immenso e simbolico spazio…

Abbandoniamo questo scenario ipotetico non prima di un’osservazione a suo modo significativa: senza morti quel crollo è diventato una pseudo notizia, se poi esso è avvenuto in una regione ritenuta residuale come la Calabria la notizia non esiste. Un motivo per riflettere sulla percezione che si ha di questa regione, sulla sua marginalità e sullo stato di assuefazione dei suoi abitanti a permanere in questa condizione di ultimi della classe.

In realtà quel crollo è davvero esemplare, una metafora della Calabria come il ponte Morandi lo è stato per l’Italia, ma qui, in questo lembo estremo del paese, si misura la distanza tra le due Italie, il Sud e il Nord, e quella tra il Sud e un Sud che è ancora più Sud. Tutto questo avviene nel palazzo per antonomasia della massima istituzione e, guardate un po’, nei giorni in cui si celebra il cinquantesimo anniversario della Rivolta di Reggio. La storia, perché di questo si tratta, sembra divertirsi con le date e lo fa mentre si svolgono incontri che ancora dividono e si prestano a letture opposte quasi che il tempo non aiuti a diradare le ombre, a ammorbidire le polemiche e far risaltare i dati essenziali di una analisi più aderente alla verità. Ancora si discute se quella tragica vicenda sia stata una rivolta popolare, ancora si nega la strumentalizzazione politica che ad essa impresse un segno netto di destra, ancora si tenta di minimizzare il ruolo eversivo dei Servizi e del mondo oscuro che ruotava attorno ad essi e la strategia della tensione che funestò la vita italiana, ancora i sindacati devono rivendicare le ragioni che li portarono a andare controcorrente e a sfidare bombe e attentati per rivendicare il diritto all’agibilità democratica, e si potrebbe continuare a lungo. E però il tempo non può cancellare l’immagine delle barricate, dei mesi di guerriglia, di un corto circuito generalizzato della città dello Stretto e, soprattutto, quei carri armati che dopo sette mesi chiusero la partita militare come un Libano qualsiasi.

Cinquant’anni dopo è tempo di bilanci. Ed il primo bilancio è quello dei risultati. Probabilmente di quel Pacchetto Colombo, un compromesso che fornì una via d’uscita allo scontro, è rimasta soltanto l’istituzione dell’Università della Calabria sulla collina di Arcavacata in una delle Calabrie, la cosentina. Su quanto accadde nella piana di Gioia Tauro è meglio stendere un velo pietoso, del quinto centro siderurgico e dei trentamila posti annunciati non è rimasto nulla, salvo il porto, la distruzione di aree sterminate coltivate a aranceti e gli affari della ‘ndrangheta. Ma il prodotto più indigesto è stato quello che scaturì dall’origine della rivolta che fu, come è noto, la rivendicazione del capoluogo rispetto alla decisione di volerlo a Catanzaro. Si spacchettò l’architettura naturale della nuova istituzione in cui tante attese erano riposte: a Reggio il Consiglio regionale, a Catanzaro la Giunta regionale. Se c’era un modo per tarpare le ali alla nascente istituzione quello era ed è stato il più perfido e irreparabile.

Come poteva funzionare bene una Regione che teneva a distanza di 180 chilometri le due gambe su cui doveva essere costruita? Due grandi palazzi, modernissimi, uno nella parte alta di Reggio e l’altro a Germaneto, periferia desolata di Catanzaro, immagine materiale di cemento e cristalli, di separazione, di divisione, di lontananza. E non è neanche necessario ricordare che per decenni quella calabrese è stata la Regione in crisi quasi permanente tant’è che facevano più notizia i periodi di breve e apparente stabilità. La rivolta non poteva non avere risposte, la lacerazione era stata troppo vasta, profonda e lunga per poterla archiviare solo con i carri armati. Al punto in cui le cose erano arrivate probabilmente era difficile trovare altre strategie, ma indubbiamente all’ennesima rivolta meridionale, questa volta con connotazione divenuta rapidamente eversiva a differenza delle rivolte contadine del passato anche esse risolte con sangue e violenza, lo Stato, in un’accezione molto larga, mise una pezza che, ripeto a parte il frutto validissimo dell’ateneo, ha alimentato sul nascere il fallimento dell’istituzione che avrebbe dovuto ridurre le distanze dall’altro Sud e dal Nord.

Quel tetto che crolla sembra il suggello di questi cinquant’anni di speranze deluse, di dialettica politica fatta di un consociativismo alternato, di mancata programmazione, di spreco e di distruzione di risorse, di improbabile governo del territorio, di una burocrazia spesso famelica e di altre ancora più gravi pecche. Sarà, ripeto anche io il solito ritornello, l’inchiesta della magistratura ad accertare i motivi del crollo di quella suggestiva copertura del luogo più alto della democrazia in Calabria, ma, avrebbe ricordato Pasolini ai calabresi, che pure aveva in grande simpatia, sarebbe troppo comodo fare come gli struzzi e nascondere la verità sotto la sabbia. Per ora essa riposa sotto le macerie di quel tetto.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 25 agosto 2020

Città e borghi, le due facce dello stesso problema

 

Primo. Ho letto l’editoriale di Giuseppe Coco — pubblicato ieri sul Corriere del Mezzogiorno — sul fallimento delle grandi città. Paradossalmente invivibili e insostituibili nonostante i numeri significativi della fuga, non si sa quanto emorragica, di tanti cittadini per necessità o per scelta. Secondo. Guardo la foto della Fontana Santese di Calitri, accanto alla quale, seduto dietro una simbolica cattedra, il professore Vito Teti tiene una lezione sull’acqua.

È una delle sequenze di «Sponz Fest», il festival itinerante di Vinicio Capossela in Alta Irpinia. L’antropolgo Teti, che vive cocciutamente in un piccolo paese del Vibonese, è il fiero teorico della necessità di ridare vita ai borghi abbandonati del nostro Sud.

Terzo. Comodamente io, orgoglioso cittadino napoletano, scrivo da un paesino di poco più di trecento anime, ascoltando la musica di un fiume e ai piedi di una monumentale montagna. Dove a volte penso che vivrei se sapessi dare una risposta rassicurante alla domanda cruciale: e se mi succede qualcosa in questo «paradiso» che faccio?

Sono, siamo dentro una contraddizione esemplare dello sviluppo distorto di tanta parte del Paese: da un lato la desertificazione di una trama di spazi diffusi ad ogni latitudine e una volta teatro quotidiano di una vita non dico facile e felice ma sicuramente identitaria, dall’altro la realizzazione di grandissimi spazi urbani che contengono servizi ma producono disagio, difficoltà, spesso un doloroso mal di vivere.

Se non vi si è costretti per l’esigenza primaria di trovare un lavoro, la fuga dalle metropoli non è certamente una soluzione. Troppo scontato contrapporre la congestione urbana alla tranquillità e salubrità del piccolo borgo antico. Se ambedue le condizioni sono in discussione, evidentemente a un problema si è data non una soluzione bensì una complicazione. Insanabile? A questo punto è azzardato dare una risposta risolutiva e convincente. Semmai occorre chiedersi come si sia giunti a questo snodo.

C’entrano molto l’economia che muove i popoli, le politiche nazionali e locali, i nuovi modelli di vita condizionati dall’esplosione delle innovazioni tecnologiche, il bisogno di nuove esperienze culturali prima ancora che di bisogno dei giovani e tanto altro ancora, ma poi c’è una generale responsabilità dei governi locali da cui non si può prescindere. Se non governi il territorio o lo governi male, se lasci spazio all’abusivismo o investi in lottizzazioni che saccheggiano gli spazi pubblici, se metti in ultima fila l’attenzione per i servizi, se dimentichi che, lasciando crescere in lungo, in largo e in alto parallelepipidi di cemento e non pensi allo spazio per muoversi, al verde per respirare e alle fogne per non infettarti, quando alla fine arrivi alla cassa o all’incasso devi solo pagare e non puoi neanche scegliere.

Ne sanno qualcosa i milioni di cittadini che vivono a Napoli. E parlo di milioni e non del poco meno di un milione che è registrato anagraficamente nel capoluogo, perché ditemi qual è il confine tra San Pietro a Patierno e Casoria, tra Chiaiano e Mugnano e se non è vero che per valicare almeno di qualche chilometro la metastasi cementizia occorre andare da un lato a Pozzuoli e oltre o dall’altro a Torre del Greco in avanti.

Tutto ciò è avvenuto in primo luogo per il prevalere di interessi speculativi che hanno strumentalizzato il diffuso bisogno di casa, e poi nei decenni, e quindi per responsabilità di ogni colore, vuoi perché per eliminare lo sconcio di via Marina trasferivi i suoi abitanti a Barra e Ponticelli, o per rimediare al bradisismo inventavi Monterusciello, o in attesa di sanare le ferite del terremoto sceglievi la «deportazione», come dicevano i terroristi, nelle periferie urbane. Mentre in tanti comuni della stessa cinta urbana spuntavano come funghi palazzi spesso edificati su discariche abusive.

Coco ha ragione. Il tema è quello eterno del governo del territorio. E duole dire che almeno per Napoli la prima rivoluzionaria inversione di tendenza è avvenuta quando gran parte dei danni era avvenuta, vale a dire all’inizio della prima sindacatura Bassolino allorché Vezio De Lucia, con una delibera storica, propose e fece approvare la «variante urbanistica generale» che finalmente poneva un limite alla crescita o, se preferite, alla superfetazione urbana. Prima e ultima? La speranza non muore mai, anche se nel bilancio del governo regionale uscente c’è una discussa e discutibile legge urbanistica che, tanto per cambiare, non è stata neanche approvata.

Non può, dunque, non essere stridente il contrasto tra questo scenario disordinato e spesso invivibile e la teoria dei bellissimi e deserti paesini della nostra meravigliosa terra. Che dovrebbero rinascere, a prescindere dalla fuga dai grandi centri urbani, grazie a iniziative virtuose e scelte innovative, non ultima la realizzazione di servizi fondamentali in posizioni strategiche vista l’impossibilità di moltiplicarli disseminandoli dappertutto. E sia chiaro che l’esigenza di riqualificare, per quanto possibile, le grandi città e la rivitalizzazione dei piccoli paesi non sono alternative ma fanno parte dello stesso tema. Che riassumerei in due immagini: l’efficienza di un ospedale, uno a caso, il Cotugno, e la foto del professore Teti che davanti a una vasca consumata dal tempo e colma di acqua immacolata ci ricorda che la terra non è nostra proprietà e che noi siamo solo suoi fortunati ospiti transitori.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 28 agosto 2020

Borrelli e l’alibi del «se l’è cercata»

Se l’è cercata, la ormai storica e inquietante battuta del Divo Giulio a proposito del delitto Ambrosoli l’ho risentita in questi giorni riferita a Francesco Emilio Borrelli. E se pure fosse? Che cosa è più grave: le provocazioni, mettiamola così, del consigliere regionale che denuncia con la propria testimonianza la vergogna dei parcheggiatori abusivi o la reazione degli stessi che lo picchiano? Piuttosto c’è da arrabbiarsi per il fatto che questa piaga sia un dato ineliminabile del panorama urbano tanto che moltitudini di napoletani vi si sono assuefatte ritenendola una forma tollerabile e tollerata di regolazione dei rapporti tra le persone. Che poi qualcuno paghi, può capitare anche questo, due volte la sosta – le pubbliche strisce blu e la privata quota rossa illegale – o che – ipotesi molto remota – dopo aver pagato il parcheggiatore abusivo ci si veda affibbiare una contravvenzione, è ordinaria amministrazione. E, come da copione, ci si chiede ad ogni nuovo poco edificante episodio di sopraffazione se non sia deprecabile la mancata rivolta dei cittadini. Io la metterei anche in un altro modo.
In questi giorni, e sono anni che lo fa, circola sui social la protesta documentata di un commerciante del Vomero. La sua stradina, una delle più antiche del quartiere, è prateria, ristretta naturalmente perché angusta, dei cittadini che fanno il loro comodo fregandosene degli altri. Questa volta una foto impreziosisce la denuncia: una teoria di auto che occupa la carreggiata e soprattutto sigilla porte e saracinesche. Anche quella del denunciante che non può aprire il suo esercizio commerciale perché non può accedervi e che si accinge alla messa pezzente in cerca del non gradito invasore. Dalla tipologia delle auto, in primo luogo suv imponenti e per lo più vetture nuovissime, e dalla composizione sociale della zona, si capisce che i proprietari sono di ogni ceto, si immagina anche qualche professionista, chissà forse pure qualche docente che poi più tardi ai propri studenti insegnerà tra l’altro le regole del vivere civile.
Le due storie, quella di Borrelli e quella del commerciante vomerese, hanno molto in comune, ci dicono tanto della nostra città. Innanzitutto raccontano la prepotenza, quella del parcheggiatore abusivo che taglieggia gli automobilisti e che, alle strette, mette in pratica la sua arma più convincente, la violenza o la sua minaccia, e quella del cittadino comune che si appropria degli spazi pubblici spesso se non quasi sempre incurante degli interessi altrui che lede così platealmente. Ma qual è la differenza tra la violenza tout court e quella sottesa nel comportamento della persona cosiddetta perbene? Del resto, anche in questo secondo caso la prepotenza è appena un filo prima di diventare altro nel momento in cui la “vittima” reagisce: le tante auto rigate che si vedono in giro sono la premessa di ben altro se solo se ne scoprisse in flagranza l’autore. E se capita e finisce male leggeremo che la lite è avvenuta per futili motivi.
Ora se tutto questo attiene a noi ed è materia di antropologia, c’è da ricordare che c’è un terzo soggetto: coloro che sono addetti ai controlli, alla vigilanza, alla prevenzione e, se serve. alla repressione. Troppo facile dire che per ogni napoletano, adagio insopportabile, ci vorrebbe un carabiniere. Sarà pure vero ma torniamo al caso dello sventurato commerciante che lotta da anni senza alcun risultato: oltre la foto ha raccontato con dati di fatto la telenovela burocratica tra vari organi della pubblica amministrazione il cui risultato è l’assoluta inerzia, quando quella stradina sarebbe, come è scritto pure nelle carte, una necessaria e gradevole isola pedonale. Dunque, anche nel caso in cui la stessa pubblica amministrazione venga sollecitata non si ottiene alcun risultato. Allora si potrà dire che ci vorrebbe un magistrato per ogni impiegato o dirigente o amministratore, ma anche questo sarebbe un adagio insopportabile. Il fatto è che noi cittadini napoletani – e in provincia le cose non vanno tanto diversamente – abbiamo un’idea della cosa pubblica essa sì causa di questa qualità della vita o, se si vuole, dell’invivibilità di cui ci lamentiamo mentre compiamo la nostra piccola infrazione quotidiana. Borrelli si metta l’anima in pace, così nessuno dirà che se l’è cercata.
Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 3 settembre 2020

Angela Napoli

Nelle foto ha quasi sempre uno sguardo serio, ai limiti della durezza. In effetti il suo modo di agire, fermo e severo, non è lontano da quest’immagine. Pur tuttavia, tra le righe di una conversazione a tutto campo su cose importanti, a tratti anche drammatiche, predomina sul suo volto un sorriso dolcissimo. Angela Napoli è un bastian contrario per antonomasia, parla per lei la sua sterminata e scomoda attività parlamentare, migliaia di interventi, interpellanze, interrogazioni, proposte. Dal Movimento Sociale Italiano ad An, una donna di destra senza titubanze e con due costanti: il rispetto della legge e un amore sconfinato per la Calabria. E dire che è nata altrove.

Dove?

«A Varallo Sesia in provincia di Vercelli. Sono figlia di papà calabrese, Vincenzo, e di mamma parigina, Clotilde, nata e vissuta in Francia fino all’età di diciotto anni,  poi rientrata in Piemonte con i genitori che erano piemontesi. Papà ha fatto il servizio militare in provincia di Vercelli e lì si è fermato. Ambedue erano insegnanti elementari, si sono conosciuti e si sono sposati. Siamo nati a Varallo Sesia i primi due figli, io e mio fratello. Poi tutta la famiglia è scesa in Calabria perché c’era il nonno paterno che aveva desiderio di avere un figlio vicino e mamma si sacrificò: io avevo quattro anni e mezzo per cui tutto è stato abbastanza semplice, ma per lei vissuta in ambienti ben diversi arrivare nella piccola realtà territoriale di San Giorgio Morgeto è stato abbastanza drammatico». 

Da Parigi alla Calabria fu davvero un bel salto.

«La mamma è stata una donna eccezionale. Papà ha fatto per molti anni il sindaco di San Giorgio Morgeto e da lì si è avviata anche la mia passione politica».

A questo verremo dopo. Lei è figlia di insegnanti ed è insegnante. Si è laureata in matematica, come mai?

«La matematica mi è sempre piaciuta. Ho preso l’abilitazione in matematica e fisica».

Cosa le piace della matematica?

«Tutto, l’analisi in particolare».

La precisione?

«Infatti,  sono una persona abbastanza schematica. Per esempio, se faccio politica penso che non si debbano fare discorsi senza poi concludere. Credo che questo sia frutto di quella formazione. Nei tre anni precedenti alla mia prima legislatura parlamentare ho fatto anche la dirigente scolastica. Ho insegnato matematica al liceo scientifico, sono stata preside un anno al Professionale per il Commercio di Polistena, un altro alla scuola media di Oppido Mamertina e uno al Magistrale di Palmi».

Professoressa e preside, quale delle due esperienze ricorda di più?

«Le ho fatte tutte e due con soddisfazione perché anche da dirigente non mi sono mai allontanata dal rapporto con gli studenti e con i docenti. Ho puntato molto sia sulla didattica che, secondo me, in altri tempi veniva professata in maniera molto più seria di oggi, sia anche sul ruolo educativo che l’istituzione scolastica dovrebbe avere. Ero molto legata ai giovani e cercavo di intervenire sulla loro crescita e sui valori morali. Ero abbastanza rigida, forse un po’ troppo, ero capace quando si prospettava qualche sciopero di andare a recuperare anche nei bar tutti gli alunni e portarli in classe».

La contestavano?

«Non mi hanno mai contestato, perché allora c’era un altro rispetto da parte dei giovani verso la classe docente. Lo dico sulla base dei miei trentatrè anni di insegnamento. Allora c’era la distinzione dei ruoli. Adesso purtroppo la scuola è molto cambiata, a mio avviso, in negativo soprattutto sotto l’aspetto educativo». 

Colpa dei docenti?

«Un po’ sì, perché i docenti degli anni passati si accingevano alla professione anche con uno spirito di volontariato e non come ad un normale lavoro».

