Duisburg è molto lontana da qui, San Luca è a cinquanta chilometri. Ad accorciare le distanze della Calabria dall’Europa ci pensa la ‘ndrangheta i cui tentacoli si dimostrano più veloci ed efficaci di improbabili autostrade e ferrovie meridionali. Gli europei sono spaventati dalla carneficina di Ferragosto che ha svelato quanto gli affari della ‘ndrangheta siano penetrati in profondità nel cuore del vecchio continente. Altro che retaggi tribali, altro che vecchi codici, la Calabria esporta capitali sporchi di droga e l’idea di un potere alternativo allo Stato, al tempo stesso vecchio e moderno, fondato su disponibilità finanziarie imponenti e capace di esercitare – dice il viceministro dell’interno – una sovranità sul territorio che è la sfida più temibile alla collettività. L’intervista si svolge nel punto più a sud dello stivale, sulla parete della vecchia casa della Marina il primato è certificato con un tondino di ferro. Capo Spartivento, a una cinquantina di metri più su c’è il faro, dalla vecchia casa parte una scala che serviva per raggiungerlo e che è troncata da quanto fu realizzata la strada impervia che costeggia il mare. Acquistata in una delle tante campagne di cartolarizzazione di beni pubblici, la casa risulta essenziale, rigorosa, sobria, e la bellezza selvaggia e simbolica del posto è salva. Per scendere in mare neanche l’abbozzo di uno scalino. Se non ci fosse un discreto movimento di uomini della scorta e delle loro auto nel quasi inaccessibile ginepraio di viottoli, impolverati e senza una goccia di asfalto, che consentono di arrivare alla casa, non si immaginerebbe che qui si trova uno che ha la delega per le polizie e il servizio segreto civile nazionale. Quando non ci saranno più le scorte, alla sicurezza provvederà un magnifico pastore abruzzese, Bruno, che ora protegge come un’ombra la signora Mariangela e le due figlie Bianca e Serena. In questo luogo Marco Minniti sembra un’altra persona, e si ha l’impressione che il carattere un po’ scostante nasconda una punta di timidezza. Il grande amico di D’Alema si racconta e svela anche qualcosa di inedito su di sé e sul ministro degli esteri. Per il ruolo che ricopre è più criptico nel giudizio sulle cose calabresi, ma a saper leggere sono chiare le sue preoccupazioni sul presente e sul futuro di questa terra.
Lei è nato a Reggio, in un quartiere popolare, il rione Gebbione.
«Vicino allo stadio. Di fatto casa mia era nel punto di intersezione tra il rione ferrovieri e il rione dei pescatori. Il primo era il quartiere della classe lavoratrice, ma con una fortissima componente religiosa. C’erano don Nunnari e monsignore Agostino, Gaetano Cingari e Italo Falcomatà, e poi tanti socialisti e comunisti. Il rione pescatori era il quartiere povero».
Come era la sua vita da bambino?
«Si viveva in strada a giocare al pallone. Cominciai a giocare a calcio con qualcuno anche abbastanza bravo».
Suo padre?
«Stava in Aeronautica. Con i due rioni non c’entravamo nulla, vivevamo in una cooperativa dell’Aeronautica. Mio padre aveva otto fratelli, tutti militari di carriera, e tre sorelle».
Tutti nell’Aeronautica?
«Quasi. L’Aeronautica era un’arma giovane, mio padre vi entrò nel periodo fondativo alla fine degli anni Venti. Forte era lo spirito pionieristico, e partecipò all’occupazione delle isole del Decodanneso, la prima vera avventura di politica espansionistica e neocoloniale del fascismo».
Fratelli?
«Io ero il terzo figlio, il maschio fortemente voluto dopo due sorelle».
Lei si è fermato a Bianca e Serena?
«Sì, abbiamo risolto il problema con Bruno…».
Prima della politica?
«Incominciai come boy scout da ragazzino, alla prima media. Ero al riparto Sagittario, all’Aspromonte c’era Nicola Calipari. Lo feci seriamente».
Facciamo un po’ di conti. Lei è del 1956, boy scout ancora attorno ai quattordici anni. Siamo al 1970, l’anno della rivolta di Reggio. Significa qualcosa per lei?
«Moltissimo. Allora la città era dominata da una cultura di destra. Nella prima fase i moti di Reggio furono popolari, dopo furono fortemente ipotecati dall’Msi. Nel 1972 Ciccio Franco venne eletto senatore con il 44 per cento dei voti. Io feci una scelta esattamente opposta».
Perché?
«La cosa maturò soprattutto a scuola. Stavo al liceo classico Tommaso Campanella. Scelsi la sinistra per una necessità forte di libertà. A Reggio non c’era solo l’Msi, c’era una forte Avanguardia Nazionale e in ogni angolo si respirava una cultura della destra».
Concretamente che cosa accadeva?
«La città era sotto assedio, ci furono anche i cingolati in strada. Facevo il quarto e il quinto ginnasio. Per me andare e tornare da scuola era un’impresa. Per quattro anni non ho messo fisicamente piede sul corso Garibaldi, era off limits, non ho mai passeggiato con una ragazza nella strada principale della città, che era controllata dalla destra. Loro stavano permanentemente al teatro comunale – stiamo parlando di centinaia, non di poche persone -, ma se sapevano che tu stavi a piazza De Nava ti raggiungevano e ti menavano».
Aveva lasciato i boy scout?
«Sì, perché una parte della chiesa si schierò per i moti. Ci lasciammo, come dire, con buoni sentimenti».
E si iscrisse alla Fgci, la federazione giovanile del Pci?
«La mia prima esperienza fu il movimento studentesco di Capanna. Ma fu inevitabile avvicinarmi al Pci perché a Reggio, con il predominio della destra, tutti se la squagliarono e il presidio divenne il Pci, un polo di attrazione fatale, l’unica sede democratica aperta. Tra i diciassette e i diciotto anni mi iscrissi alla Fgci, di cui era allora commissario a Reggio Claudio Velardi».
Ora si spiega il sodalizio che vi portò nello staff di Massimo D’Alema a palazzo Chigi.
«Che era il segretario nazionale della Fgci. Con Velardi incominciò un’amicizia che definirei tempestosa, perché tra due persone assolutamente diverse: io riservato, lui un casinista».
Poi lui andò via?
«A Roma come responsabile meridionale della Fgci, mentre io per un periodo brevissimo fui segretario provinciale. Nel 1977, all’età di ventuno anni, diventai quadro di partito e, come da prassi, responsabile della commissione operaia. Il quadro operaio per antonomasia era Angelo Abisso, ora suo figlio sta nella mia scorta. Nel 1978 mi mandarono nella Piana di Gioia Tauro, un’esperienza terrificante, da far tremare le vene e i polsi».
Era un territorio così difficile?
«Non c’erano soldi e io ero ospitato nel sottosoffitto della casa di un compagno di Palmi, Armando Pizzica. Era la Piana di trent’anni fa. Non c’era un cinema, non c’era nulla, la nostra sede non aveva il bagno, si faceva la pipì dal balcone interno. In quel periodo nella Piana si giocavano le partite del post- centro siderurgico e della centrale a carbone».
E la ‘ndrangheta?
«Come in tutta la provincia, dopo i moti di Reggio la ‘ndrangheta era passata al traffico internazionale della droga e la sua presenza divenne sempre più invasiva, ossessiva, forte. E poi ci fu la sequenza dei grandi morti del movimento operaio, del partito comunista».
Ricordiamoli.
«Rocco Gatto, Ciccio Vinci, Peppino Valerioti, che morì il 10 giugno 1980 mentre io ero responsabile della Piana, Giannino Losardo a Cetraro. Era un attacco al partito comunista che allora appariva come l’argine al tentativo di mettere le mani sopra le grandi operazioni calabresi».
Che ricorda di Valerioti?