La demotivazione non deriva anche dall’esiguo trattamento economico?

«Certamente. In questo senso nei primi anni della mia attività parlamentare avevo promosso una proposta di legge per il riconoscimento giuridico dei docenti, in questa ultima legislatura eravamo ad un passo dall’approvarla ma lo ha impedito l’opposizione delle organizzazioni sindacali della scuola. Ripresenterò la proposta».

Suo padre, sindaco di San Giorgio Morgeto, era di destra. Lei ha preso da lui?

«La mia scelta di destra è nata anche da questo perché papà e mamma hanno vissuto in Piemonte la Guerra di Liberazione, e lì la lotta tra partigiani e fascisti è stata molto, molto sentita». 

Suo padre era fascista?

«Sì. Anche mia mamma, che una mattina fu prelevata per essere portata alla fucilazione dai partigiani e fu salvata dal plotone di esecuzione proprio da papà. Allora non erano ancora fidanzati. Papà, che la incontrò mentre la conducevano al luogo della fucilazione, disse al capo del plotone che conosceva: ma dove la state portando, è la mia fidanzata».

Spieghi meglio. Perché avevano preso sua madre?

«Lei si trovava in un piccolo paesino, non Varallo ma Rimella, a ridosso della Svizzera tedesca, dove la guerra era spietata, cruenta. Come insegnante elementare era ancor più impegnata politicamente di papà, che era più pacifico, lei invece aveva il suo ruolo, portava la divisa. Papà riuscì a salvarla anche perché avendo un buon rapporto col segretario comunale, riuscì a promettere dei pacchi di farina ai partigiani. Di qui la riconoscenza e la decisione di non fucilarla. Il sistema nervoso di mamma ne è rimasto segnato per tutta la vita». 

Dunque, si sono conosciuti in quel momento?

«No, si conoscevano ma non erano ancora fidanzati. Da lì è nata la loro storia. E da questa storia sono venuta io. Ma questo non vuol dire che mi sia stata imposta la scelta politica: ho un fratello e una sorella nata in Calabria, ma mio fratello è di idee di sinistra. Quindi, non c’è stato alcun discorso vincolante da parte di mamma e di papà, che però sono stati molto contenti della mia scelta».

Come giudica quel periodo?

«Quando c’è la guerra civile non è mai una bella cosa. Però c’era un credo da una parte e dell’altra».

Lei non condanna né gli uni né gli altri?

«No, assolutamente. Perché chi aveva fatto delle scelte le aveva fatte perché ci credeva realmente, però poi quelle scelte così divaricate portarono ai drammi che in quelle zone sono stati vissuti in maniera tragica. Qui nel Sud no». 

Che insegnamento trae oggi da quella divisione cruenta?

«Fare di tutto per non arrivare mai più a situazioni del genere. Per questo non mi scandalizzo se, pur mantenendo la propria ideologia e la propria identità politica, si trovino soluzioni trasversali pur di evitare lacerazioni di quel tipo».

L’Italia può dirsi vaccinata?

«Sì. Certamente non vedo neppure in lontananza un rischio di quel genere, non sottovaluto però nemmeno la possibilità che tirando troppo la corda da una parte o dall’altra poi questa si possa spezzare».

Quando inizia il suo impegno politico?

«Da ragazza. Impegnata in politica vera e propria dopo il matrimonio quando sono arrivata qui a Taurianova dopo aver conosciuto mio marito, Manlio Abramo, all’università di Messina: lui si è laureato in economia e commercio. A Taurianova c’è stata un’iniziale pressione dei vecchi referenti calabresi del Msi, ad iniziare dall’onorevole Valenzise che abitava qui vicino, a Polistena, e che mi ha spinto inizialmente a impegnarmi come consigliere comunale di Taurianova, centro abbastanza martoriato dai tempi del famoso Ciccio Macrì. E lì sono iniziate le mie battaglie».

Furono battaglie epiche a quel che se ne racconta.

«A Taurianova ora abbiamo le amministrative e noi di An stiamo andando da soli perché abbiamo preso le distanze dal sindaco che pur essendo di Forza Italia è stato dichiarato ineleggibile perché alla terza consigliatura. Ma noi eravamo già usciti dall’amministrazione per questioni di legalità. Siamo in campo da soli, neanche con l’Udc, perché l’Udc è rappresentata dalla sorella di Ciccio Macrì».

Da dove deriva questa sua autonomia anche così spregiudicata? Lei sulla legalità si alleerebbe, se necessario, anche con l’estrema sinistra?

«Avevo cercato in questa competizione di fare un governo di salute pubblica, di larghe intese, dalla sinistra al centro alla destra per isolare il malaffare dell’amministrazione uscente che peraltro ha creato un buco di tre milioni e mezzo di euro, anticamera del dissesto economico. Non ci sono riuscita perché sono prevalsi i tatticismi. L’estrema sinistra, pur riconoscendo la bontà delle mie proposte, vede ancora troppa distanza da noi. Però io non ci trovavo nulla di scandaloso».

Con questo suo impegno martellante – su ogni fatto più o meno grave della regione lei fa almeno un’interrogazione parlamentare e non si ferma a questo – non corre pericoli?

«Da quattro anni cammino con la scorta. Le minacce sono iniziate da quando mi sono battuta per lo scioglimento del consiglio comunale di Lamezia Terme che era amministrato dalla Casa delle Libertà. Non mi sono sottratta perché conoscevo le collusioni esistenti. Non mi è stato perdonato questo comportamento dagli alleati, anche se lo scioglimento è avvenuto su proposta dell’allora ministro degli interni Pisanu, quindi un uomo di Forza Italia. Avevamo avuto un incontro anche col presidente Fini e avevamo visto bene le carte». 

Fini l’ha appoggiata?

«Sì. Certo non è stata una bella cosa. E in quel momento mi sono sentita molto isolata a livello regionale il che ha dato la possibilità alla criminalità organizzata di procedere con minacce. Poi ho continuato le battaglie che avevo iniziato non solo come consigliere comunale qui a Taurianova contro Ciccio Macrì. Da presidente del partito a Reggio, prima di essere eletta nel 1994, avevo presentato una lista di sole donne, capeggiata da me, nel comune di Platì quando per due tornate elettorali nessuno aveva osato candidarsi. Li ho sfidati, sono andata a presentare la lista da sola. Non c’erano cellulari, era il primo anno di presidenza».

Vuole ricordare quella giornata?

«Avevo ricevuto minacce, mi avevano anche rotto i vetri della macchina, mi avevano detto di stare lontano da Platì. È stata la presentazione di una lista unica ma simbolica. Sono andata con l’onorevole Valenzise a fare anche un comizio. Eravamo nella piazza da soli, io, Valenzise e le forze dell’ordine. Lui mi diceva: non ti preoccupare perché sono tutti dietro le finestre chiuse ma sentono, dici quello che devi dire e non ti preoccupare».

Ha avuto mai paura in questi anni?

«Paura ne ho avuta, ne ho. Adesso sono sotto pressione da parte dei Mancuso di Vibo perché ho fatto degli interventi durante il processo Dinasty abbastanza pesanti. Uno dei Mancuso era stato mandato dal carcere di Tolmezzo a Vibo con la scusa di un’operazione dentaria ed era da un mese libero di potersi recare in uno studio dentistico privato senza definizione temporale mentre si stava svolgendo un processo che riguardava anche lui. Ho ricevuto per posta anonima un plico di carte dove mi si raccontava questa storia. Ho fatto subito un’interrogazione parlamentare. Il giorno in cui è stata pubblicata questo signore è ritornato al carcere di Tolmezzo. Sono anche intervenuta perché per un cavillo giudiziario, voluto secondo me, stavano per restituire ai Mancuso dei beni sequestrati per un valore abbastanza elevato. Anche lì ho fatto un’interrogazione parlamentare ed è stato bloccato il dissequestro. Allora due dei Mancuso in videoconferenza durante il processo hanno iniziato col dire: noi abbiamo paura di questo processo perché è diventato un processo politico, leggiamo tutti i giorni i giornali e vediamo che l’onorevole Napoli sta esercitando pressioni sulla procura. Un chiaro messaggio. In seguito a questo gli avvocati hanno chiesto lo spostamento del processo in altra sede. Per fortuna non gli è stato concesso, e due mesi fa il processo ha portato al riconoscimento per la prima volta di questo clan come clan della ‘ndrangheta. Sono andata a Vibo di nuovo, ma una certa preoccupazione…».

Suo marito?

«Mi ha sempre seguita in queste scelte, non mi ha mai contraddetta. È stato di supporto».

Le dice mai di stare attenta?

«Ormai non me lo dice più. Ho una figlia sposata, Dora, una sola figlia, perché sono stata in fin di vita quando è nata e, quindi, sono stata costretta a fermarmi. Sono nonna di una nipotina di due anni e cinque mesi. Mia figlia abita a Roma. Forse quella che più mi dice di stare attenta è lei, e anche mio genero. Loro me lo ripetono quotidianamente. Mi dicono che è inutile, perché le mie sono battaglie – e su questo forse hanno ragione – che tendono ad isolare e non a ottenere il risultato positivo. Non sono del tutto convinta. C’è l’isolamento alcune volte politico».

Lo sente?

«Questo lo sento. Però nello stesso tempo c’è il riconoscimento di buona parte dei cittadini onesti. Loro non isolano, ancora non escono allo scoperto ma le lettere che ricevo quotidianamente, molte ancora anonime, non contengono minacce ma incoraggiamento a proseguire, sono denunce, anche racconti di fatti non più sopportabili. Mi sento sotto un certo aspetto anche come punto di riferimento. Questo non mi fa sentire sola, anzi mi incoraggia a sfidare ancora di più la situazione».

Perché lo fa?

«Perché ho un senso della giustizia, infatti vengo definita giustizialista. E poi perché credo nell’onestà di questa terra, e se non si dà forza alla gente onesta per aiutarla ad uscire dalla cappa  dell’omertà che ha sovrastato l’intero nostro territorio, non ne usciremo mai, non potremo essere di aiuto ai giovani. La cosa che mi fa sentir male e che mi vede alcune volte impotente è vedere le nostre risorse giovanili costrette ad abbandonare questa terra. E, quindi, continuo sperando che man mano cambino le cose. Devo dire che negli ultimi anni, nonostante situazioni incancrenite, dei risultati ci sono stati. La gente un po’ di più è disposta a scendere in campo, a denunciare».

Lo Stato e i cittadini. Chi deve fare di più?

«Lo Stato forse negli ultimi due anni più che in precedenza si sta rendendo conto delle assenze che ha avuto nei confronti della Calabria e sta cercando di intervenire. Non è semplice, perché ci sono leggi che spesso sono state fatte nei momenti di emergenza e oggi non sono più efficienti».

Miglioramenti, quindi, anche col governo di centrosinistra?

«Devo dire però con onestà che la cosa è iniziata col governo di centrodestra, con Pisanu ancor più che con Scaiola, che non mi piaceva come ministro degli interni. Pisanu è stato molto sensibile».

Il ministro Amato?

«E’ una persona perbene ma non lo vedo determinato».

Il viceministro Marco Minniti?

«Sarebbe determinato ma con una Finanziaria che ha penalizzato molto il settore della sicurezza tante cose non sono possibili. Tanti impegni assunti da Minniti negli incontri, nei tavoli di concertazione, a Lamezia, non sono mantenuti, anche se l’intenzione c’è. Certo non possiamo più delegare solo allo Stato centrale, perché questa delega è stata penalizzante per la Calabria, ha portato i cittadini ad aspettare che qualcuno intervenisse per loro. Invece credo che proprio da qui che deve nascere la svolta».

Magistratura: lotte intestine un po’ dappertutto. 

«È una vecchia storia. Ricordo che fin dall’inizio della prima legislatura sono stata costretta a fare interrogazioni rispetto a situazioni di frattura, di gelosie interne alle varie procure calabresi. Questo non è positivo perché non crea giustizia, non porta alla giustizia. Però devo dire che tante distorsioni derivano anche da processi che riguardano i poteri forti, compresi i poteri politici, che magari qualcuno vorrebbe bloccare e qualchedunaltro vorrebbe portare giustamente a compimento. Ma questi processi sono nati per responsabilità del mondo politico calabrese, che non si comporta in maniera corretta».

Non c’è troppa politica in questa regione?

«Sì. È stato dato troppo potere alla politica, la quale è l’unica chiamata a decidere. Tutto è in mano alla politica, che peraltro in parte si è associata a quel settore della massoneria deviata che ha alimentato le bande interne». 

Dunque, secondo lei, l’allora procuratore Agostino Cordova aveva ragione nell’avviare le indagini sulla massoneria?

«Aveva pienamente ragione tant’è che la sua indagine è stata spostata a Roma dove si è insabbiata. Forse l’intervento di Cordova allora sarebbe stato determinante per non arrivare alle deviazioni che ci sono oggi».

Lei è di An, una forza che sta all’opposizione a livello regionale. Ma è difficile accorgersene. Come mai?

«Non c’è opposizione, c’è un trasversalismo che certamente non aiuta né la maggioranza, che non è incitata, né tanto meno l’opposizione, e si finisce col creare maggiore confusione nei cittadini».

Ma lei non ha prima parlato di trasversalismo quando ha detto che non guarda la tessera ed è pronta ad allearsi anche con la sinistra se serve?

«Ma sono due trasversalismi diversi. Penso a due esempi eclatanti della Regione come il concorsone e il pensionamento dei dirigenti: non è un bene. Il trasversalismo va bene se serve alla crescita, non va bene se serve agli affari».

Sua figlia è a Roma. Perché non è in Calabria?

«Mia figlia ha scelto di lasciare la Calabria perché non condivideva la situazione calabrese da cui non vedeva una via d’uscita».

Quest’immagine di lei e sua figlia sembra molto emblematica. Lei ha deciso di restare qui per battersi, sua figlia ha deciso di andare via perché non c’è nulla per cui vale la pena battersi. Sono le due facce della Calabria?

«Quando le ho detto che continuo questa battaglia proprio perché mi fa male vedere i nostri giovani costretti ad andare via, è proprio per questo, c’è anche mia figlia tra questi giovani».

Il suo sogno è che sua figlia torni qui?

«Non c’è dubbio. Ma allo stato attuale così com’è no, perché giorno dopo giorno non vedo soluzioni. Quanti giovani che escono dall’università di Cosenza, che rappresenta l’eccellenza, sono costretti ad andare via? Il mondo politico di destra, di centro e di sinistra non ha mai pensato a uno sviluppo di tutto il territorio, è mancata una programmazione ad ampio raggio».

Nella sua scelta c’è una sfida, che altro ancora?

«Amo la gente onesta, la sua semplicità, amo le risorse naturali di questa terra, che ne ha tante. Ho lo fortuna di girare il mondo per la mia attività parlamentare, vedo risorse che non sono paragonabili a quelle della Calabria e che vengono sfruttate. E allora perché non riuscire a fare della Calabria la regione gioiello della nostra nazione?».

Un gioiello da regalare alla sua nipotina. Quando sarà grande come gliela spiegherà la Calabria?

«A Federica spero di raccontarla nella sua parte migliore, perché sono convinta che la Calabria nonostante tutto stia cambiando. E mi sento di dare un po’ di fiducia ai calabresi. Mi auguro di spiegargliela in modo che possa anche lei imparare ad amare questa terra che va amata, va amata».  

Lucio Presta

Altri manager dello spettacolo, travolti da scandali e polemiche, scendono dal podio, lui va avanti per la sua strada. Per marcare la distanza gli basterebbe mettere in campo Benigni, in realtà può contare su una ricca scuderia di artisti di qualità. Il segreto di Lucio Presta? Ha a che fare con la Calabria nonostante l’abbia lasciata da tempo per diventare, come tanti altri calabresi in Italia e nel mondo, un numero uno nel suo campo.

Nasce a Cosenza nel 1960. Dove esattamente?

«A piazza della Riforma».

Nel cuore della città. Che ricordo ne ha?

«Un ricordo meraviglioso. Sono cresciuto da ragazzo nelle palazzine dei ferrovieri, nella casa di mio nonno. Pomeriggi assolatissimi in questo nucleo di piccole palazzine con tre-quattro famiglie in ognuna. Ci si conosceva tutti, eravamo i figli di tutti nel senso che si poteva vivere sufficientemente spensierati perché i genitori ci lasciavano abbastanza liberi. In qualunque posto eravamo di questa zona c’era una famiglia che ci guardava, perché, ripeto, i figli di una erano i figli di tutte. I ragazzi erano tutti conosciuti, le famiglie si conoscevano tutte. Una piccola città nella città. Mi manca. Ogni tanto penso con nostalgia a quei ragazzi, ci siamo persi, di un paio ho ancora notizie, mi sarebbe piaciuto rivederli, sapere cosa fanno».

A scuola dove?

«A Cosenza, poi a Praia a Mare perché il mio papà ha costruito l’ospedale di quel comune, e, quindi, ci trasferimmo lì. Successivamente andai in collegio a La Spezia».

Come mai?

«Ero abbastanza discolo e mio padre decise che mi ci voleva una bella lezioncina di educazione. Mi mandò in collegio a La Spezia dai Salesiani dove feci le scuole medie. Poi sono tornato a Cosenza e più tardi sono andato a Milano».

In quegli anni ha anche lavorato a Cosenza?

«Non a Cosenza. Per mantenere la mia indipendenza da mio padre decisi di andare a lavorare negli alberghi. Ne ho girati parecchi in Calabria e dintorni, dal San Michele di Cetraro al Santavenere di Maratea».

Li sceglieva con cura?

«Si, ma ero anche furbo, perché spesso e volentieri mio padre faceva i lavori in quegli alberghi. Non volevo dipendere da lui però telefonavo sempre nei posti dove lui era molto conosciuto, e, quindi, mi prendevano».

E che lavoro faceva?

«Ho sempre fatto l’aiuto barman, praticamente il ragazzo del bar».

Sempre in mezzo agli alcolici

«Infatti sono assolutamente astemio».

Quando nasce la scelta della danza?

«In un albergo conobbi un grande ballerino di allora che faceva sia classica che contemporanea, John Lei, un americano straordinario che aveva una scuola a Milano. Trovò che avevo un minimo di talento, cominciai a studiare come un forsennato dieci ore al giorno e dopo qualche anno ho debuttato in televisione e ho cominciato a fare Fantastico Uno, Fantastico Due fino a Fantastico Cinque».

Suo padre che disse della sua scelta?