«La sera della morte non andai a cena con i compagni solo perché a due mesi dalla campagna elettorale ero tornato a casa. Ma ci restai pochissimi minuti perché mi arrivò la telefonata. Il colpo fu fortissimo. La dinamica era quella del terrorismo mafioso: colpire per dare un segnale devastante. Veramente quello è stato uno dei momenti più difficili per il partito comunista, anche per me personalmente: ne fui sconvolto… Contemporaneamente mio padre ebbe un grosso infarto, fu un anno “horribilis”. Stavo diventando scaramantico. Ai compagni dicevo: non ce ne va bene nemmeno una».
Anche scoramento?
«Sì. Un filotto».
Voglia di smettere?
«No, quella mai. Nel 1980 fui chiamato a fare il segretario cittadino di Reggio. Eravamo alla fine della fase delle larghe intese. La mia esperienza fu fortemente traumatica, entrai in conflitto, anche abbastanza aspro, con una parte del gruppo dirigente. Lasciai l’incarico di segretario cittadino ma anche quello di funzionario di partito».
In pratica perse il posto di lavoro?
«Esatto. Mi sembrava una scelta coerente, mi tirai fuori. Io ho una tendenza, quando sono convinto, a portare le cose alle estreme conseguenze, anche a pagare di persona. E per tre anni rimasi fuori da tutto».
Si era laureato?
«Sì, nel frattempo in filosofia e mi ero specializzato in filologia classica. Facevo dei seminari su Abelardo e Eloisa, avevo cominciato un’altra vita che mi avrebbe portato alla ricerca universitaria. Ma improvvisamente il gruppo dirigente del partito, che era entrato in una serissima difficoltà, mi richiamò e mi affidò il compito di rifare a Reggio il festival dell’Unità. Posi una condizione: mi dovete lasciare mano libera. E feci il festival il cui titolo era “Reggio, la città e il mare”».
Perché?
«Perché dovevamo recuperare il rapporto col popolo reggino e col mare. Prima del sindaco Falcomatà e del lungomare la gente di Reggio non aveva alcun rapporto col mare. Adesso Reggio è una città di mare che vive sul mare, prima era una città di mare che viveva senza il suo mare».
Tra responsabilità varie a livello locale alla fine sbarcò a Roma.
«Venni chiamato da Bassolino che conoscevo già da tempo. Del resto io ho sempre avuto un rapporto bello con Napoli, e con Bassolino c’era una forte amicizia (è stato il testimone alle mie nozze). Andai al dipartimento economico con lui e Reichlin. Una bella esperienza. Dopo due anni mi mandarono a fare il segretario della federazione di Reggio, eravamo nel pieno della guerra di mafia. E poi da lì il tradizionale cursus honorum fino alla segreteria regionale».
Una strada tutta in discesa?
«Fino al 1994. Venivamo da giunte Dc-Pci, e il vicepresidente della Regione era un uomo forte del nostro partito, Franco Politano. Occhetto, segretario del Pds, a un certo punto decise che bisognava rompere il consociativismo. Fui chiamato a Roma e mi fu detto di rompere. E così fu. Noi uscimmo dalla giunta regionale, Politano uscì dal partito facendo il vicepresidente di una nuova giunta con la Dc. Una rottura incredibile».
Come andò a finire?
«Si andò alle elezioni con questo schema: si vincono le elezioni in Italia, si perdono in Calabria, facciamo fuori Minniti. Era la cronaca di un avvicendamento annunciato. Successe l’impensabile. Perdemmo le elezioni in Italia e le stravincemmo in Calabria con il Pds che prese il 22 per cento, il miglior risultato della sua storia. E così si rovesciarono le parti. Occhetto si dimise e io fui chiamato a far parte del comitato ristretto di reggenza che doveva gestire la transizione con Giglia Tedesco, Bassolino. D’Alema fu eletto segretario e io fui chiamato a Roma nella segreteria».
Fu Bassolino a proporla?
«Con Bassolino il rapporto era sempre molto forte, ma lì andai portato da D’Alema che riscoprì la Fgci volendo una squadra di giovani. Con D’Alema ci conoscevamo da ragazzini».
Lei era il coordinatore della segreteria dei Ds, fu clamorosa la sua mancata elezione in Parlamento nel 1996.
«Sì, diventai vittima di una mia macchinazione. Poiché ero uno di quelli che faceva le liste, spinsi tutti i compagni autorevoli a non candidarsi nei collegi sicuri ma in quelli di frontiera la cui conquista ci avrebbe potuto consentire di vincere. E anche io andai nel collegio impossibile di Reggio Due. In ogni caso facevo affidamento sul paracadute del proporzionale. Successe che io e Napolitano, per eccesso di vittoria, non venimmo eletti».
Giorgio Napolitano se la prese terribilmente.
«Io pure. Nella stessa notte persi il collegio e non fui eletto nel proporzionale. Fu una cosa brutta. Un pochino mi sono arrabbiato. Il rischio era quello di rimanere fuori. D’Alema con grande affetto mi confermò coordinatore unico».
E due anni dopo, alla caduta del governo Prodi, la chiamò a palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza del consiglio. È stato l’apice della sua carriera?
«Sì. Lì a palazzo Chigi c’è il cuore di tutto. La vicenda Ocalan, l’intervento militare in Kossovo: fu una scuola superiore di governo».
Lei era una delle teste pelate di cui D’Alema si circondò, i cosiddetti Lothar. Fiducia totale? Amicizia di ferro?
«Lo so che è difficile crederlo, ma il rapporto era assolutamente libero. Non nel senso che lui mi dava o io rivendicavo la libertà ma che, avendo avuto un mandato, io lo svolgevo. D’Alema non è mai stato ossessivo, anzi dava fin troppa fiducia. Ero chiamato a decidere da solo, non c’erano le riunioni la mattina in cui ognuno diceva quello che si doveva fare. D’Alema aveva un comportamento molto leale per cui finiva sempre col dare coperture. Con me è valso il principio della piscina: tu sei buttato in acqua, se sai nuotare nuoti, se non sai nuotare affoghi».
I vostri caratteri. Diversi?
«Non c’è mai stata confidenza estrema. Per essere chiari, io non ho mai aperto il frigorifero di casa sua».
Cosa che forse faceva Velardi?
«Sì, allora con Claudio era così, ora il rapporto è molto forte con Nicola Latorre. Io sono andato a casa di D’Alema una sola volta, e lui non è mai venuto a casa mia. È stato solo una volta qui a Capo Spartivento, è passato con la barca a prendersi i pomodori, ma io non c’ero, c’era Mariangela».
Le famose e costosissime scarpe che lei gli fece comprare in Calabria farebbero pensare il contrario.
«No, lui non le ha nemmeno comprate, gliele regalai io. Erano le scarpe di Cesare Firrao, un calzaturificio di Luzzi di prim’ordine, poi fallito, ora hanno cercato di recuperarlo. Durante una cena tra amici – anche alcuni giornalisti – c’era un cagnetto che mordeva i piedi a D’Alema, e io dissi “fermatelo, le scarpe sono costate un milione e duecentomila lire”, non pensando mai che la cosa andasse a finire sui giornali».
Caratteri difficili i vostri: antipatico lui, aristocratico lei.
«Siamo due caratteri molto forti, molto puntuti, tutt’e due mettiamo i puntini sulle i, lui platealmente, io non lo dimostro. Essendo due perfezionisti, sul lavoro si può trovare il punto di contatto. Durante la guerra nel Kosovo io credo di aver dato una mano importante, il mio ufficio era davvero la prima linea. Alle elezioni di giugno, durante una manifestazione a piazza Italia a Reggio, D’Alema mi ringraziò pubblicamente “davanti a tutti perché – disse – in privato non sarei stato capace di farlo”. Questo vale più di ogni cosa a spiegare quale era il nostro rapporto».
Ma che cosa limita D’Alema?