«Mi guardava con sospetto. Anche perché tenga presente che ero giovane, capelli lunghi, orecchino, ballerino… Lui era sereno, conosceva i miei orientamenti sessuali, sapeva che mi piacevano le donne, però gli dava fastidio questa roba. Non mi osteggiava. Anche perché, per quanto l’ho sempre rispettato, l’ho anche sempre fronteggiato. Per cui se mi avesse detto di non fare una cosa l’avrei fatta due volte di più. E, quindi si arrendeva».

Insomma lei aveva un caratterino?

«Sì, una personalità formatissima anche da ragazzo. Non so come dire, poche idee ma precise».

Come diventa manager?

«Io mi metto con Franco Miseria e Heather Parisi, allora coppia regina della danza in Italia. Lavoro con loro, divento molto amico di Miseria. Capisco che la mia ambizione non è proprio quella di ballare. Franco doveva organizzare una tournée in Germania, Danimarca e Svezia per la Parisi. Dissi: posso provarci io a organizzare tutto quanto? E lui in un momento di follia mi disse sì. Da lì nacque il mio rapporto con Vincenzo Ratti, che era il manager della Parisi, di Benigni e di tanti altri».

Dunque, l’incontro con Ratti fu decisivo?

«Sì. Nel frattempo producevo i balletti per conto della Rai, che faticava molto a scritturare le ballerine. Così da giovane di belle speranze un anno dopo fatturavo cifre a sei zero. Questo venticinque anni fa. Andammo avanti per qualche anno, io e Vincenzo, poi capii che bisogna trovare persone nuove e così presi Bonolis».

Che è rimasto uno dei suoi assi nella manica.

«Era giovane, non aveva manager, aveva appena fatto una trasmissione in Mediaset. Proposi alla Rai di fare “I Cervelloni” con questo ragazzo, il capostruttura Mario Maffucci volle affiancarlo con Gene Gnocchi. Le cose non andavano bene, dopo due puntate Gene lasciò, dalla settimana successiva il programma fatto da Paolo come voleva lui divenne un successo clamoroso».

Il segreto di Bonolis?

«È uno dei pochi artisti italiani che ha in bocca un vocabolario, nel senso che ha l’uso corretto, alto e basso, della lingua italiana. Ti fa una citazione colta e un attimo dopo ti lancia una frase con doppio senso. Persona di grande talento, semplice, che si pone davanti al concorrente o all’ospite in maniera curiosa, perché è un grande curioso della vita, fa le cose con allegria e si vede».

Mara Venier andava alla grande, poi è stata messa da parte?

«Ha un grandissimo carattere: quello che ha nel cuore ha sulla lingua. Mi dispiace molto che l’anno scorso la Rai l’abbia sostituita a “Domenica In” con Lorena Bianchetti, persona valida ma di un’altra categoria come si vede dal successo di chi ha di fronte».

Paola Perego, che ha un posto importante nella sua attività e nella sua vita.

«Nella mia attività ha esattamente il posto che hanno gli altri. Non ho più affetto e attenzione per lei di quanto ne abbia per Mara Venier, la Clerici o la Panicucci. Nella vita privata è un’altra cosa. Stiamo insieme da dieci anni».

Una bella durata nel suo mondo?

«Ma io sono lontano dal mio mondo e Paola è la donna di spettacolo più lontana dal mondo dello spettacolo».

Benigni non ha bisogno di presentazioni.

«Mi picco di averlo convinto, ammesso che andasse convinto – forse ho solo stimolato il suo desiderio – di tornare in televisione. Il 23 dicembre del 2002 ho fatto questa cosa straordinaria, “Ultimo del Paradiso”. Il mattino dopo vedere quei dati di ascolto con un programma così alto, così difficile, così importante, devo dire che mi ha inorgoglito e non poco».

Sarà molto invidiato per il suo rapporto con Benigni?

«Sicuramente, è un privilegio di pochi stare accanto a Roberto».

Che persona è?

«È la persona più dolce, colta, attenta alle delicatezze, alle manifestazioni di affetto, di rispetto, che io abbia mai conosciuto nel mondo dello spettacolo».

Andate sempre d’accordo?

«Non ho mai discusso nella mia vita con Roberto Benigni».

Neanche per convincerlo a venire in Calabria?

«No, assolutamente. Non era mai stato in Calabria per lavoro, ma solo di passaggio. Conosceva l’affetto che provo per la mia terra e il mio desiderio di fare qualcosa per essa, è bastato dirgli “mi piacerebbe iniziare la tournée” e lui ha proseguito “in Calabria naturalmente”».

Non se n’è pentito?

«Dopo mi ha ringraziato non solo per gli spettacoli che sono andati bene ma per l’affetto che ha ricevuto in Calabria, per alcuni scorci che ha incontrato partendo e arrivando. Ha guardato con gioia una terra che non conosceva e che ha saputo molto apprezzare. Naturalmente io volavo a due-tre metri sopra il cielo».

Torniamo un momento a questo mondo dei manager televisivi. Non è proprio un bello spettacolo. D’accordo?

«Noi siamo quello che vogliamo essere. Ognuno ha il suo stile, il mio stile è improntato alla sobrietà, alla regolarità, all’interesse dell’artista. I miei artisti non fanno convention, non vanno nelle discoteche a firmare gli autografi, non fanno inaugurazioni di supermercati. Dietro l’uscita di un artista c’è e ci deve essere una prestazione artistica. Si faccia i conti dei soldi che ho lasciato per strada».

Dunque, la frase che le attribuiscono di passare alla cassa prima di passare alla storia non è vera?

«Quella è una battuta e io pur di fare una battuta mi farei ammazzare. Ho avuto la fortuna di passare alla cassa ma anche di passare per una piccola storia».

Che pensa della tv-spazzatura?

«Che non esiste. Esiste la televisione che è un po’ lo specchio della società. La gente passa le serate intere a spiare Cogne dal buco della serratura, però poi segue “Ultimo del Paradiso”. Nei miei programmi livelli di scadimento non ce ne sono. Anche la lite tra Sgarbi e Mussolini e quella tra Sgarbi e Cecchi Paone a “Domenica In” si sono consumate tra persone di buon senso che in quel caso hanno fatto una mattata».

Anche lei ha litigato. Per esempio, con Pippo Baudo.

«Conosco Pippo da quando ballavo. Mi inchino davanti alla sua storia ma non gli perdonerò mai di chiamare un collega come Bonolis “de cuius” come se fosse un morto».

Di lei si è detto di tutto: uno squalo, un furbo, un simpatico mascalzone. Lucio Presta chi è?

«Un uomo, adesso anche un po’ adulto, che ha dedicato con amore tutta la sua vita a cercare di fare bene un mestiere». 

Ed è diventato il numero uno.

«Forse perché intorno avevo delle capre. Stimo pochissimo i miei colleghi».

Lele Mora?

«La prego, è come voler paragonare la cultura, le radici, i cibi, gli oli, i sapori, i profumi, i colori della Calabria con quelli di un qualsiasi altro posto».

Ecco, la Calabria. Per avere successo bisogna scappare?

«Questa è la colpa più grande. Io non mi sento coraggioso. Probabilmente avrei dovuto restare. Se avessi fatto quello che ho fatto restando, oggi sarei più orgoglioso. Mi piacerebbe continuare a fare piccole cose ma significative per la mia terra perché credo di essere in debito con essa».

Perché?

«Perché ho un carattere molto forte, tipico dei calabresi. Ho una determinazione nel perseguire un obiettivo, la chiami cocciutaggine, che è tipica della mia gente. Ho un’educazione che è tipica dei calabresi: porto rispetto agli adulti, cerco di difendere i più deboli, è difficile che io litighi con qualcuno che è in difficoltà».

Perché queste qualità si esprimono con tanta difficoltà in Calabria?

«Non è possibile che alcuni dei posti più importanti d’Italia siano occupati dai calabresi e nessuno di questi sia stato capace di fare qualcosa in Calabria. Forse saremo stati anche frettolosi nell’andar via. Da qualche parte c’è un tarlo, una malattia, un tumore che in qualche modo corrode gli organi sani».

Due figli, Beatrice e Niccolò, 17 e 18 anni. Vengono in Calabria?

«Sì, qualche volta dal nonno a Cosenza. Mi prendono in giro quando parlo in calabrese, e poi dicono che per il cibo questo è un paradiso. Naturalmente sono ragazzi nati a Roma. Per loro la Calabria è una gita».

Nel suo futuro c’è un ritorno in Calabria?

 «Mi piacerebbe. Prendo sempre in giro Paola e le dico che la vecchiaia la vorrei passare a Cosenza. E lei che è monzese mi guarda strano, poi mi dice: facciamo a metà, fermiamoci a Roma. Ma a lei piace la Calabria, si sente cosentina e, se non fosse così, glielo imporrei io».

Giuseppe Nola

A quei tempi le industrie erano considerate il toccasana per una regione dolente e arretrata. Qualcosa è rimasto in alcune aree, qualche ciminiera, capannoni abbandonati, di fabbriche in attività poco o niente, e le nuove industrie spesso non sono altro che involucri vuoti che sono serviti a strappare lauti finanziamenti pubblici. Di agricoltura si è parlato sempre poco, e chi lo faceva veniva zittito con l’argomento che non c’era molto da ricavare da una lunga sequenza di montagne che finiscono nel mare. Giuseppe Nola la pensava diversamente, anzi ad un certo punto, muovendosi nella scia dell’azienda paterna e dell’attività del fratello maggiore, ha pensato che meglio delle parole servissero i fatti. Attraversare oggi la Piana di Sibari è uno spettacolo che fa bene al cuore: agrumeti, frutteti, oliveti a perdita di vista, ordinati, curati in ogni angolo, neanche un centimetro quadrato di terra risparmiata, e dove serve, anche lungo i primi pendii delle montagne. Gli incendi non toccano le terre coltivate perché la prima difesa è la cura del territorio. Migliaia di famiglie vivono di questo lavoro, la loro Fiat si chiama clementina, pesca, uva, albicocca. E questo sarebbe già tanto, ma un particolare fa pensare di essere in Emilia Romagna perché in una terra dominata dall’individualismo come la Calabria c’è un esempio di cooperazione, ed il bello è che funziona magnificamente.

Come avviene questo miracolo, signor… clementina?

«Buona questa! Dunque, a metà degli anni Sessanta un gruppo di imprenditori operava nella Piana di Sibari, c’erano solamente delle colture estensive, grano e altro, di pregiato nulla. Prima della guerra c’era stata la bonifica, perché Sibari era acquitrinosa: ne aveva beneficiato anche mio padre Camillo. Di fatto, anche se c’erano imprenditori, come le aziende Toscano, che esportavano le lattughe in Svizzera, le attività erano limitate, ad un certo punto quasi ferme, fino a quando non sono subentrati quelli della mia generazione, i figli di quegli imprenditori».

Nel 1964 lei aveva vent’anni.

«Mio fratello che era più grande di me di dodici anni, aveva uno studio tecnico. Studiavamo tutti e due in Toscana».

Dove?

«A Viareggio il liceo in un collegio per figli di italiani all’estero dove c’erano anche molti figli di ambasciatori. La struttura infatti dipendeva dal ministero degli esteri».

Come mai suo padre scelse questo collegio?

«Perché avevamo uno zio che insegnava a Pisa Infatti mio fratello ha fatto l’università a Pisa, mentre io l’ho fatta a Roma».

Lei si è laureato in che cosa?

«In economia, mio fratello in agraria. Siamo partiti con questa azienda da giovanissimi anche perché nel frattempo papà era morto in un incidente stradale. Mio fratello incominciò ad interessarsi dell’azienda e un po’ tralasciò lo studio tecnico che aveva avviato a Cosenza. All’inizio frequentò lo studio di agronomi di Cecchino Principe, poi si mise per conto suo. Io mi laureai a Roma, nel ’68, l’anno delle prime rivoluzioni. E devo dire che ho fatto anche un po’ di politica universitaria».

Ricorda gli scontri all’università di Valle Giulia che diedero il via a quel movimento?

«Certamente. Ero a Fontanella Borghese, proprio al centro di Roma. L’esperienza universitaria è stata importante anche per i professori».

Ne ricordi qualcuno?

«Si, Fanfani, Caffè…».

Ha fatto un esame con Amintore Fanfani?

«Quello in storia economica. Era puntualissimo nonostante avesse impegni a non finire. Purtroppo faceva le lezioni e gli esami alle sette e mezza di mattina. Era molto sensibile ai calabresi perché credo che aveva la mamma o un altro parente in Calabria. In particolare quando c’era qualche calabrese o meridionale a cui dava trenta e lode, che era molto difficile, addirittura se lo abbracciava».

Che voto le diede?

«Non so se ho preso ventisette. Era molto duro. Poi la sua storia economica era un volumaccio di cui voleva approfondire i particolari, per esempio chiedeva delle monete e se sfuggiva qualcosa erano guai».

Federico Caffè?

«Era molto affascinante, un professore difficile. Innanzitutto faceva vita universitaria. Pensi che all’università di Roma c’erano molti docenti impelagati in politica o in attività pubbliche, pochissimi erano i veri professori, e tra questi c’era Caffè. Era veramente un mito, tra l’altro molto vicino ai giovani mentre gli altri erano cattedratici un po’ all’antica. L’esame con lui era più che nozionistico, lui ti faceva ragionare, un altro poco ti diceva il fatterello e voleva sapere perché avveniva questo e perché avveniva quest’altro».

Il voto?

«Ventisei o ventisette. La mia media».

Quando più tardi ha saputo che era scomparso – e finora nessuno sa che fine abbia fatto – che cosa pensò?

«È difficile farsi un’idea. Viveva solo, purtroppo la mente umana è imprevedibile. È un mistero. Ci sono allievi come Draghi, il governatore della Banca d’Italia, un suo pupillo, che non riescono a dare una spiegazione».

Un’esperienza universitaria, quindi, più che stimolante?

«Assolutamente. Avevo anche come professore Giuseppe Petrilli, presidente dell’Iri, con cui ho fatto la tesina in tecnica delle assicurazioni. A me è servita molto per entrare nel mondo del centro studi dell’Iri, dove avevo un amico. Mi disse che per entrare era importantissimo girare nei centri operativi dell’Iri. In quel periodo era appena aperto il centro Italsider di Taranto, nuovissimo, una delle più grosse acciaierie d’Europa, con uno dei primi calcolatori, sicuramente il più grande d’Europa. Anche quella fu un’esperienza molto interessante. Ad un annetto dalla laurea, dopo una esperienza nello studio di un commercialista a Brescia e sei mesi a Roma, sono passato all’Italsider rimanendoci un anno e mezzo».

Alla sua azienda non pensava affatto?

«Stando a Taranto speravo di guardare anche alla mia azienda, che si trova verso Sibari. Speravo di andare a dare una mano a mio fratello il sabato e la domenica, in effetti mi ero così inserito nel lavoro dell’Italsider che il sabato e la domenica andavo spesso a lavorare con il direttore. Mio fratello ad un certo punto mi ha detto: ti devi decidere se rimanere all’Italsider – e allora io non conto proprio su di te – o venire qua».

E lei passò dall’acciaio all’agricoltura. Con quali propositi?

«Nostro padre ci aveva lasciato una bella azienda anche in termini di superficie, ora è sette volte più grande. In realtà pensammo subito di allargarci. Qui a Cosenza, per esempio, c’era la Centrale del Latte che andava molto male. Mio fratello se ne interessò perché la nostra azienda era anche zootecnica. Non ci interessava il prodotto di nicchia, abbiamo sempre cercato di vendere quello che producevamo e di allargarci con altri produttori. Ci siamo detti: per quanto possiamo diventare grossi saremo sempre piccolissimi nei confronti della controparte che stava nascendo, che era la grande distribuzione. Non solo. In frutticoltura – allora si faceva in Emilia Romagna in dimensioni notevoli – noi abbiamo subito puntato al mercato estero». 

Una sfida ardita? 

«In Europa si stava formando la grande distribuzione, che in Italia è arrivata con un ritardo di vent’anni. Vendevamo un po’ in Francia, molto in Germania, un po’ in Inghilterra, conoscevamo mercati e situazioni. In Germania, quando abbiamo incominciato, la società a cui vendevamo i prodotti aveva sedicimila miliardi di vecchie lire di fatturato, oggi forse le Coop hanno raggiunto questo traguardo mentre in Germania si parla di centocinquantamila miliardi di fatturato di vecchie lire. Quattro-cinque grosse catene rappresentano l’ottanta per cento del mercato tedesco». 

Avete rapporti con queste catene?

«Due o tre le stiamo rifornendo da vent’anni, diciamo da sempre, da quando siamo nati. E abbiamo maturato una mentalità un po’ tedesca perché loro sono precisi, cioè non sono pignoli ma gli standard che impongono vanno rispettati, altrimenti fanno una croce sopra il fornitore. È successo così che loro diventavano sempre più grossi e ti chiedevano di fare altrettanto. Da qui è nata l’esigenza di allargarci».

… e della cooperazione?

«Si, perché ci siamo resi conto che da soli non ce l’avremmo fatta. Questo è stato il discorso vincente. Ci siamo messi insieme stabilendo delle condizioni rigide: il socio non può lasciare la cooperativa quando vuole, se lo fa deve pagare il danno a quelli che rimangono».

Perché questa rigidità?

«Non poteva essere diversamente con l’individualismo che c’era nel mondo agricolo e più in generale nella nostra terra».

Gli altri produttori hanno creduto subito all’idea di cooperare?

«Qui sono tutti san Tommaso, se non toccano con mano non ci credono. Quindi, anche tutti i nostri vicini, vedendo la nuova frutticoltura in espansione, hanno sentito la necessità di entrare nella cooperativa perché non sapevano come emularci. La cooperativa gli dava assistenza tecnica, il capocoltivatore, il know how. Questo ci ha legato molto, e ancora oggi è così perché molti nostri agricoltori non è che conoscono bene i processi tecnici. Tenga presente che il nostro sistema tecnico è molto rigido».

In che senso?

«Forse abbiamo la cooperativa più controllata in Italia. Tutto passa attraverso un sistema informatico. Ogni trattamento è comunicato, abbiamo nel computer centralizzato la storia di tutto. Le conseguenze sono state importanti sia in termini di qualità sia occupazionali».

Quanti dipendenti?

«Solo in quella frutticola ci saranno almeno tremilacinquecento persone impegnate tra le aziende e lo stabilimento di lavorazione della frutta, praticamente tutto l’anno perché dopo l’iniziale impegno nella frutta ci siamo estesi agli agrumi. D’estate da noi partono diciassette bilici per l’estero, quasi quattro milioni di tedeschi mangiano una pesca nostra ogni giorno per quattro-cinque mesi all’anno. Forse la nostra è la più grossa società da Napoli in giù».