«La diagnosi l’ha fatta lui stesso quando ha confessato: il peggior nemico di me stesso sono io stesso. Lui ha dei momenti in cui prevale il suo carattere. È una persona profondamente leale e la sincerità può essere dura. Però, è una personalità a tutto tondo, una delle più grandi di questo paese. Io poi gli devo molto. A palazzo Chigi mi ha dato un’opportunità fondamentale. Gli sono molto grato, è la prima volta che racconto la natura del nostro rapporto. Non c’è consuetudine tra noi ma forse anche per un limite mio perché io non sono una persona di compagnia».
Un limite che pesa molto per uno che deve avere rapporto con la gente. Non le sembra?
«Sì. La mia vocazione vera non era la politica, ma il volo. Feci gli esami all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Ho anche fatto il programma completo con la pattuglia acrobatica. Il mio karma era quello. Poi in famiglia non me l’hanno fatto fare, soprattutto mia madre aveva paura».
Che velocità ha raggiunto.
«Faccio parte del club dei Mach 1, quelli che hanno superato la velocità del suono».
Che si prova?
«È una velocità assolutamente strumentale. Non senti niente, tu produci un danno a quelli che stanno in basso ma sull’aereo non senti nulla. Sono stato il primo italiano a volare con l’Euroflighter, e ho avuto anche un volo travagliato perché in fase di decollo scoppiò un pneumatico».
Le piaceva la carriera militare?
«No, la consideravo onerosa ma mi piaceva volare».
Lì la perfezione è tassativa, in politica forse ne serve meno. Le pare?
«Certo. Sono stato sempre un solista. Non è che non voglio bene o non mi vogliono bene nel partito, ma non ho mai chiesto a nessuno di fare squadra e non ho mai accettato di far parte di una squadra».
Questo spiega, venendo ai giorni nostri, che mentre Nicola Adamo o Giuseppe Bova hanno un vasto seguito, lei no. Non è una posizione debole la sua?
«Non ho truppe e non le ho mai cercate. Difficile crederci ma è così. Sarò demodè, ma penso che la politica abbia una sua forza e delle regole e che poi alla fine la forza e le regole funzionino. Quella che a lei sembra una posizione debole, in effetti è stata la mia vera forza perché in una realtà così complessa come la Calabria alla fine tutti ti considerano un punto di riferimento perché non sei di una parte, non hai le tue truppe».
Forse per questo negli ultimi tempi, al di là delle scelte ufficiali per la leadership del Partito Democratico, si dice che la candidatura più autorevole e affidabile resti la sua.
«Non ho truppe ma mi vogliono bene. Non sembri che io abbia una visione semplificata o troppo ingenua della politica, conosco i rapporti di forza. Ho deciso di non entrarci perché penso che sia giusto per tutti, anche per quelli che hanno le truppe, sapere che c’è uno che ha la testa sulle spalle e che non è identificabile con questo o con quello».
Il suo profilo di uomo di governo le impone un ruolo defilato?
«Ha ragione. Questa è un’altra questione. Io sono il vice ministro degli interni, sto in un posto delicato. Quando vado a fare un comizio, io che gestisco un ministero della forza, se dico “tizio, tu la pagherai” ho fatto una minaccia».
Dal viceministro dell’interno ci si aspetta molto in una Calabria dominata da una ‘ndrangheta sempre più potente, agguerrita e senza confini.
«Io penso di stare facendo molto per la Calabria. Non spetta a me giudicare ma dalla postazione del ministero degli interni si può dare una grossa mano perché il problema del rapporto tra la Calabria e lo stato è antico e ancora non risolto. È cambiato tutto in Calabria in trent’anni ma quel rapporto continua ad essere molto difficile. Invece noi abbiamo il compito di avvicinarlo perché è fondamentale per un contrasto alla ‘ndrangheta. È un punto chiave. Dobbiamo ripristinare la sovranità dello Stato ribadendo che le sue funzioni non sono sottordinate al potere della ‘ndrangheta, e mettere in campo un programma ambizioso che porti alla distruzione della ‘ndrangheta».