Con gli agrumeti la Piana di Sibari ha cambiato fisionomia. È stato difficile?

«Molto. I proprietari si sentivano sicuri delle loro conoscenze, erano convinti di saper fare, il che non era vero perché da quando è incominciata l’assistenza tecnica il prodotto è cambiato da un anno all’altro. Alcuni produttori, quando hanno visto i risultati sia in termini di quantità sia di qualità, sono rimasti strabiliati. Purtroppo i nostri agricoltori ritengono di essere padroni della loro materia. Pensi all’ulivo, con questa mentalità non riusciamo a sfondare nei mercati perché siamo molto indietro».

Un cambio di mentalità che però può essere favorito dai risultati di una cooperativa come la vostra.

«Sicuramente. In effetti credo che il nostro sia un esempio unico di agricoltura in Calabria. I nostri dipendenti hanno una stabilità tale da poter accendere mutui sulla casa».

Voi, intendo la famiglia Nola, quanto contate nella cooperativa?

«Il venti per cento, gli altri l’ottanta per cento. Copriamo una superficie di 3200 ettari (agrumeti e frutteti vincolati alla cooperativa). Siamo stati pionieri. Purtroppo siamo rimasti un’isola felice perché il contesto è quello che si vede. Speravamo che il nostro esempio venisse seguito a Corigliano, che si creassero altre cooperative. Pensavamo che qui potesse avvenire quello che è accaduto in Emilia Romagna, che ci si mettesse insieme per creare un consorzio con finalità precise, dalla commercializzazione al know how». 

Avete tentato di convincere altri?

«Nel 1986 abbiamo proposto il piano Damon, una sorta di piano territoriale da presentare alla Regione che prevedesse un paniere di prodotti. Dopo le pesche, le nettarine, le albicocche, pensavamo che si potesse sviluppare anche l’industria della frutta, in particolare quella sciroppata, come hanno fatto in greci che oggi sono i primi in questo campo. Ma erano anni in cui non si credeva all’agricoltura».

A quell’epoca era più facile parlare di industria.

«Esattamente. Mancini ma anche tutti gli altri lo facevano. Si sosteneva che l’agricoltura era roba vecchia, ormai superata. Io invece ricordavo che all’università ci insegnavano che se non c’è un’agricoltura sviluppata è difficile passare all’industria da un giorno all’altro».

Dalla politica non avete avuto alcun aiuto?
«Più volte inutilmente abbiamo chiesto alla Regione incentivi alla concentrazione, un modo che non avrebbe imposto agli agricoltori di mettersi insieme ma che sicuramente li avrebbe tentati. Davano lo stesso contributo a tutti senza alcun obiettivo. A un funzionario regionale consigliai, all’epoca dell’introduzione del clementino, ora in crisi per sovrapproduzione, di condizionare i contributi alla produzione solo se fosse stata garantita la commercializzazione».

Col vostro modello di cooperativa rappresentate un’anomalia non solo per il Sud. In una regione come la Calabria dove tutto sembra dipendere dalla politica, come ve la cavate?

«Anche noi dipendiamo perché in agricoltura ci sono a livello europeo degli aiuti che oggi passano attraverso le Regioni. Molto spesso saltiamo il livello regionale perché su tutti i fondi comunitari il ministero si riserva un dieci per cento per grandi iniziative. Infatti abbiamo costituito una società che coinvolge altre regioni per poter accedere ai fondi ministeriali che sono interregionali. Questo ci consente anche di arricchire il nostro paniere: stanno con noi, per esempio, i commercianti delle migliori uve delle Puglie, dell’agrume rosso di Sicilia, delle ciliegie del Barese».

Come nacque l’idea di puntare sulle clementine?

«Il clementino è un ottimo prodotto, senza semi e adatto al consumatore di oggi che non vuole “lavorare”. Il nostro di Corigliano è buonissimo dal punto di vista organolettico. Siamo stati i primi, e forse siamo ancora gli unici, a esportarlo in Germania perché gli altri commercializzano sul mercato nazionale. All’estero imperversa la Spagna che ha fatto un ottimo lavoro di marketing, ma gli spagnoli rimangono imbarazzati quando assaggiano il nostro clementino».

Questa qualità dipende dalle tecniche produttive?

«No, dal padreterno. Pensi, se va in Sicilia non riesce a fare il clementino senza semi».

Il frutto senza semi è anche il risultato di una ricerca?

«Certamente, un lavoro effettuato in un centro a Acireale. Noi abbiamo anche l’uva senza semi, un brevetto americano che per primi abbiamo preso».

Non vorrete fare anche i fichidindia senza semi?

«Qualcosa è stato fatto, almeno per diminuirli».

E snaturarli. A che doveva servire il distretto di qualità?

«Due-tre anni fa abbiamo raccolto ottomila firme per far deliberare a ventotto comuni, da Corigliano a Rossano, da Castrovillari a Firmo, la richiesta di una legge regionale sui distretti di qualità. La nostra proposta prevedeva una società privatistica di gestione e un comitato pubblico di indirizzo. La Regione avrebbe fatto un figurone in Comunità Europea. Il ministro De Castro aveva apprezzato il nostro lavoro. Però, la politica quando vede aggregazioni o ci mette le mani o è difficile che te ne dia una».

Lei è stato sottosegretario al porto di Gioia Tauro nel primo governo Loiero. Un fallimento?

«Ottimi rapporti con gli altri e con il presidente, ma i tempi e le possibilità di decisione erano lontanissimi dalla mia mentalità. Con Mimmo Cersosimo, che aveva scritto il programma e che non entrò in giunta, avevamo sperato di portare qualche segno di cambiamento».

Perché non le diedero l’agricoltura?

«Fui io a dire che non me la sentivo temendo che si potesse parlare anche per me come per Berlusconi di conflitto di interessi. Il discorso di Gioia Tauro era ed è importantissimo, è ancora la carta che possiamo giocarci in Calabria».

Ma la vostra cooperativa non utilizza Gioia Tauro.

«Ci serviamo di più del porto di Salerno perché funziona molto bene ed è più vicino a noi. Tornando a Gioia Tauro, col rigassificatore potevano crearsi le condizioni per realizzare la piastra del freddo che avrebbe potuto sviluppare i rapporti con paesi come Algeria, Tunisia, Marocco. In tal modo il flusso dei prodotti da quei paesi sarebbe passato per Gioia Tauro grazie alla possibilità di avere il freddo gratis, e si sarebbe potuto associare a quello dei nostri prodotti».

Discorsi abbandonati?

«Dopo quell’esperienza ho fatto dei viaggetti in quei paesi. Oggi abbiamo in itinere un progetto che riguarda la Tunisia dove potremmo applicare lo stesso sistema dell’Osas, la nostra cooperativa. Ci chiedono assistenza e know how. Con le società miste la Calabria potrebbe svolgere un ruolo da protagonista».

Per la Regione questo è parlare arabo?

«Sì. Ed invece bisognerebbe volare in alto. Pensi al mercato cinese: il consumo di latte pro capite è passato in cinque anni da nove a diciotto litri, e in Europa, dove la Comunità Europea addirittura ci avevano detto di non produrre più latte, il prezzo sta crescendo vertiginosamente perché la Cina ne fa incetta. A una delegazione cinese ho detto che entro dicembre gli mando cento container di latte, non so se ci riusciremo. Con il rettore dell’Unical, Latorre, mi sono incontrato per discutere dei rapporti con gli studenti cinesi».

Lei è di Cassano e vive a Rende?

«Sì, da sempre. Mia moglie è di Castrovillari».

Quindi, è stato “amministrato” del sindaco Cecchino Principe.

«Lo stimo tantissimo. Era molto amico anche di mio padre. Del resto Cecchino è agronomo. Di lui ho un ricordo meraviglioso. Era un periodo in cui ci sentivamo legati a Rende, a quello che stava facendo».

Rende di oggi?

«Sta un po’ cambiando, non è più quella di Cecchino. Se ne parla in modo polemico. Il pericolo che si guasti c’è. Un dirigente della Sme mi raccontava che Cecchino, quando era sottosegretario, lo andava a disturbare continuamente facendosi raccomandare per avere i pini da piantare a Rende».

Con Mancini che rapporto aveva?

«Buono. Ma non credeva pregiudizialmente all’agricoltura. La tesi di laurea la feci su agricoltura e industria nella Piana di Sibari: quando andavo all’Asi per avere del materiale, si esaltavano per le petroliere che arrivavano. Quella era la mentalità».

Voi la vostra sfida l’avete vinta. È un’agricoltura che si vede, che dà lavoro e produce profitto. Ma allora si può fare qualcosa di diverso in Calabria?

«In realtà siamo gli unici. Più giù non esiste questo tipo di agricoltura. La provincia di Cosenza fa il sessantacinque per cento dell’agricoltura di tutta la Calabria e lo fa prevalentemente nella piana di Sibari dove una volta c’era la malaria».

Lei come si considera? Un agricoltore, un imprenditore?

«Un imprenditore in senso tradizionale, condizionato dalla terra in cui si trova. Se fossi andato al nord avrei fatto tanti di quei soldi. Però ho avuto grandi soddisfazioni».

Quanto è valsa la scelta dei collaboratori, per esempio, Antonio Schiavelli? 

«Notevolmente a livello dirigenziale. Schiavelli ci è stato molto utile nelle relazioni col ministro De Castro, va sempre a Roma per i progetti, è un intellettuale che viene dal mondo editoriale con ottimi rapporti con Donzelli. Ai livelli più bassi sono un po’ deluso nel vedere maestranze che dopo quarant’anni non riescono a produrre come avviene in Emilia Romagna. Abbiamo ottimi rapporti con i sindacati che hanno una presenza fissa nella nostra azienda al contrario di quello che accade altrove».

Avete avuto mai problemi con la criminalità?

«No, perché il fatto di essere in tanti mette i delinquenti nella condizione di non sapere neanche a chi bussare».

I suoi figli seguiranno le orme paterne?

«Camilla, trent’anni, laureata in economia, sta in azienda; Luigi, 29 anni, ha preso in mano quasi tutto, mentre un suo cugino, figlio di mio fratello, è presidente dell’Assolac; Federico, 25 anni, sta facendo delle esperienze alla Price, una società di revisione».

A casa sua si mangia molta frutta.

«E molti latticini».

Lei assaggia la sua frutta?

«La mangio. Abbiamo un sistema di tracciabilità sofisticata. In ogni nostro contenitore c’è un chip che ha tutta la storia di quel prodotto, potremmo scriverla anche su una vaschetta da un chilo che va in supermercato. Poi con i tedeschi non si può sbagliare mai, basta una volta sola che si sgarra e il rapporto diventa pesante».

Fuori dal lavoro che le piace fare?

«Andare al mare, dove sto proprio bene forse grazie allo iodio. E amo moltissimo la musica classica, a partire da Mozart. Certe volte porto in giro mia moglie in Puglie in viaggi lunghissimi con la macchina che diventa una sala da concerto».

Fanfani le chiese se era calabrese. La Calabria non ha una bella immagine, lei, se glielo chiedono oggi, si sente orgoglioso di dire di essere calabrese?

«Noi siamo stati sempre orgogliosi. Abbiamo frequentato tantissimo l’Emilia Romagna, quando facemmo la fabbrica dello sciroppato; dopo aver discusso e concordato tutto, il problema era se noi calabresi fossimo in grado di pagare. Dovette garantire un amico bolognese per noi, perché allora quando sentivano Calabria si irrigidivano».

In Germania hanno parlato molto di Calabria dopo la strage di Duisburg. Complicazioni per voi?

«Un dirigente di una grande catena di supermercati, che abbiamo invitato tante volte da noi, ci ha risposto: no, io da Napoli in giù non scendo mai».

Marco Minniti

Duisburg è molto lontana da qui, San Luca è a cinquanta chilometri. Ad accorciare le distanze della Calabria dall’Europa ci pensa la ‘ndrangheta i cui tentacoli si dimostrano più veloci ed efficaci di improbabili autostrade e ferrovie meridionali. Gli europei sono spaventati dalla carneficina di Ferragosto che ha svelato quanto gli affari della ‘ndrangheta siano penetrati in profondità nel cuore del vecchio continente. Altro che retaggi tribali, altro che vecchi codici, la Calabria esporta capitali sporchi di droga e l’idea di un potere alternativo allo Stato, al tempo stesso vecchio e moderno, fondato su disponibilità finanziarie imponenti e capace di esercitare – dice il viceministro dell’interno – una sovranità sul territorio che è la sfida più temibile alla collettività.  L’intervista si svolge nel punto più a sud dello stivale, sulla parete della vecchia casa della Marina il primato è certificato con un tondino di ferro. Capo Spartivento, a una cinquantina di metri più su c’è il faro, dalla vecchia casa parte una scala che serviva per raggiungerlo e che è troncata da quanto fu realizzata la strada impervia che costeggia il mare. Acquistata in una delle tante campagne di cartolarizzazione di beni pubblici, la casa risulta essenziale, rigorosa, sobria, e la bellezza selvaggia e simbolica del posto è salva. Per scendere in mare neanche l’abbozzo di uno scalino. Se non ci fosse un discreto movimento di uomini della scorta e delle loro auto nel quasi inaccessibile ginepraio di viottoli, impolverati e senza una goccia di asfalto, che consentono di arrivare alla casa, non si immaginerebbe che qui si trova uno che ha la delega per le polizie e il servizio segreto civile nazionale. Quando non ci saranno più le scorte, alla sicurezza provvederà un magnifico pastore abruzzese, Bruno, che ora protegge come un’ombra la signora Mariangela e le due figlie Bianca e Serena. In questo luogo Marco Minniti sembra un’altra persona, e si ha l’impressione che il carattere un po’ scostante nasconda una punta di timidezza. Il grande amico di D’Alema si racconta e svela anche qualcosa di inedito su di sé e sul ministro degli esteri. Per il ruolo che ricopre è più criptico nel giudizio sulle cose calabresi, ma a saper leggere sono chiare le sue preoccupazioni sul presente e sul futuro di questa terra.

Lei è nato a Reggio, in un quartiere popolare, il rione Gebbione.

«Vicino allo stadio. Di fatto casa mia era nel punto di intersezione tra il rione ferrovieri e il rione dei pescatori. Il primo era il quartiere della classe lavoratrice, ma con una fortissima componente religiosa. C’erano don Nunnari e monsignore Agostino, Gaetano Cingari e Italo Falcomatà, e poi tanti socialisti e comunisti. Il rione pescatori era il quartiere povero».

Come era la sua vita da bambino?

«Si viveva in strada a giocare al pallone. Cominciai a giocare a calcio con qualcuno anche abbastanza bravo».

Suo padre?

«Stava in Aeronautica. Con i due rioni non c’entravamo nulla, vivevamo in una cooperativa dell’Aeronautica. Mio padre aveva otto fratelli, tutti militari di carriera, e tre sorelle». 

Tutti nell’Aeronautica?

«Quasi. L’Aeronautica era un’arma giovane, mio padre vi entrò nel periodo fondativo alla fine degli anni Venti. Forte era lo spirito pionieristico, e partecipò all’occupazione delle isole del Decodanneso, la prima vera avventura di politica espansionistica e neocoloniale del fascismo».

Fratelli?

«Io ero il terzo figlio, il maschio fortemente voluto dopo due sorelle». 

Lei si è fermato a Bianca e Serena?

«Sì, abbiamo risolto il problema con Bruno…».

Prima della politica?

«Incominciai come boy scout da ragazzino, alla prima media. Ero al riparto Sagittario, all’Aspromonte c’era Nicola Calipari. Lo feci seriamente».

Facciamo un po’ di conti. Lei è del 1956, boy scout ancora attorno ai quattordici anni. Siamo al 1970, l’anno della rivolta di Reggio. Significa qualcosa per lei?

«Moltissimo. Allora la città era dominata da una cultura di destra. Nella prima fase i moti di Reggio furono popolari, dopo furono fortemente ipotecati dall’Msi. Nel 1972 Ciccio Franco venne eletto senatore con il 44 per cento dei voti. Io feci una scelta esattamente opposta».

Perché?

«La cosa maturò soprattutto a scuola. Stavo al liceo classico Tommaso Campanella. Scelsi la sinistra per una necessità forte di libertà. A Reggio non c’era solo l’Msi, c’era una forte Avanguardia Nazionale e in ogni angolo si respirava una cultura della destra».

Concretamente che cosa accadeva?

«La città era sotto assedio, ci furono anche i cingolati in strada. Facevo il quarto e il quinto ginnasio. Per me andare e tornare da scuola era un’impresa. Per quattro anni non ho messo fisicamente piede sul corso Garibaldi, era off limits, non ho mai passeggiato con una ragazza nella strada principale della città, che era controllata dalla destra. Loro stavano permanentemente al teatro comunale – stiamo parlando di centinaia, non di poche persone -, ma se sapevano che tu stavi a piazza De Nava ti raggiungevano e ti menavano».

Aveva lasciato i boy scout?

«Sì, perché una parte della chiesa si schierò per i moti. Ci lasciammo, come dire, con buoni sentimenti». 

E si iscrisse alla Fgci, la federazione giovanile del Pci?

«La mia prima esperienza fu il movimento studentesco di Capanna. Ma fu inevitabile avvicinarmi al Pci perché a Reggio, con il predominio della destra, tutti se la squagliarono e il presidio divenne il Pci, un polo di attrazione fatale, l’unica sede democratica aperta. Tra i diciassette e i diciotto anni mi iscrissi alla Fgci, di cui era allora commissario a Reggio Claudio Velardi».

Ora si spiega il sodalizio che vi portò nello staff di Massimo D’Alema a palazzo Chigi.

«Che era il segretario nazionale della Fgci. Con Velardi incominciò un’amicizia che definirei tempestosa, perché tra due persone assolutamente diverse: io riservato, lui un casinista».

Poi lui andò via?

«A Roma come responsabile meridionale della Fgci, mentre io per un periodo brevissimo fui segretario provinciale. Nel 1977, all’età di ventuno anni, diventai quadro di partito e, come da prassi, responsabile della commissione operaia. Il quadro operaio per antonomasia era Angelo Abisso, ora suo figlio sta nella mia scorta. Nel 1978 mi mandarono nella Piana di Gioia Tauro, un’esperienza terrificante, da far tremare le vene e i polsi».

Era un territorio così difficile?

«Non c’erano soldi e io ero ospitato nel sottosoffitto della casa di un compagno di Palmi, Armando Pizzica. Era la Piana di trent’anni fa. Non c’era un cinema, non c’era nulla, la nostra sede non aveva il bagno, si faceva la pipì dal balcone interno. In quel periodo nella Piana si giocavano le partite del post- centro siderurgico e della centrale a carbone».

E la ‘ndrangheta?

«Come in tutta la provincia, dopo i moti di Reggio la ‘ndrangheta era passata al traffico internazionale della droga e la sua presenza divenne sempre più invasiva, ossessiva, forte. E poi ci fu la sequenza dei grandi morti del movimento operaio, del partito comunista».

Ricordiamoli.

«Rocco Gatto, Ciccio Vinci, Peppino Valerioti, che morì il 10 giugno 1980 mentre io ero responsabile della Piana, Giannino Losardo a Cetraro. Era un attacco al partito comunista che allora appariva come l’argine al tentativo di mettere le mani sopra le grandi operazioni calabresi».

Che ricorda di Valerioti?

«La sera della morte non andai a cena con i compagni solo perché a due mesi dalla campagna elettorale ero tornato a casa. Ma ci restai pochissimi minuti perché mi arrivò la telefonata. Il colpo fu fortissimo. La dinamica era quella del terrorismo mafioso: colpire per dare un segnale devastante. Veramente quello è stato uno dei momenti più difficili per il partito comunista, anche per me personalmente: ne fui sconvolto… Contemporaneamente mio padre ebbe un grosso infarto, fu un anno “horribilis”. Stavo diventando scaramantico. Ai compagni dicevo: non ce ne va bene nemmeno una».

Anche scoramento?

«Sì. Un filotto».

Voglia di smettere?

«No, quella mai. Nel 1980 fui chiamato a fare il segretario cittadino di Reggio. Eravamo alla fine della fase delle larghe intese. La mia esperienza fu fortemente traumatica, entrai in conflitto, anche abbastanza aspro, con una parte del gruppo dirigente. Lasciai l’incarico di segretario cittadino ma anche quello di funzionario di partito». 

In pratica perse il posto di lavoro?

«Esatto. Mi sembrava una scelta coerente, mi tirai fuori. Io ho una tendenza, quando sono convinto, a portare le cose alle estreme conseguenze, anche a pagare di persona. E per tre anni rimasi fuori da tutto».

Si era laureato?

«Sì, nel frattempo in filosofia e mi ero specializzato in filologia classica. Facevo dei seminari su Abelardo e Eloisa, avevo cominciato un’altra vita che mi avrebbe portato alla ricerca universitaria. Ma improvvisamente il gruppo dirigente del partito, che era entrato in una serissima difficoltà, mi richiamò e mi affidò il compito di rifare a Reggio il festival dell’Unità. Posi una condizione: mi dovete lasciare mano libera. E feci il festival il cui titolo era “Reggio, la città e il mare”».

Perché?

«Perché dovevamo recuperare il rapporto col popolo reggino e col mare. Prima del sindaco Falcomatà e del lungomare la gente di Reggio non aveva alcun rapporto col mare. Adesso Reggio è una città di mare che vive sul mare, prima era una città di mare che viveva senza il suo mare».

Tra responsabilità varie a livello locale alla fine sbarcò a Roma.  

«Venni chiamato da Bassolino che conoscevo già da tempo. Del resto io ho sempre avuto un rapporto bello con Napoli, e con Bassolino c’era una forte amicizia (è stato il testimone alle mie nozze). Andai al dipartimento economico con lui e Reichlin. Una bella esperienza. Dopo due anni mi mandarono a fare il segretario della federazione di Reggio, eravamo nel pieno della guerra di mafia. E poi da lì il tradizionale cursus honorum fino alla segreteria regionale».

Una strada tutta in discesa?

«Fino al 1994. Venivamo da giunte Dc-Pci, e il vicepresidente della Regione era un uomo forte del nostro partito, Franco Politano. Occhetto, segretario del Pds, a un certo punto decise che bisognava rompere il consociativismo. Fui chiamato a Roma e mi fu detto di rompere.  E così fu. Noi uscimmo dalla giunta regionale, Politano uscì dal partito facendo il vicepresidente di una nuova giunta con la Dc. Una rottura incredibile». 

Come andò a finire?

«Si andò alle elezioni con questo schema: si vincono le elezioni in Italia, si perdono in Calabria, facciamo fuori Minniti. Era la cronaca di un avvicendamento annunciato. Successe l’impensabile. Perdemmo le elezioni in Italia e le stravincemmo in Calabria con il Pds che prese il 22 per cento, il miglior risultato della sua storia. E così si rovesciarono le parti. Occhetto si dimise e io fui chiamato a far parte del comitato ristretto di reggenza che doveva gestire la transizione con Giglia Tedesco, Bassolino. D’Alema fu eletto segretario e io fui chiamato a Roma nella segreteria».

Fu Bassolino a proporla?

«Con Bassolino il rapporto era sempre molto forte, ma lì andai portato da D’Alema che riscoprì la Fgci volendo una squadra di giovani. Con D’Alema ci conoscevamo da ragazzini».

Lei era il coordinatore della segreteria dei Ds, fu clamorosa la sua mancata elezione in Parlamento nel 1996.

«Sì, diventai vittima di una mia macchinazione. Poiché ero uno di quelli che faceva le liste, spinsi tutti i compagni autorevoli a non candidarsi nei collegi sicuri ma in quelli di frontiera la cui conquista ci avrebbe potuto consentire di vincere. E anche io andai nel collegio impossibile di Reggio Due. In ogni caso facevo affidamento sul paracadute del proporzionale. Successe che io e Napolitano, per eccesso di vittoria, non venimmo eletti». 

Giorgio Napolitano se la prese terribilmente.

«Io pure. Nella stessa notte persi il collegio e non fui eletto nel proporzionale. Fu una cosa brutta. Un pochino mi sono arrabbiato. Il rischio era quello di rimanere fuori. D’Alema con grande affetto mi confermò coordinatore unico».

E due anni dopo, alla caduta del governo Prodi, la chiamò a palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza del consiglio. È stato l’apice della sua carriera?

«Sì. Lì a palazzo Chigi c’è il cuore di tutto. La vicenda Ocalan, l’intervento militare in Kossovo: fu una scuola superiore di governo».

Lei era una delle teste pelate di cui D’Alema si circondò, i cosiddetti Lothar. Fiducia totale? Amicizia di ferro?

«Lo so che è difficile crederlo, ma il rapporto era assolutamente libero. Non nel senso che lui mi dava o io rivendicavo la libertà ma che, avendo avuto un mandato, io lo svolgevo. D’Alema non è mai stato ossessivo, anzi dava fin troppa fiducia. Ero chiamato a decidere da solo, non c’erano le riunioni la mattina in cui ognuno diceva quello che si doveva fare. D’Alema aveva un comportamento molto leale per cui finiva sempre col dare coperture. Con me è valso il principio della piscina: tu sei buttato in acqua, se sai nuotare nuoti, se non sai nuotare affoghi». 

I vostri caratteri. Diversi?

«Non c’è mai stata confidenza estrema. Per essere chiari, io non ho mai aperto il frigorifero di casa sua».

Cosa che forse faceva Velardi?

«Sì, allora con Claudio era così, ora il rapporto è molto forte con Nicola Latorre. Io sono andato a casa di D’Alema una sola volta, e lui non è mai venuto a casa mia. È stato solo una volta qui a Capo Spartivento, è passato con la barca a prendersi i pomodori, ma io non c’ero, c’era Mariangela».

Le famose e costosissime scarpe che lei gli fece comprare in Calabria farebbero pensare il contrario.

«No, lui non le ha nemmeno comprate, gliele regalai io. Erano le scarpe di Cesare Firrao, un calzaturificio di Luzzi di prim’ordine, poi fallito, ora hanno cercato di recuperarlo. Durante una cena tra amici – anche alcuni giornalisti – c’era un cagnetto che mordeva i piedi a D’Alema, e io dissi “fermatelo, le scarpe sono costate un milione e duecentomila lire”, non pensando mai che la cosa andasse a finire sui giornali».

Caratteri difficili i vostri: antipatico lui, aristocratico lei.

«Siamo due caratteri molto forti, molto puntuti, tutt’e due mettiamo i puntini sulle i, lui platealmente, io non lo dimostro. Essendo due perfezionisti, sul lavoro si può trovare il punto di contatto. Durante la guerra nel Kosovo io credo di aver dato una mano importante, il mio ufficio era davvero la prima linea. Alle elezioni di giugno, durante una manifestazione a piazza Italia a Reggio, D’Alema mi ringraziò pubblicamente “davanti a tutti perché – disse – in privato non sarei stato capace di farlo”. Questo vale più di ogni cosa a spiegare quale era il nostro rapporto».

Ma che cosa limita D’Alema?

«La diagnosi l’ha fatta lui stesso quando ha confessato: il peggior nemico di me stesso sono io stesso. Lui ha dei momenti in cui prevale il suo carattere. È una persona profondamente leale e la sincerità può essere dura. Però, è una personalità a tutto tondo, una delle più grandi di questo paese. Io poi gli devo molto. A palazzo Chigi mi ha dato un’opportunità fondamentale. Gli sono molto grato, è la prima volta che racconto la natura del nostro rapporto. Non c’è consuetudine tra noi ma forse anche per un limite mio perché io non sono una persona di compagnia».

Un limite che pesa molto per uno che deve avere rapporto con la gente. Non le sembra?

«Sì. La mia vocazione vera non era la politica, ma il volo. Feci gli esami all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Ho anche fatto il programma completo con la pattuglia acrobatica. Il mio karma era quello. Poi in famiglia non me l’hanno fatto fare, soprattutto mia madre aveva paura».

Che velocità ha raggiunto.

«Faccio parte del club dei Mach 1, quelli che hanno superato la velocità del suono».

Che si prova?

«È una velocità assolutamente strumentale. Non senti niente, tu produci un danno a quelli che stanno in basso ma sull’aereo non senti nulla. Sono stato il primo italiano a volare con l’Euroflighter, e ho avuto anche un volo travagliato perché in fase di decollo scoppiò un pneumatico». 

Le piaceva la carriera militare?

«No, la consideravo onerosa ma mi piaceva volare».

Lì la perfezione è tassativa, in politica forse ne serve meno. Le pare?

«Certo. Sono stato sempre un solista. Non è che non voglio bene o non mi vogliono bene nel partito, ma non ho mai chiesto a nessuno di fare squadra e non ho mai accettato di far parte di una squadra».

Questo spiega, venendo ai giorni nostri, che mentre Nicola Adamo o Giuseppe Bova hanno un vasto seguito, lei no. Non è una posizione debole la sua?

«Non ho truppe e non le ho mai cercate. Difficile crederci ma è così. Sarò demodè, ma penso che la politica abbia una sua forza e delle regole e che poi alla fine la forza e le regole funzionino. Quella che a lei sembra una posizione debole, in effetti è stata la mia vera forza perché in una realtà così complessa come la Calabria alla fine tutti ti considerano un punto di riferimento perché non sei di una parte, non hai le tue truppe». 

Forse per questo negli ultimi tempi, al di là delle scelte ufficiali per la leadership del Partito Democratico, si dice che la candidatura più autorevole e affidabile resti la sua.

«Non ho truppe ma mi vogliono bene. Non sembri che io abbia una visione semplificata o troppo ingenua della politica, conosco i rapporti di forza. Ho deciso di non entrarci perché penso che sia giusto per tutti, anche per quelli che hanno le truppe, sapere che c’è uno che ha la testa sulle spalle e che non è identificabile con questo o con quello».

Il suo profilo di uomo di governo le impone un ruolo defilato?

«Ha ragione. Questa è un’altra questione. Io sono il vice ministro degli interni, sto in un posto delicato. Quando vado a fare un comizio, io che gestisco un ministero della forza, se dico “tizio, tu la pagherai” ho fatto una minaccia».

Dal viceministro dell’interno ci si aspetta molto in una Calabria dominata da una ‘ndrangheta sempre più potente, agguerrita e senza confini.

«Io penso di stare facendo molto per la Calabria. Non spetta a me giudicare ma dalla postazione del ministero degli interni si può dare una grossa mano perché il problema del rapporto tra la Calabria e lo stato è antico e ancora non risolto. È cambiato tutto in Calabria in trent’anni ma quel rapporto continua ad essere molto difficile. Invece noi abbiamo il compito di avvicinarlo perché è fondamentale per un contrasto alla ‘ndrangheta. È un punto chiave. Dobbiamo ripristinare la sovranità dello Stato ribadendo che le sue funzioni non sono sottordinate al potere della ‘ndrangheta, e mettere in campo un programma ambizioso che porti alla distruzione della ‘ndrangheta».

Lei non può entrare nel merito, ma tra corruzione, inchieste e inquisiti il quadro politico della Calabria è deprimente: di chi è la responsabilità?

«Sta nella frantumazione, nello sfarinamento di questa regione. Penso che la giunta regionale stia facendo bene, ma le cose fatte sono di più di quelle che vengono percepite. Nel sessanta per cento avuto dagli elettori la mission del centrosinistra era quella di dare un’identità unitaria alla Calabria. Ancora non ce l’abbiamo fatta».

Come se ne esce?

«La Calabria quando è andata avanti? Quando ha avuto grandi partiti di massa: la Dc, il Psi, il Pci. Oggi la carta da giocare è il Partito Democratico. I tempi non sono quelli dei grandi partiti di massa ma serve un grande soggetto politico. Quest’idea in Calabria è più radicata che altrove. Per questo bisogna farlo nascere come Dio comanda».

A quel che si vede, Dio comanda molto male. Ci sarebbe bisogno di qualche leader vero. Non le pare?

«Sì, ma…».

Poiché stiamo parlando di corda in casa dell’impiccato…

«La Calabria non ha bisogno di uno che le lisci sempre il pelo, ma vuol sentire un linguaggio di verità».

E trovare qualcuno che si spenda per davvero per la Calabria. Lei sarebbe disponibile?

«Sì, senza dubbio. Io parlo di una mission della classe dirigente. La politica non deve smarrire il senso della missione, che vuol dire impegno incondizionato, che duri nel tempo, che sia permanente e pervicacemente perseguito. Una missione non è l’impegno di una sola persona, il mio c’è ed è totale, e, come si dice dalle nostre parti, sono a disposizione».

Torniamo a Reggio. Italo Falcomatà.

«Non se ne deve voler nessuno. È stato il più grande sindaco che la città di Reggio abbia mai avuto. Lui aveva una cosa che io non ho: un’anima popolare. Era capace di stare in sintonia con l’aspetto più profondo di una comunità, che è la più bella dote che possa avere un dirigente politico».

Qualcuno dalle sue parti ha detto che nel settanta per cento preso da Scopelliti nel maggio scorso ci siano per lo più clientele. È d’accordo?

«Considero quello di Reggio un voto politico che sta sicuramente in una dinamica nazionale non favorevole al centrosinistra ma che dimostra anche una capacità della destra di ricostruire un rapporto con la città. Le sconfitte devono essere analizzate per quelle che sono».

Intanto lei rappresenta insieme ad altre forze politiche appena il trenta per cento. Una bella sconfitta per il reggino viceministro dell’interno.

«Il trenta per cento non significa essere tagliati fuori perché siamo dentro una dinamica dalle evoluzioni molto rapide. Sette anni fa sembrava esattamente l’opposto, la destra sembrava incapace di ricostruire una sintonia con la città e invece l’ha ricostruita. Noi dobbiamo fare lo stesso sapendo che Reggio si affida a quella classe dirigente che le dà un’identità».

Lasciare la Calabria. I giovani ci pensano e in molti lo hanno fatto e lo fanno.

«Questo è il punto di svolta e anche di massima fragilità politica. Una regione che perde i suoi figli migliori, è come un corpo sottoposto ad una continua e imponente emorragia. Andrebbe fatta una politica vera, occorrerebbe avere un elenco di cento-duecento-trecento giovani che si sono affermati in giro per l’Italia e per il mondo e riportarli qui».

Senza alimentare nuove sacche di precariato e sistemi che ammazzano la voglia di futuro?

«Noi dovremmo avere una task force che pensi solamente a questo per dimostrare che in Calabria è possibile che il talento venga premiato. Ecco, il primo programma di una svolta è di riportare qui le intelligenze, fermare l’emorragia. Penso, ripeto, ad una task force di cacciatori di testa che dovrebbero fermare subito quelli che stanno per andare via e riportare qui le intelligenze che sono andate via».

È quello che si dovrebbe fare, dovremmo, dovreste…

Giuseppe Scopelliti

Alla sua età, 41 anni, sono in pochi a vantare un cursus honorum come il suo: consigliere comunale di Reggio Calabria, segretario nazionale dell’organizzazione giovanile di An, oltre trentamila voti alle Europee, presidente del consiglio regionale per cinque anni, assessore regionale al lavoro per due, sindaco di Reggio per cinque anni da poco riconfermato con un voto bulgaro. Volendo, può aspirare alla presidenza della Regione, in ogni caso al momento è con il suo 70 per cento il miglior candidato che possa mettere in campo il centrodestra. Uno scenario non lontano considerato che a fine anno Loiero potrebbe essere mandato a casa con uno scioglimento del consiglio regionale ritenuto indolore dai suoi componenti: a quella data avranno maturato il diritto alla pensione di legislatura. Ma di fare il Governatore lui, Giuseppe Scopelliti, non vuole neanche sentire parlare, dice che ora gli interessa solo amministrare la sua città. Semmai è altro che lo fa arrabbiare, ai limiti della patologia: chi lo accusa di essere un capopolo della destra e quella che ritiene essere una campagna premeditata di alcuni giornali nazionali contro di lui. In ogni caso, è possibile leggere il suo eccezionale risultato elettorale sostenendo o che hanno demeritato i suoi avversari o che tutti i suoi elettori sono stati abbindolati con posti, favori, appalti e promesse? A questo sarebbe ridotto il popolo di Reggio visto che tre elettori su quattro hanno votato il giovane esponente di An? Della serie: se vinco io gli elettori sono belli, onesti e buoni, se vinci tu gli elettori sono brutti, sporchi e cattivi. Forse il fenomeno Scopelliti è più complesso.

Il suo impegno politico nasce con il Fronte della Gioventù. A che età?

«Da ragazzino. Dicevo ai miei compagni: non è possibile che ci disinteressiamo, guardate che la città è a pezzi, crolla. Era il periodo in cui un padre diceva al figlio: vai a votare, devi farlo, per un posto di lavoro ti serve l’onorevole. In quella fase noi rappresentavamo un‘alternativa, ci chiamavamo Contropotere Studentesco. Dopo un paio di anni entrai nel Fronte della Gioventù».