Lei non può entrare nel merito, ma tra corruzione, inchieste e inquisiti il quadro politico della Calabria è deprimente: di chi è la responsabilità?
«Sta nella frantumazione, nello sfarinamento di questa regione. Penso che la giunta regionale stia facendo bene, ma le cose fatte sono di più di quelle che vengono percepite. Nel sessanta per cento avuto dagli elettori la mission del centrosinistra era quella di dare un’identità unitaria alla Calabria. Ancora non ce l’abbiamo fatta».
Come se ne esce?
«La Calabria quando è andata avanti? Quando ha avuto grandi partiti di massa: la Dc, il Psi, il Pci. Oggi la carta da giocare è il Partito Democratico. I tempi non sono quelli dei grandi partiti di massa ma serve un grande soggetto politico. Quest’idea in Calabria è più radicata che altrove. Per questo bisogna farlo nascere come Dio comanda».
A quel che si vede, Dio comanda molto male. Ci sarebbe bisogno di qualche leader vero. Non le pare?
«Sì, ma…».
Poiché stiamo parlando di corda in casa dell’impiccato…
«La Calabria non ha bisogno di uno che le lisci sempre il pelo, ma vuol sentire un linguaggio di verità».
E trovare qualcuno che si spenda per davvero per la Calabria. Lei sarebbe disponibile?
«Sì, senza dubbio. Io parlo di una mission della classe dirigente. La politica non deve smarrire il senso della missione, che vuol dire impegno incondizionato, che duri nel tempo, che sia permanente e pervicacemente perseguito. Una missione non è l’impegno di una sola persona, il mio c’è ed è totale, e, come si dice dalle nostre parti, sono a disposizione».
Torniamo a Reggio. Italo Falcomatà.
«Non se ne deve voler nessuno. È stato il più grande sindaco che la città di Reggio abbia mai avuto. Lui aveva una cosa che io non ho: un’anima popolare. Era capace di stare in sintonia con l’aspetto più profondo di una comunità, che è la più bella dote che possa avere un dirigente politico».
Qualcuno dalle sue parti ha detto che nel settanta per cento preso da Scopelliti nel maggio scorso ci siano per lo più clientele. È d’accordo?
«Considero quello di Reggio un voto politico che sta sicuramente in una dinamica nazionale non favorevole al centrosinistra ma che dimostra anche una capacità della destra di ricostruire un rapporto con la città. Le sconfitte devono essere analizzate per quelle che sono».
Intanto lei rappresenta insieme ad altre forze politiche appena il trenta per cento. Una bella sconfitta per il reggino viceministro dell’interno.
«Il trenta per cento non significa essere tagliati fuori perché siamo dentro una dinamica dalle evoluzioni molto rapide. Sette anni fa sembrava esattamente l’opposto, la destra sembrava incapace di ricostruire una sintonia con la città e invece l’ha ricostruita. Noi dobbiamo fare lo stesso sapendo che Reggio si affida a quella classe dirigente che le dà un’identità».
Lasciare la Calabria. I giovani ci pensano e in molti lo hanno fatto e lo fanno.
«Questo è il punto di svolta e anche di massima fragilità politica. Una regione che perde i suoi figli migliori, è come un corpo sottoposto ad una continua e imponente emorragia. Andrebbe fatta una politica vera, occorrerebbe avere un elenco di cento-duecento-trecento giovani che si sono affermati in giro per l’Italia e per il mondo e riportarli qui».
Senza alimentare nuove sacche di precariato e sistemi che ammazzano la voglia di futuro?
«Noi dovremmo avere una task force che pensi solamente a questo per dimostrare che in Calabria è possibile che il talento venga premiato. Ecco, il primo programma di una svolta è di riportare qui le intelligenze, fermare l’emorragia. Penso, ripeto, ad una task force di cacciatori di testa che dovrebbero fermare subito quelli che stanno per andare via e riportare qui le intelligenze che sono andate via».
È quello che si dovrebbe fare, dovremmo, dovreste…