La sua era una famiglia di destra?

«Mia madre, professoressa, è storicamente di destra, mio padre, dipendente Enel, un uomo di centro. Papà era di famiglia socialista, ma lui è stato sempre un moderato di centro che sulla spinta della famiglia votò spesso a destra».

La rivolta di Reggio del 1970 era sullo sfondo?

«Noi l’abbiamo vissuta come reggini consapevoli. Abbiamo riletto quelle pagine in senso positivo. Affascinati dall’idea di una comunità capace di ribellarsi. Se pensiamo al federalismo, ci rendiamo conto che era quello che oltre trent’anni fa reclamava la città». 

I giovani fascisti da poco avevano finito di impegnarsi per Trieste, voi pensavate a Reggio.

«Da segretario provinciale lavorai per “fare Fronte”, con i grandi cortei di millecinquecento giovani, le occupazioni scolastiche, la vittoria con il 56 per cento alle elezioni distrettuali».

Con la sinistra come andava?

«C’erano i giovani demoproletari, la sinistra era quasi inesistente». 

Botte?

«No, qualche volta con i demoproletari ma mai grandi cose. C’è stato rispetto reciproco. Un anno lanciai la battaglia sulla droga e ci ritrovammo insieme noi, i giovani repubblicani e i socialdemocratici con l’assessore provinciale Canale. Venne anche Cotroneo, il segretario dei socialisti. E c’era Ivan Tripodi dei comunisti che partecipò agli incontri ma senza condividere».

Faceste riunioni insieme?

«Sì, tre o quattro. Prevaleva la mia capacità di dire sempre: dobbiamo pensare alla soluzione dei problemi della collettività e non allo scontro. E mettemmo attorno al tavolo tutti. Inoltre facevamo spesso azione di volontariato: la pulizia delle aiuole del lungomare, l’idea di piantare alberelli di lantana, la verniciatura delle inferriate delle Mura Greche e delle Terme Romane. E la gente passava, dava dei contributi per comprare la pittura o le piante, raccogliemmo qualcosa come quattrocentomila lire. Nel 1992 entrai nel Consiglio comunale».

Si fermi un attimo, parliamo di sport. Un’esperienza importante per lei?

«Ho fatto basket. Cominciai playmaker, a quindici anni in una sola estate sono cresciuto di qualcosa come dieci centimetri».

Quanto è alto?

«Uno e novantuno. Mi ritrovai alla preparazione della prima squadra di serie C con una condizione straordinaria che sorprese un po’ tutti, ed entrai nel gruppo. Poi feci parte delle selezioni del liceo, cominciai a giocare in C2, a diciassette anni ero nel quintetto base, andammo in C1 e guadagnammo lo spareggio col Barcellona. Quell’anno andai via perché avevo dei dissapori all’interno per le scelte societarie. La squadra era la Cap Reggio. Feci una brevissima esperienza a Varese con la Cagiva nella seconda squadra di C1».

Giocava a livello professionistico?

«Sì. Ho girato molto, Montebelluno, Padova, Quello, però, non fu un anno molto fortunato. Andavo bene, piacevo anche ai tecnici, però accadeva sempre qualcosa e le cose mi andavano storte. Tornai a Reggio e ricominciai dalla Promozione, di nuovo in C1, a ventuno anni giocavo in B2 come quinto o sesto uomo della panchina, entravo e facevo quindici punti, segnavo tre su tre. A Marsala in un contropiede presi una distorsione al ginocchio, quell’anno avevo un grandissimo mercato, ero stato già richiesto da molte squadre, sono invece rimasto fuori per diversi mesi e recuperai con grande difficoltà. Correvo male. Avevo problemi con le scarpe».

Non le poteva cambiare?

«Giocavo con le Puma, che erano strette come pianta. Un sabato mattina sono andato a comprare un paio di Reebok Pant, anomale con la pianta molto larga, che non mi provocavano l’infiammazione. La sera giocammo, feci ventuno punti contro il Palermo, saltavo come un razzo, una partita bellissima. Da lì ripresi a giocare bene e negli ultimi tre anni penso di poter dire che sono stato l’allenatore in campo. Ero il capitano della squadra. Ho giocato fino a venticinque anni». 

In squadra c’era Alberto Sarra, consigliere regionale di An e suo futuro antagonista nel partito?

«Sì. Alberto lo portai io in politica nel 1992».

C’era Demetrio Naccari Carlizzi, leader della Margherita?

«Naccari giocò con noi agli inizi». 

Che le ha lasciato lo sport?

«Ho sempre detto che il mio allenatore è stato per me un maestro non soltanto di sport ma anche di vita. Il professore Mimmo Melara ha rappresentato un po’ il secondo mio padre. Una persona di poche parole».

Le usava anche per riprenderla?

«Sa perché la mattina non bevo caffè ma inizio la giornata con la camomilla? Glielo spiego. Ero quasi sempre l’unico reggino in squadra e qualsiasi cosa succedeva lui dava la colpa a me. Spesso litigavo con qualche prepotente. Ci allenavamo alle sette di mattina. Per sei-sette anni mi dovevo svegliare alle sei di mattina, prendere la Vespa e andare in spiaggia a correre, bruciando le estati mentre gli amici erano tornati da poco a casa dalle discoteche. Per evitare le tensioni decisi di non prendere più caffè e da allora inizio la giornata con la camomilla».

Con Melara le frizioni cessarono?

«Viene qui tutti i giorni. Qui in municipio siamo circondati da uomini dello sport. C’è Gigi Rossi, un giocatore forte della Viola degli anni Settanta, ci sono altri amici che collaborano con me e che vengono dal basket del professore Melara».

Lo sport l’ha aiutata a vincere?

«Vede, a undici anni col Cap scendevo in campo e vincevo sempre. Poi a dodici-tredici incominciammo a provare la sconfitta e non ci stavamo, quindi gomitate, falli. L’allenatore ci spiegò che si può anche perdere, però l’importante è perdere a testa alta e con la maglietta sudata. Ci hanno insegnato la lealtà e il rispetto verso l’avversario, e a evitare i falli cattivi – quanti ce ne sono in politica – anche perché se il primo non lo vedono il secondo non passa».

Torniamo a Sarra e Naccari, formavate un bel terzetto.

«Demetrio giocò con noi due anni, un playmaker che veniva dalla ginnastica artistica. Era divertente vederlo giocare perché era quasi una molla, bang… bang… Però, non aveva grande tecnica». 

I vostri rapporti?

«Buoni negli anni, anzi ottimi fino alla candidatura che ci ha visto contrapposti. Non ci siamo salutati a lungo per tanti anni, l’altra volta mi ha visto e ci siamo spontaneamente avvicinati, mi ha fatto i complimenti. Avevo saputo che lui in televisione aveva detto che bisognava darmi atto di aver vinto, mentre il candidato del centrosinistra diceva che cinquantatremila voti di scarto erano voti di scambio».

Con Sarra scontri politici in An?

«Abbiamo vissuto anni importanti, intensi nel campo del basket, poi abbiamo avuto un periodo di incomprensioni dettate da situazioni interne. Scontri sempre a distanza, più legati ai contorni che li amplificavano. Alla fine abbiamo fatto prevalere l’interesse della città anche sulla base dell’antica amicizia».

Torniamo al Consiglio comunale del 1992. C’era anche Gianfranco Fini.

«Lo conoscevo già da prima. Quando venne a Reggio nell’ottobre del 1992 in vista delle elezioni comunali, mi disse: devi fare il consigliere comunale. Poi aggiunse: col nuovo anno abbiamo l’impegno che devi diventare il segretario nazionale dell’organizzazione giovanile, sei pronto? Arrivai quinto alle elezioni comunali dopo Fini, Meduri, Aloi e Bertucci». 

È rimasto legato a Fini, ma ha un forte rapporto con Maurizio Gasparri?

«Sì. A volte Fini è intervenuto quando si è creato qualche conflitto con Sarra, che è legato a Alemanno, io a Gasparri. Maurizio si spende in tutti i modi per gli amici. Ma io sono amico di tutti, ero molto affezionato a Pinuccio Tatarella, uno che parlava calmo, smorzava le polemiche, badava alla sostanza».

Viene poi la candidatura alle Europee con la mancata elezione ma con un grosso risultato, e subito dopo, nell’aprile 1995 l’elezione alla Regione di cui è stato per cinque anni il presidente del consiglio. A 28 anni non è proprio normale?

«Ho governato il consiglio regionale con 45 miliardi, ne restituivo sette-otto, una volta anche quindici, quindi lo gestivo con trenta-trentacinque miliardi, oggi ce ne vogliono sette volte di più».

L’attuale presidente Bova dice che ha tagliato.

«Mi pare di sì. Non è una contestazione a Bova, è una valutazione sui costi della politica. Un giovane di destra che arriva a quella carica è portato dall’entusiasmo a fare le rivoluzioni. Invece – e non era facile – ho governato con equilibrio. Penso di aver lasciato un ottimo ricordo. Ma erano anche anni diversi. La sera con Nicola Adamo, con l’onorevole Intrieri, con Antonella Freno, con Franco Bruno, con Franco Pacenza andavamo a cena, chi invitava un amico, chi suonava, ballavamo, cantavamo fra di noi, eravamo dieci-dodici, di destra, di sinistra, c’era un clima di grande cordialità. Mi pare che negli ultimi dieci anni si sia smarrito tutto questo. Oggi c’è una situazione imbarazzante sotto tutti i punti di vista, anche sul piano personale».

Dopo cinque anni viene rieletto e per due anni fa l’assessore al lavoro. Lì ha imparato a fare il miracolo della moltiplicazione dei posti?

«Con la legge 4 del 2001 stabilizzai 2.800 precari. Non troverà mai in nessun anno una situazione simile. Era la legge Scopelliti, tanto contestata. Davamo incentivi agli enti e alle imprese che volevano assorbire i giovani precari. In questi ultimi cinque-sei anni non è stato stabilizzato neanche un precario». 

Diventa sindaco dopo Falcomatà. Il primo anno dove andava raccoglieva fischi? Se li ricorda?

«Fu d’estate. Alcune scelte forti e coraggiose come la chiusura di corso Garibaldi o il senso unico a Sbarre non vennero recepite dalla città. Nascevano comitati, per iniziativa della sinistra o spontaneamente. Sull’emergenza non eravamo bravi, mentre sul piano della progettualità io stavo chiuso qua a lavorare dicendo: tra tre anni esco e si vedranno i risultati. Ma non riuscivamo a comunicare».

I primi fischi?

«C’era una partita della Reggina, partirono dei fischi e si unirono tante altre persone. Fu una manifestazione di disappunto, che diventò moda, tendenza. Per cui a un concerto quattro giorni dopo altri fischi, e in quattro-cinque circostanze si ripeterono anche quando io non c’ero».

In un’intervista al “Quotidiano della Calabria” suo fratello Tino disse che i fischi erano meritati.

«Sì, si fece prendere la mano per giustificarmi dando la colpa a chi mi stava attorno. Dovetti spiegargli che non scarico mai le mie responsabilità sugli altri».

Come prese quell’intervista?

«Gli dissi che aveva sostenuto una cosa che mi avrebbe nociuto per parecchio tempo. Per quattro-cinque mesi non si parlava d’altro, ogni attacco si concludeva con la frase: lo dice anche il fratello».

Come ne venne fuori?

«Era un momento difficile. I collaboratori venivano qui dentro e mi chiedevano: ma che succede? E io la notte non ci dormivo. Il progetto era chiaro ma non riuscivamo a farlo comprendere. Mi dicevano: anche ieri i fischi, che dobbiamo fare? E io: dobbiamo lavorare di più. Oggi la gente mi ferma e mi dice: tu sei il sindaco delle opere, il sindaco buono, vui siti bbonu. Questo è il più bel complimento, perché io sono una persona semplice, che non approfitta del suo ruolo per fare del male agli altri».

Reggio città turistica?

«Il mio avversario alle comunali sosteneva in televisione che a Reggio non ci sono i turisti. Quelli che passeggiano per il corso con i pantaloncini corti, gli zaini, le macchine fotografiche, sono reggini che sono andati dal parrucchiere e si sono fatti i capelli biondi. Reggio è diventata una città turistica, ora deve consolidare questa funzione».

In quale modo?

«Con i grandi eventi. Bisogna attrarre e per attrarre bisogna inventarsi qualcosa. Abbiamo il museo con i Bronzi da rivalutare, ma non basta. Abbiamo cercato di valorizzare la costa, i lidi, il lungomare, di bonificare gli scarichi fognari a mare, e di creare una rete museale, perché il binomio turismo estivo-cultura è la carta vincente: la pinacoteca, il museo civico del Mediterraneo, Villa Zerbi, il castello. E il Waterfront, un  progetto di 48 milioni e mezzo di euro per il nuovo lungomare con l’idea di una struttura museale  che faccia identificare Reggio nel mondo: hanno partecipato i più grandi architetti al mondo da Bohigas a Carmine De Grazia, da Fuksas a quello che ha fatto le vele a Dubai. Per fare questo abbiamo dovuto investire risorse, se non fai iniziative la gente non viene. Il ritorno economico per la città è enorme ed è stato stimato in 250 milioni di euro. Quando spendo sei milioni di euro per cultura, spettacolo…».

Anche per Lele Mora e le sue vallette a passeggio per il lungomare?

«Certo.  Noi abbiamo comprato un pacchetto da Lele Mora: ventiquattro artisti più la Marini, più i servizi nei settimanali più letti (Chi, Eva 3000, Visto e Star Tv). Non si parla della Notte Bianca di Roma ma di quella di Reggio. Noi finivamo su Cronaca Nera con i morti ammazzati, siamo finiti su Star Tv: no Reggio no party, bellissimo. Abbiamo comprato spazi radiofonici a Radio Montecarlo e a Radio Italia. E tutto con un pacchetto pagato centomila euro più Iva. Ho pagato sessantamila euro per uno spot televisivo che è andato per quindici giorni. Però queste cose i giornalisti cattivi non le hanno mai scritte».

I giornalisti cattivi non le vogliono bene, i buoni sono compresi nel pacchetto di Lele Mora. Insomma…

«No, vede, io parlo con i fatti. Pensi ai gazebo sul lungomare. Li voleva fare Falcomatà e andava bene, li faccio io e li blocca la magistratura. Il tapis roulant tra Villa Zerbi e la parte alta lo volevano loro e cercavano i soldi, io faccio i lavori e loro gridano: è una vergogna. Falcomatà voleva far divertire i reggini con Melba Ruffo di Calabria, io chiamo Lele Mora e la Marini. Il sindaco di Riccione mi ha fatto i complimenti: siamo crollati perché da noi non vengono più i vip che se ne vanno in Sardegna. Io voglio portarli dalla Sardegna a Reggio».

Prima accennavamo al lavoro. L’hanno tacciata di essere una macchina fabbricaposti. Solo per gli amici?

«Abbiamo fatto tanti progetti puntando sulla capacità dei giovani di essere bravi e di proiettarsi su un’opportunità che noi diamo. Se vuole, possiamo discutere per giorni».

Fermiamoci solo qualche minuto.

«Progetto Workmed, cinquecento giovani nel tirocinio formativo. I soldi me li ha dato Pasquale Viespoli, sottosegretario amico mio. Gli avevo portato un progetto che gli era piaciuto. Potevo dividerli: trecento a An, cento a Forza Italia e così via. Ma con quale futuro se poi le aziende non li assumevano perché non all’altezza. Questa è la cultura del lavoro che vige nel Mezzogiorno. Su cinquecento ne avremmo raccolti cinquanta bravi».

E lei che ha fatto?

«Premiare i bravi. Su cinquecento giovani trecentosessantuno hanno avuto un contratto, che via via è diventato full time indeterminato. Non so neanche chi sono. Quando li ho incontrati ho detto loro: ragazzi, vi ho dato l’opportunità, siete voi e gli imprenditori, se siete bravi vi terranno, altrimenti ci restituiscono la fideiussione».

Al lavoro interinale è stato premiato il merito?

«Perché ci si scandalizza di noi? Mastella ha promesso delle assunzioni, ma come verranno presi? A lavoro interinale, ma nessuno si scandalizza di Mastella o di quello che fanno dappertutto in Calabria e fuori. Poi sono le società interinali a dover garantire la qualità».

Lei è anche passato per il sindaco delle file di giovani aspiranti al lavoro.

«Le file in Inghilterra sono simbolo di democrazia, a Reggio Calabria no. Le file sono andati a farle i giovani con il passaparola, non i raccomandati. Tra quei ragazzi c’è tanta gente di sinistra che ha votato Scopelliti e sa perché? Perché si è vista attaccare dalla sinistra e si è detta: questo stronzo sindaco di destra mi sta dando una chance, e tu che non me l’hai mai data me la vuoi togliere, ma vattene a fa’…».  

Guardiamo al futuro. Con la sua carriera e il plebiscito di voti che si ritrova sarà il candidato Governatore del centrodestra?

«No, non sono interessato. Non è un tema che mi appassiona. Ho l’obbligo di fare bene il sindaco di questa città per i prossimi cinque anni. Lo dico in maniera convinta, non ci sono doppi pensieri. Sono il sindaco più votato d’Italia, Reggio è la città con la più alta percentuale di votanti d’Italia. Finalmente ci sono primati positivi».

Il segreto del suo successo?

«Guardi, non c’è solo l’area del bisogno che può raggiungere il 10-15 per cento. Agli altri interessa poco la polemica politica, il dibattito, le televisioni, i giornali. La gente quando esce di casa, guarda e dice: oh, hanno asfaltato quella strada; oh, hanno messo a posto quell’aiuola; oh, la città è pulita; oh, vedi quel mezzo pubblico nuovo. È andata a votare una parte di città che non ha bisogno di niente. E poi la vuole sapere un’altra cosa?».

Dica.

«Se la gente ha fiducia nelle istituzioni si allontana da altre sirene, dalla mafiosità, dalla ‘ndrangheta. Questa città sta vivendo un momento straordinario, che era nato, per carità di Dio, con Falcomatà».

Con tutto il denaro che gira questo comune è una casa di vetro?

«In questa stanza non sono mai transitati affari. Percepivo quattordicimila euro alla Regione nel 2002, guadagno tremilaseicento euro come sindaco. Ho perso, pur avendo una famiglia, venti milioni di vecchie lire al mese, non me n’è fregato niente perché sono venuto a fare una cosa bella per la mia città. La mia maglietta è quella amaranto della Reggina, poi quella del partito».

Ora fa il populista?

«Tra cinque anni, ci sarà un altro sindaco, di destra o sinistra non conta purché sia bravo. E sa perché? Perché mia figlia Greta, che ha sei anni, crescerà in questa città, io vivrò qua, e così mia moglie Barbara. Io tengo al futuro nostro e a quello di mia figlia e perciò spero che chi verrà dopo di me sarà dieci volte più bravo, ma bisognerà lasciargli una città in cammino».

Sembra l’Eden la Reggio che racconta. La ’ndrangheta dov’è finita?

«Quella ammazza. Ma non si può dire che un reggino su due è un mafioso. Attenzione, noi reagiamo e combattiamo la ‘ndrangheta. Sa come? Quando l’altro giorno abbiamo assegnato ad una famiglia rom un’abitazione confiscata alla mafia, dopo cinque giorni si sono ritrovati con le pareti abbattute dalle ruspe. Nessuno ha visto niente. Tutti hanno messo in prima pagina lo straccio imbevuto di alcol che ha annerito il portone della televisione di Lamberti. Ho chiamato il prefetto e gli ho detto che dovevamo andare tutti alla casa dei rom dove la ‘ndrangheta ci aveva sfidato. Centomila euro di danni? L’amministrazione comunale li ha tirati subito fuori perché quella casa doveva essere riparata e restituita alla città. Questo sindaco ha fatto tre lettere a tre famiglie mafiose: dovete – ha scritto loro – abbandonare gli appartamenti occupati abusivamente. Siccome non lo fa lo Stato, il sindaco Scopelliti firma e le case vengono lasciate dai Condello, dai Labate e dai Lo Giudice. I beni confiscati non erano stati mai assegnati, io li ho assegnati tutti smentendo chi pensava che ai beni confiscati non si avvicina nessuno. Direttore, perché queste cose non le raccontate?».

Le sta raccontando lei, Governatore.

«No, mi fa piacere che qualcuno pensi a me ma io amministro Reggio Calabria».

Sandro Principe

La cicatrice sul viso, quasi un foro, sta a ricordare che la sua vita si divide in due: quella vissuta prima e quella vissuta dopo quel colpo di pistola che sul sagrato della chiesa, che si accingeva a inaugurare, gli sparò contro un ex dipendente bancario. A unirle provvedono una vibrante passione politica, un legame forte e, in certi casi, anche tormentato con i suoi affetti familiari e una dedizione totale a Rende e alla sua gente. Socialista dai tratti aristocratici e dal carattere non facile, a 58 anni Sandro Principe più che a un politico del terzo millennio fa pensare ai grandi signori del Rinascimento, memorabili soprattutto per il loro mecenatismo. Sta di fatto che una nuova città parla per lui.

Rende, una forte tradizione socialista. Anche in casa. Il suo approccio con la politica?

«Naturale e goliardico perché vivendo a Rende centro già da ragazzino insieme ai miei amici di infanzia ero attratto dalla sezione, e poi c’era il momento elettorale che era vissuto come un’avventura. Giravamo tutto il comune per affiggere manifesti, a speakerare gli oratori per i comizi, ad organizzare le riunioni, a portare i facsimile agli elettori. Erano i primi anni Sessanta, c’erano i grandi partiti, c’era la passione, le piazze erano piene, i comizi riuscivano, gli oratori ci affascinavano, insomma era un modo simpatico di vivere la propria gioventù».

Con un padre, il mitico leader socialista Francesco, la sua precoce militanza era un po’ scontata. Le pare?

«Non c’è dubbio. A Rende mio padre era sindaco».

Era forte la competizione tra socialisti e comunisti?

«No, in quella fase l’avversario era la Democrazia Cristiana. Nel 1952 comunisti e socialisti insieme conquistarono il Comune. Nella sinistra c’era già una prevalenza socialista tant’è che nel ’60 mio padre presentò il simbolo del partito e vinse con una lista socialista mentre i comunisti andavano all’opposizione».

Sua madre apprezzava il suo impegno politico?

«Aveva un atteggiamento forse un po’ contraddittorio. Stando vicino a mio padre constatava con mano la difficoltà di reggere la famiglia di un politico, per cui non giudicava bene il mio impegno politico. Fino a trent’anni ho vissuto questo impegno come un hobby avendo impostato la vita diversamente (professione, sposato a ventisei anni). Poi ci fu la parentesi dell’università, quando tornai in prossimità del referendum sul divorzio mi tuffai per dare una mano a mio padre. Mi davo da fare nel partito, mi nominarono presidente del comitato di coordinamento delle dieci sezioni esistenti, feci un ufficio studi, mentre l’amministrazione comunale lavorava noi impostammo il programma del futuro che, diventato sindaco nel 1980, ispirò la mia attività. Ma tutto questo era sempre considerato un hobby».

E la contraddizione di sua madre?

«Quando mio padre decise che lui non si ripresentava… tra l’altro non poteva farlo perché c’era incompatibilità, io non mi volevo candidare, non ne volevo sapere assolutamente. L’intervento di mia madre fu decisivo. Ecco la contraddizione. Si lamentava della politica da una vita, quando poi mancavano tre-quattro ore alla presentazione della candidatura mi disse: no, tu lo devi fare, fallo per me. Cedetti e accettai».

Facciamo un passo indietro. Gli studi. Al liceo classico Telesio?

«No, al liceo scientifico Scorza di Cosenza. Anche qui c’è una piccola contraddizione. Scelsi lo scientifico per fare l’ingegnere o l’architetto, però poi mi resi conto che ero appassionato delle scienze umanistiche, storia e filosofia in particolare, nelle quali ero molto ferrato».

Una scelta sbagliata?

«Fino a un certo punto perché tra classico e scientifico non c’era una grande differenza, tranne il greco che era assente e il latino che non era studiato in modo approfondito».

Poi si iscrive a giurisprudenza. A Napoli?

«No, a Roma perché c’era papà deputato. Era un bel periodo per la città. Dibattiti, convegni, vidi i film degli ultimi quindici anni. Mi piaceva il cinema storico (“Antonio e Cleopatra”, “Ben Hur”, ora “Il Gladiatore”) e il nuovo realismo di registi impegnati come Elio Petri e Damiano Damiani».

E la politica?

«Potevo seguire i grandi dell’epoca. Mi piaceva, pur essendo socialista, Giovanni Galloni della Dc. Seguivo molto i comizi di Pietro Nenni, era una di quelle poche persone che non distinguevi se leggeva o parlava a braccio. Ero stato all’età di dieci anni in un collegio a Roma per un anno. Papà mi portò alla Camera a conoscere Pertini e Fausto Gullo: rimasi impressionato dall’eleganza di entrambi. Pertini era inappuntabile, debbo dire che don Fausto non era da meno. Naturalmente conobbi Giacomo Mancini e Francesco De Martino. Loro mangiavano a un ristorante di via Frattina, gli Abruzzi, e lì, sia quando ero in collegio sia quando studiavo all’università, andavo a mangiare con papà. Si vedeva che erano compagni, si faceva anche una politica diversa, potevano essere avversari politici all’interno del partito però…».

De Martino.

«Amava molto gli spaghetti, mentre gli altri parlavano lui non si staccava dal piatto. Era una persona di cultura, tutti lo chiamavano professore, amava molto la sua famiglia. Secondo me, Napoli era il suo limite perché come poteva scappava a casa. Ed era anche il limite di Mancini che era fortemente attratto dalla Calabria perché né l’uno né l’altro sono riusciti ad essere presenti nel movimento socialista internazionale, cosa che Craxi invece fece benissimo».

Mancini. Quali erano i vostri rapporti?

«Difficili da definire, dipendevano dalle fasi. Quando Mancini era al massimo della sua carriera prima come ministro poi come segretario del partito c’era una rivalità forte con mio padre, che portava a momenti di tensione notevolissima. Ogni tanto c’era anche la bonaccia. In una prima fase lavoravo perché i due andassero d’accordo. Successivamente quando ho avuto un ruolo in politica i rapporti sono stati cangianti, si andava dalla collaborazione al distacco e anche a qualcosina in più».

Il suo giudizio su Mancini?

«Una personalità di primissimo livello, una buona cultura politica, molto determinato. Mancini era un uomo di passioni, sapeva essere affettuoso, gentile, di classe, ma era anche molto duro e nei momenti di competizione la sua durezza superava ogni limite. Era un aristocratico della politica, naturalmente impregnato di vecchi ideali socialisti fino all’ultima cellula cerebrale, era bravissimo nel cogliere i momenti giusti per essere al centro dell’attenzione. Lo vedo più tattico che stratega. Per realizzare un obiettivo ce la metteva tutta, sapendo usare il bastone e la carota. A Cosenza qualcuno diceva che Mancini sapeva rendere la confidenza».

Finita l’università torna a Rende e fa l’avvocato.

«Prima presso lo studio dell’avvocato De Luca, un amico di famiglia e stimatissimo civilista di Cosenza, poi ho aperto lo studio. Sono gli anni dal 1975 al 1980. Mentre facevo l’avvocato seguivo il partito». 

E poi sua madre le fece la violenza. Se glielo avesse chiesto suo padre avrebbe detto no alla candidatura a sindaco?

«Lui me lo chiese per mesi e mesi e io gli dissi di no. Poi nel profondo della mente umana è difficile leggere. Non so se quell’input di mia madre il mio subconscio l’aspettasse…».

E va a governare Rende che con suo padre era già in profonda trasformazione.

«Erano i primi anni di attuazione del piano regolatore del 1971 per cui nel 1980 c’era solo un abbozzo di quello che oggi si vede. C’erano le due statali 19, un inizio di via Fratelli Bandiera e qualche palazzo, e si stava realizzando il quartiere Europa per la parte abitativa mentre dei servizi, del verde, delle scuole, della biblioteca, delle attrezzature sportive mi occupai io. Cioè tutto quello che si vede come servizi è successivo al 1980, mentre le case erano state fatte prima». 

Quale fu il suo principale obiettivo?

«Avevo la preoccupazione che Rende potesse diventare una periferia. Odio le periferie che sono il portato delle cattive politiche. Ricordo che in campagna elettorale Annamaria Nucci parlò di bella senz’anima. Questa frase mi colpì profondamente per cui, diventato sindaco e anche ora, ho sempre privilegiato quelle iniziative che potessero fare di Rende una città con l’anima. Sull’impianto delle due 19, su cui Mancini ironizzava spesso dicendo in modo sprezzante che Rende era una città su due strade, ho lavorato per riempirla di contenuti».

A vederla pare che ce ne siano perfino troppi.

«Ora è una città iperattiva. L’idea deriva da quel lontano lavoro dell’ufficio studio del partito quando pensammo che bisognava puntare sul Comune, sulla scuola e sulla chiesa. Nei primi sette-otto anni avrò realizzato trenta scuole e con una popolazione triplicata non c’è stato mai un doppio turno. Poi le chiese».

Lei è credente?

«Sono un credente, però anche se fossi stato ateo avrei realizzato chiese perché una città nuova che è alla ricerca di punti di riferimento come fa a non pensare alla chiesa? Era difficile seguire la legislazione rinascimentale, barocca per cui la comunità realizzava le chiese, a Rende le ha realizzate il Comune. È stata una scelta indovinata».

Dunque, chiese e non case del popolo.

«Come partito avevamo le sezioni, ce n’erano dieci». 

Aggiungiamo, si fa per dire, che nel frattempo c’è l’università. Che cambia?

«Il piano Malara degli anni Settanta pensava al verde, ad una sorta di new town. La Sibaritide doveva essere l’area industriale, poi intorno alla city commerciale e degli uffici, che doveva essere Cosenza, c’era Rende, la new town che accoglieva le residenzialità. Punto. È fallita l’idea dell’industrializzazione, Cosenza ha avuto momenti difficili come centro degli affari, si è insediata l’università sul territorio di Rende, e naturalmente per noi era un obbligo seguire la politica che prima ho ricordato. Il risultato si vede di sera: migliaia di giovani, tante attività aperte, una città che vive».

L’università ha dato a Rende un’identità nuova ed è, con il porto di Gioia Tauro, una delle due sfide vincenti della Calabria. È d’accordo?

«Non c’è dubbio che è così. Si vedono gli effetti. Aggiungerei che questa idea di città viva ha come contorno un centro storico non baricentrico, interamente restaurato, un piccolo gioiellino, con il recupero di tutto il patrimonio culturale».

Le piace sentirsi un po’ mecenate?

«Una delle prime delibere di Sandro Principe sindaco è stata l’istituzione del museo. Avevo trent’anni. Erano tempi in cui l’attività amministrativa poteva essere più agile. Acquistammo Palazzo Zagarese e mentre lo recuperavamo compravamo le opere per il museo. Ottavio Cavalcanti andava alla ricerca degli oggetti per il museo della civiltà contadina. Nel 1985 riuscimmo a inaugurare il museo pieno. Poi la pinacoteca, con due Mattia Preti, due Solimena e altro, l’intesa con il vescovo Trabalzini per tirare fuori dai magazzini della chiesa le tele da esporre».

Il nuovo cemento di oggi non rischia di rovinare Rende?

«Penso di no. Non temo le zone di espansione perché ci sono gli strumenti per tutelarne indici e qualità. Temo le zone di completamento dove è previsto l’intervento diretto del privato».

L’area urbana, se ne parla tanto. Anche per fare un’unica squadra di calcio. Non sarebbe il simbolo dell’avvenuta integrazione?

«Non c’è dubbio che ci devono essere iniziative comuni innanzitutto sui servizi. Vanno concordate le direttrici delle grandi infrastrutture e tutto ciò che consente di realizzare l’area urbana indipendentemente dal fatto che il cittadino risieda a Cosenza o a Rende o a Montalto».

Anche col calcio?

«E perché no se c’è l’aspirazione di vedere il calcio cosentino ritornare ad alti livelli. Chi ha una visione gradualista riesce di più a raggiungere i risultati, non mi convince l’idea di partire con il comune unico». 

Prima ha parlato di chiese, il 29 maggio di tre anni fa, mentre si accingeva ad inaugurare quella di San Carlo Borromeo, un ex bancario, Sergio Staino, sparò per ucciderla. Lei ha fatto un viaggio dall’altra parte, poi è tornato. È cattolico, l’agguato avviene sulle scale della nuova chiesa che sta consegnando alla città, e si salva per miracolo. Ha mai pensato al destino?

«Credo al destino. È tutto scritto, non è proprio il fato greco ma ci credo. Certo, per me quella chiesa è stata un cruccio perché i due fiumi di macchine che percorrevano le 19 erano l’emblema delle separatezze. Un primo obiettivo per correggere questo stato di cose è stato la San Carlo Borromeo. Si voleva interrompere quel flusso che tra poco sarà impedito definitivamente con l’isola pedonale. Forse il destino c’è. Uscii da casa, l’ultimo ricordo è quello che dissi a mia moglie: quale vestito mi metto? Dopo non ricordo più niente. Nel pomeriggio avevo pranzato con D’Alema».

Lei si è salvato perché ha avuto un movimento della testa all’ultimo momento?

«Può essere. Perché il proiettile è entrato dallo zigomo ma sembrerebbe che abbia seguito una linea discendente, ha urtato la mascella che l’ha deviato, ha toccato l’atlante scheggiandolo ed è uscito. Se avesse proseguito diritto può darsi che sarebbe andato nel petto». 

Un miracolo?

«Il professore disse che anche volendo disegnare con una matita questo tragitto non si riuscirebbe a non toccare organi vitali».

Come se lo spiega?

«Come si fa a spiegarlo!».

Miracolo?

«Essendo un credente penso che il buon Dio ha voluto così e, quindi, io credo al miracolo. C’è tutto. La chiesa in cui una persona ha creduto fortemente con un impegno quasi parossistico per realizzarla, il giorno in cui succede questa cosa… E poi la lucidità: io non l’ho mai persa. Quando dico che non ricordo è perché per alcuni giorni sono stato in coma farmacologico, non perché il cervello non funzionasse. Quando mi sono svegliato completamente, a mia moglie ho detto tutte le scadenze che avevamo: vedi che dobbiamo pagare l’Ici, io devo fare la dichiarazione Iva».

Sua moglie pensa a un miracolo?

«Sì, sì, sì. Lei è stata eccezionale». 

So che siete andati a Lourdes.

«Sì».

Anche a San Giovanni Rotondo da Padre Pio?

«Sì, sono stato anche lì. In tutti questi luoghi ho ribadito a me stesso che è stato un miracolo. Un miracolo tutto. In questi casi andare in depressione è facilissimo, a Firenze gli ammalati me compreso venivano seguiti dalla psicologa. Questa signora voleva parlarmi e io: no, non c’è bisogno».

Ha perdonato il suo attentatore?

«L’ho cancellato. Il processo dice che questa persona era capace di intendere e di volere prima e dopo, sia pur turbata. Io penso che sul turbamento ci sarà stato un contesto che ha indirizzato verso di me quella mano. Lei me lo chiede, rispondo per puro dovere, ma l’ho cancellato, non ritorno su questa persona».

Ricorda l’affetto che la circondò? C’è ancora uno striscione “Forza Sandro” a Rende.

«Mi hanno detto che ce n’erano a diecine… A Firenze ero sulla carrozzina, scesi giù a vedere la partita e tutto lo stadio… Questo mi ha aiutato molto. Non mi sono mai domandato se ce la potevo fare o meno. Sono stato avvolto, come dire?, da un velo che mi spingeva a guardare avanti senza chiedermi se potevo riacquistare l’uso delle gambe, delle braccia: tenga conto che quando mi sono svegliato solo il cervello funzionava. Mia moglie mi diceva: stai tranquillo che ce la fai, e io mi sono imposto di crederci forse anche per non deludere lei e le figlie».

Quanto conta la famiglia in un’esperienza del genere?

«Assai. È decisiva. Se ti viene la volontà di non deludere le persone care tu sei più forte. Il miracolo è molteplice».

A questo punto parlare di Regione non è semplice, tentiamo. Assessore regionale, la cultura come grande risorsa della Calabria. Ma è davvero così?

«Io ci credo. È un impegno che lega cultura, istruzione e innovazione. Le questioni sono intimamente connesse. Noi dobbiamo puntare sui giovani. In una terra ridotta come la Calabria possiamo pensare che con un colpo di bacchetta magica cambiamo le cose? Per la rinascita di questa terra si deve partire dalla cultura, dall’istruzione e dall’investimento in innovazione? Perché in questo modo noi prepariamo una società civile diversa».

Perché è così importante l’innovazione?

«La cultura è decisiva però non si vive di cultura, lo stomaco ha le sue esigenze. Allora l’innovazione aiuta a mettere in piedi un meccanismo di sviluppo che dà delle prospettive anche ai giovani che devono restare in questa terra. Quindi, occorre un impegno articolato. Sul piano culturale stiamo preparando una serie di interventi nei musei (tra l’altro entro fine anno parte il progetto con relativo finanziamento per una collocazione più adeguata ai Bronzi di Riace), dei teatri (non solo il festival della Magna Grecia), dell’arte (ci sarà il grande evento di Visioni Simultanee). E analogo impegno stiamo profondendo nell’istruzione e nell’innovazione».

Prima sindaco, ora assessore regionale, in mezzo c’è anche un’esperienza di deputato e di sottosegretario al Lavoro. Per quale delle tre cose le piace essere apprezzato di più?

«L’esperienza romana tutto sommato è stata breve, sette anni di deputato. Ho fatto il sottosegretario al Lavoro, erano i primi anni di Tangentopoli, la crisi aveva fatto diventare il ministero uno sportello di pronto soccorso, fu una fase tormentata. Ma per rispondere alla domanda, quello che faccio oggi alla Regione mi piace, è intrigante. Naturalmente l’esperienza di sindaco è indimenticabile e ritengo che la gente mi ricordi per quella».

Calciatore. Era un buon centravanti?

«No, ero rozzissimo. Ogni tanto una partita con gli amici. Il mio punto di forza era lo slancio fisico, la potenza, non ero un fine calciatore».

Nuotatore?

«Sì, mi è sempre piaciuto molto».

Ama cucinare?

«Sì, anche se ora ho poco tempo. Soprattutto per i primi gli amici mi riconoscevano qualche qualità. Poco uso di panna perché nasconde le negatività e i sapori».

Ha sfiorato all’inizio un tema delicato: il rapporto con suo padre. Come ha vissuto il fatto di essere considerato un figlio d’arte?

«In grande serenità finché non sono sceso in campo. La politica era un hobby, ero sereno con me stesso perché avevo la mia professione e un dovere di aiuto verso mio padre. Una volta in campo questa serenità si è affievolita perché essere figlio d’arte è una cosa difficilissima. Mi sono dovuto impostare dall’inizio con una grande autonomia intellettuale. Ripeto, non volevo candidarmi, ma una volta presa la decisione mi sono imposto di camminare con le mie gambe». 

Suo padre come ha reagito?

«Secondo me, male, perché le personalità politiche che hanno successo sono inevitabilmente delle primedonne, ma non lo dico in senso negativo: essere primedonne diventa un’esigenza al di là della loro volontà. Non so come ha visto questa mia autonomia portata all’eccesso».

Ne avete mai parlato?

«In modo profondo direi di no.  Non ricordo, ma forse in qualche momento ai primi tempi a me sarà uscita qualche battuta del tipo che non ci stavo a essere considerato un pupazzo. Poi c’è il rapporto estremamente difficile con la gente che è sempre portata a fare paragoni. Insomma, lì è venuto fuori il mio carattere perché ricordo che a volte tornavo a casa distrutto moralmente – ci sono stati momenti veramente difficili -, però la mattina uscivo con una forza d’animo decisiva e penso che sono riuscito a presentare me stesso per come sono. Poi, sa, le persone sono diverse, io mi reputo uno abbastanza vigoroso, che non ama stare sul palcoscenico in modo vuoto, non mi è mai piaciuto prendere in giro la gente. Il mio merito: ho sempre detto la verità al cittadino, la gente viene e chiede ma non ho mai preso impegni che non potevo mantenere, se dico sì è sì, se dico no è perché non si può fare». 

Dopo quel terribile pomeriggio alla chiesa di San Carlo Borromeo ha mai più avuto paura?

«No. Dopo come fai a temere qualcosa? Sto tra la gente, poi una cosa di quel genere ti fa valutare le cose in modo diverso. Anche la natura. Ho sempre amato le cose belle, ma dopo quel fatto ho colto delle sfumature che prima mi sfuggivano: i colori, il sole come evolve durante la giornata, il canto degli uccelli, un albero bello e imponente, la perfezione. E apprezzo di più anche le persone, perché distinguo tra il bene e l’indifferenza, tra l’amicizia vera e quella… Mia moglie si è trovata sola e sa lei meglio di me le persone che ci sono state più vicine».

Sua moglie Wally torna spesso in questa conversazione. È la persona più importante? 

«Abbiamo lo stesso carattere, siamo fidanzati da quando avevamo tredici anni, ancora adesso facciamo delle litigate e Rosamaria e Carolina a volte si dispiacciono e ci ridono pure. È un legame troppo forte. Per quello che lei ha fatto provo ammirazione.  È stata sette mesi con me a Firenze in una simbiosi totale. Al di là dell’affetto, io che sono stato sempre un po’ sottile – in questo mi sono visto più manciniano che principiano – distinguo tra il giudizio del marito e il giudizio di uno che si astrae e diventa un terzo. Se divento terzo ho ammirazione per lei. E se divento terzo anche per me capisco che il mio è un piccolo esempio di come non bisogna arrendersi».  

Lillo Foti

Meglio come imprenditore del commercio o del calcio? Difficile dire e dividere perché Lillo Foti è riuscito a fare cose prodigiose nell’uno e nell’altro campo. I suoi negozi di abbigliamento sono tappe obbligate per chi vuol vestir bene a Reggio ma anche a Lamezia o a Milano; la sua Reggina staziona da anni in serie A, anche tra marosi che avrebbero travolto, com’è accaduto, società ben più accorsate, ed è riconosciuta come una delle realtà meglio gestite e, quindi, più sane del calcio italiano. Lui è il padrone riconosciuto della Reggina, deve fare i conti con un popolo che tiene  alla squadra come ad una persona di famiglia e perciò ama alla follia chi sa farlo sognare ma può anche dare del filo da torcere a chi non assicura le giuste soddisfazioni sportive. Amico dei politici, si tiene alla larga dalla politica anche se, volendo, potrebbe aspirare a qualsiasi poltrona. Probabilmente la dritta giusta la trova in famiglia, dove ogni giorno quattro donne lo giudicano, lo criticano, lo contestano, gli danno consigli: se passa il loro esame il resto viene più facile.

Presidente, lei ha mai giocato al calcio?

«Da ragazzino in ambito prettamente amatoriale, in collegio o nel quartiere».

Lei è nato nel febbraio del 1950, in quale zona?

«Nel cosiddetto Rione Pescatori».

Un rione tra i più popolari di Reggio.

«Negli anni Cinquanta c’erano presenti i ferrovieri. Il rione pescatori è vicino allo stadio, a poche centinaia di metri».

Intanto lei tirava a calci con i suoi coetanei. All’epoca Reggio non aveva grandi primati nel calcio.

«No, poi negli anni successivi, il periodo del Granillo è stato importante per lo sport calcistico reggino. Nel rione c’erano varie squadre, la Matteotti, la Maestrelli, ma erano piccole realtà».

Suo padre che attività svolgeva?

«Si muoveva nell’ambito del commercio, dell’abbigliamento. Aveva un piccolo negozio al centro, sul corso. Da lì siamo partiti». 

La famiglia era impegnata nel commercio?

«No, diciamo che era una di quelle famiglie numerose, erano dieci figli».

La tradizione è continuata?

«No, noi siamo stati tre figli, io sono il più grande, ho un fratello e una sorella».

Che studi ha fatto?

«La maturità classica al Campanella e poi mi sono iscritto a legge dando qualche esame ma ho preferito fin da ragazzino dedicarmi all’attività commerciale. È stata una scelta abbastanza chiara».

Suo padre voleva che lei studiasse?

«No, mia madre pretendeva sicuramente, secondo la mentalità classica di quei tempi, di avere un figlio con una laurea. Sono venuto meno a questo suo desiderio. Mio padre vedeva bene che proseguissi la sua attività e lo ha fatto con una grande disponibilità: è una delle cose che ho apprezzato di più negli anni. Ha avuto la forza di mettersi da parte nonostante fosse giovane e di lasciare a me di continuare la sua attività».

All’epoca della sua infanzia Reggio Calabria che città era?

«Prima degli anni Cinquanta era una città di grande vivibilità, con un’aria molto signorile, con alcuni posti importanti di riferimento come il Comunale, lo Show Garden al Lido. Per noi giovani queste due realtà erano un ritrovo fondamentale».

Amicizie importanti che poi le sono rimaste?

«Compagni di scuola. Il vicesindaco di adesso Gianni Rizzica, l’avvocato Pino Benedetto con cui ho un sodalizio che dura. Con Pino ci conoscevamo da piccoli. Dal Rione Pescatori ci siamo trasferiti in centro, nella zona del Duomo, e c’è stata una frequentazione continua, un rapporto che è rimasto a distanza di cinquant’anni».

Un’amicizia importante?

«L’unica amicizia importante». 

Che cos’è l’amicizia per lei?

«È un rapporto che deve avere una conoscenza di tanti anni, alla base di tutto bisogna mettere in luce i pregi e occultare qualche difetto che abbiamo un po’ tutti. La parentela uno se la trova, l’amicizia uno se la sceglie e sotto questo aspetto è molto più importante».

Lei nel 1970 aveva vent’anni. A Reggio c’era la rivolta. Lei come ha vissuto quei fatti?

«Da spettatore attento, contrariato da alcuni episodi non certamente positivi che hanno poi messo in difficoltà la mia città. A distanza di quasi quarant’anni ritengo che ci sia stata una reazione da parte della gente e che poi in seguito questa sia stata supportata o utilizzata da qualche forza politica. Sulla strada c’era la gente, c’era il popolo, le famose barricate di Santa Caterina e del Gebbione, di Sbarre e del Calopinace erano frutto di un sentimento autenticamente popolare».

Che però fu strumentalizzato?

«Di politica sono completamente out».

Ma nonostante i suoi vent’anni lei non si fece coinvolgere? Non fu tentato di partecipare?

«No. Forse ho avuto la coscienza dei vent’anni di allora che erano abbastanza diversi da quelli di oggi. Avevo un’educazione diversa, e c’era una maggiore attenzione da parte della famiglia che non permetteva aggregazioni particolari».

Vista a distanza di tanto tempo, quella rivolta è servita a Reggio?

«Secondo me ha penalizzato lo sviluppo della città, ha frustrato le aspirazioni, e non c’è stato il sostegno da parte delle istituzioni che hanno quasi dimenticato per un attimo Reggio».

Lei intanto entra nel negozio di suo padre. Quando prese effettivamente il testimone dell’attività?

«Quasi subito. Anche perché da ragazzino me ne interessavo. A ventidue anni, dopo il militare, ero già pronto per la full immersion nell’azienda, e grazie alla disponibilità di mio padre, al suo buon senso o alla mancanza di egoismo, mi assunsi la responsabilità».

Come ricorda suo padre?

«Lui è morto nel 1983. Lo ricordo come una persona eccezionale, gli debbo molto».

Quand’è che fa la prima cosa sua al vertice dell’azienda?

«Feci una serie di scelte che si rivelarono positive e che hanno permesso all’azienda di avere una struttura e un processo di sviluppo sempre più ampi».

Qual è stato il segreto del successo?

«La presenza di collaboratori e collaboratrici che con le loro idee hanno contribuito ai risultati di cinquant’anni di attività».

Al punto che lei oggi ha il novanta per cento dei negozi del corso. È vero?

«No, è un’esagerazione. C’è una buona presenza sul corso. E poi negozi a Lamezia, a Cosenza, a Milano».

Lei ha scelto di operare nell’abbigliamento firmato, di alta qualità. Vestir bene e anche vestir caro. Era una scommessa difficile?

«Cercavamo di coprire uno spazio, e la scelta fatta si è dimostrata quella giusta».

Si è sposato con una signora di Siracusa. Dove l’ha conosciuta?

«Allo stadio di Siracusa. Si giocava Siracusa-Reggina. Gabriella tifava per il Siracusa, e in quell’occasione in tribuna c’è stata la conoscenza che è diventata un rapporto che va avanti dal 1978. Abbiamo tre figlie, Giorgia, Francesca e Fabrizia».

Nella sua attività imprenditoriale ha vissuto anche momenti di particolare difficoltà. Davanti ad un suo negozio fecero trovare una testa di bue con tanto di richiesta estorsiva, e poi una bomba esplose davanti ad un altro suo locale. La sua famiglia corse dei rischi, lei affrontò la situazione con una posizione particolarmente ferma.

«Ci fu qualche difficoltà, però è tutto superato. Era un momento un po’ particolare, di cose meno positive che fanno parte del passato e meno ci si ritorna e meglio è».

Veniamo all’incontro con la Reggina.

«Avvenne a maggio del 1986. C’era una grande difficoltà della società A.S. Reggina a trovare dei dirigenti. All’epoca l’amministrazione comunale aveva un po’ a carico le sorti della società e la Reggina rischiava il fallimento. L’intervento di un gruppo di giovani – c’era l’avvocato Benedetto, il dottore Lucio Dattola, attuale presidente della Camera di Commercio, e Lorenzo Nucera. E lì nacque questa avventura che ha dato tantissime emozioni e passioni al tifoso reggino».

Da allora si può dire che lei non abbia sbagliato un colpo. Si occupa personalmente di tutto, da quante magliette hanno i giocatori alle scelte degli allenatori. Quanto è valsa questa sua pignoleria nel positivo andamento della società e della squadra?

«Tutto questo ha contribuito. In una piccola realtà, in assenza totale di risorse economiche, nessun peso politico, pochissima comunicazione, l’obbligo di tutti è di rinserrare le fila e di cercare attraverso un’attenta valutazione e scelte abbastanza chiare il processo che possa poi portare a dei risultati».

Lei si occupa di tutto?

«Mi interesso di tutto, fermo restando che alla reggina c’è un gruppo di collaboratori abbastanza validi, di giovani che hanno entusiasmo e che danno un contributo alla crescita di questo marchio che oggi è importante e che trasmette la calabresità internazionale».

Purtroppo in questo momento si esportano marchi non certo positivi al di là del Pollino. Il vostro è una bella eccezione.

«Il percorso di questi anni ha permesso la presenza di questo marchio da oriente a occidente, da nord a sud, in qualche maniera ha aggregato la passione e l’entusiasmo di tanti calabresi sparsi dappertutto. Penso che non appartenga solo alla città di Reggio questo entusiasmo. La partecipazione coinvolge non solo la provincia che ha un ruolo altrettanto da protagonista ma penso, dalle attestazioni che mi arrivano, che siano tutti i calabresi, da Cosenza a Castrovillari a Reggio Calabria, a sentirsi rappresentati in maniera dignitosa e decorosa dalla Reggina. In poche parole sono tutti un po’ tifosi reggini».

Lei che gira con la squadra dappertutto sente questo entusiasmo, ma non avverte anche un pregiudizio negativo nei confronti dei calabresi?

«No, pregiudizio no. Non sono mai stato vittimista, mi piace affrontare la realtà. Vivo di pochi sogni, spero in tanti fatti. So perfettamente quali sono le difficoltà del territorio spesso utilizzato e non sostenuto in maniera poco costruttiva per tutta una serie di problemi». 

Le dico qualche nome. Italo Falcomatà.

«Io con la politica non c’entro niente. Voglio mettere le mani avanti».

No, presidente, non deve, se non vuole, parlare di politica, ma solo di persone. Falcomatà.

«Un rapporto grandissimo sul piano personale. Ci siamo confrontati sullo stadio, misi a disposizione del vecchio comunale la Reggina. Riconosco a Falcomatà di aver recitato un ruolo importante per la città in un momento in cui la sua immagine si era persa».

Giuseppe Scopelliti.

«Con lui la città sta crescendo. Falcomatà ha messo le fondamenta e Scopelliti sta contribuendo ad alzare qualche piano».

Marco Minniti.

«Ha un ruolo importante, mi auguro che possa dare anche dal ruolo istituzionale che ha in questo momento ha, un contributo utile alla crescita della comunità calabrese. Sia Minniti che Scopelliti sia la Provincia e la Regione, debbo ringraziarli perché in un momento difficile della Reggina sono stati a fianco della società e ci hanno consentito di andare avanti negli ultimi due anni che non sono stati facili per noi. Parlo di Loiero, Bova, Adamo».

Naturalmente si riferisce a calciopoli. La Reggina ha subito dei colpi duri, lei è stato coinvolto in prima persona tant’è che attualmente è ancora squalificato. Ne siete comunque usciti.

«Perché non abbiamo pensato a fare recriminazioni ma abbiamo pensato a far crescere la Reggina, che ha risposto in termini di grande correttezza: abbiamo messo in campo le virtù dei calabresi che sono la perseveranza e il silenzio. Sono ancora squalificato, il sistema ha ritenuto di sospendermi, ho difficoltà ancora a capire per che cosa».

Lei quando sbaglia è disposta ad ammetterlo?

«Sì, penso di aver messo sempre la mia faccia in tutte le cose. Me lo riconoscono tutti».

Ci fu un brutto episodio nello spareggio con il Verona del campionato 1999-2000, che la vide coinvolta in prima persona. Un incidente di percorso?

«Quella è la macchia più grossa, perché ci fu una responsabilità mia al cento per cento, ben più di quanto è accaduto con calciopoli. E penso che quell’esperienza sia servita».

La Reggina per lei è passione o un affare?

«Nasce come passione, negli anni si è trasformata in un’azienda che ha dato delle opportunità di lavoro a quaranta-cinquanta persone all’interno del Santagata e poi ha fornito la possibilità a qualche giovane di realizzare un sogno».

Sua moglie è ancora tifosa del Siracusa?

«No, mia moglie è diventata uno dei confronti più duri da affrontare, mia moglie e le mie figlie. Sono loro che mi contestano di più, le scelte che faccio, nonostante i miei silenzi, sono oggetto di critiche da parte della mia famiglia».

Tiene conto delle loro critiche?

«No, io vado avanti per la mia strada».

Presidente, il suo sogno per la Reggina?

«Uno stadio importante, ho sempre creduto che bisogna dare delle strutture perché le aziende possano svilupparsi. La Reggina ha il Santagata. Non conta tanto creare i sogni o cullare illusioni, è molto più utile che si possa costruire qualche cosa che si fondi su strutture e formazione».

Calcisticamente il maggiore traguardo alla portata della Reggina?

«Restare in A e sognando di poter un giorno partecipare a qualche evento che possa gratificare il tifoso».

Prudenza massima?

«Realismo».

La sua è una società in ordine per riconoscimento generale. Non sembra vero che dal profondo Sud arrivi un messaggio del genere. Come si ottiene un tale risultato? 

«Lavorando».