Nuova Iskra

A proposito della stampa stabiese: l’avventura di Nuova Iskra periodico della gioventù comunista di Castellammare di Stabia.  1967 – 1972

articolo del dott. Raffaele Scala – Vedi link articolo originale

Come abbiamo avuto modo di scrivere recentemente, Castellammare di Stabia vanta un antica tradizione nel campo della carta stampata, risalente quantomeno all’indomani dell’Unità d’Italia. Anzi, a voler essere pignoli, ancor prima, se consideriamo che il suo primo giornale è del 1860 con, La luce del Popolo, giornale filogaribaldino diretto da Agatino Previtera. Il giornale, quattro pagine, nacque proprio sul finire di quella estate, sull’onda del trionfale ingresso a Napoli, il 7 settembre, di Giuseppe Garibaldi. Nessun protagonista del nostro Risorgimento, come l’Eroe dei Due Mondi, fu da subito tanto osannato quanto odiato e maledetto nel suo Paese e ancora oggi, cento e più anni dopo la sua morte, lo stesso sentimento sembra ancora serpeggiare tra i Settentrionali che lo accusano di aver consegnato al Nord una zavorra e dai Meridionali per avere cancellato dalle carte geografiche un loro Regno indipendente sia dal versante economico che politico.[1] Fatta l’Italia, ancora bisogna fare gli Italiani, avrebbe detto il grande e ormai dimenticato letterato torinese, Massimo D’Azeglio, a sua volta un eroe risorgimentale. Ma non è l’Italia, Garibaldi e il Regno di Napoli l’oggetto del  nostro argomento, quanto quello più modestamente di ricostruire le vicende di un giornale, forse un semplice periodico di provincia, ma per noi importante e che a suo modo rientra a pieno titolo nella storia culturale della Piccola Città.

Le origini del periodico di cui vogliamo trattare risalgono al 1967, esattamente a settembre di quell’anno, quando dalla piccola stanza  del Circolo dei giovani comunisti di Castellammare uscì un ciclostilato di 18 pagine, presto passato a 20, denominato, abbastanza pomposamente, Nuova Iskra, bollettino interno del Circolo Giovanile Comunista.[2]  Nato dall’ardore e dall’impegno di lotta dei nostri giovani anni.

Per onore della storia Nuova Iskra fu preceduto da un altro Bollettino Interno al Circolo della Fgci, Gioventù Democratica, pubblicato un anno prima, nell’aprile 1966, con il quale il giovanissimo Matteo Cosenza, appena diciottenne, fece il suo esordio come Direttore, dimostrando di sapere fin da subito quale sarebbe stato il suo futuro professionale. La redazione di Nuova Iskraera in via Marconi 72, la stessa sede, ovviamente, del Pci. Il primo numero del mensile, in 189 copie, era firmato dal suo fondatore, Matteo Cosenza, Segretario del locale circolo Fgci e da un anno eletto nella segreteria provinciale dei Giovani comunisti.[3] La restante redazione era composta da  Antonino Di Vuolo (futuro direttore della Biblioteca comunale), Carmine Longobardi, Franco Perez, studente universitario,  a sua volta Segretario del circolo Fgci  e futuro giornalista dell’organo nazionale del Pci, l’Unità. Il Bollettino era impreziosito da due poesie, la prima, (Piedi e mani) di Jean Séneac (1926 – 1973), poeta della libertà e dell’amore franco algerino morto assassinato da sconosciuti, rimasti tali e la seconda (Risoluzione della giovane Africa) del nigeriano, Dennis Osadebay (1926 – 1994).

Il secondo numero, uscito regolarmente in ottobre in 193 copie, si aprì con la notizia della morte di Ernesto Che Guevara (1928 – 1967) assassinato il 9 di quello stesso mese, a sangue freddo, dopo essere stato catturato in Bolivia, un comunista morto da rivoluzionario con le armi in pugno, recitava la copertina del Bollettino. E in suo ricordo riportò una lettera scritta dallo stesso rivoluzionario a Fidel Castro quando decise di lasciare Cuba per continuare la sua disperata lotta contro l’imperialismo. Alle firme già conosciute si aggiunse quella di Giuseppe Criscuolo, un giovane operaio, carpentiere in ferro dell’Italcantieri.

Gli argomenti affrontati, nel primo come nel secondo numero, erano le condizioni dei giovani operai stabiesi, la Rivoluzione d’Ottobre (interviste a diversi studenti), la guerra nel Vietnam. Non si discostò il terzo numero, arrivato a diffondere 228 copie, aprendo con una Tavola rotonda tra giovani operai dell’Italcantieri e dell’Avis, sui problemi della condizione dei giovani operai nelle fabbriche. Ancora una volta a dare un tocco d’internazionalità, non mancò la poesia di classe, stavolta di un  poeta del Congo, Martial Sinda (1935 – vivente), con la sua,  Silenzio, un bellissimo canto di libertà. Il quarto numero di dicembre si aprì con un lungo editoriale di Matteo Cosenza in cui riassumeva le cose fatte in quell’anno difficile, i complicati rapporti con le altre associazioni giovanili, chiudendo con  l’augurio di un 1968 di lotta.

arebbe troppo lungo entrare nel merito di ogni numero del Bollettino, entrato ben presto in crisi e ritornato, sempre ciclostilato a dicembre del 1968, che qui ricordiamo per l’esordio di un giovane destinato ad una lunga e brillante carriera politica, Salvatore Vozza, con il suo articolo: Disarmo della polizia. Partendo  dall’eccidio di Avola – due morti e diversi feriti –  e le conseguenti proteste che infiammarono le piazze d’Italia, il giovane Vozza vi intravide la fine di un governo instabile e fondato sulla menzogna, arrivando a presagire la fine del capitalismo. Castellammare non fu da meno delle altre cento città e  poco  importava se a scendere in piazza furono solo in trenta.  Il piccolo  corteo di giovani  si mosse il 6 dicembre come se fossero in trecento, protestando  contro l’ennesima strage delle forze dell’ordine dal grilletto facile,  lungo le strade cittadine. Un corteo silenzioso che diceva più delle parole. L’obiettivo era di arrivare sotto il Palazzo del Comune aspettando l’inizio del consiglio comunale provando a far approvare un ordine del giorno in cui si chiedeva il disarmo della polizia al grido di: I morti non aspettano.

 

Salvatore Vozza tornerà a scrivere  nel numero di gennaio 1969 con, Primo la fabbrica, in cui descrive le dure condizioni operaie. Tra gli altri vi è un articolo di Matteo Cosenza nel quale fa il resoconto dell’Assemblea Nazionale dei giovani comunisti che si era tenuta a Reggio Emilia,   della fase nuova in cui si era entrati, sulla consapevolezza dello scontro di classe in Italia rendendo attuale la costruzione del socialismo. Questo numero lo ricordiamo  perché, tra le altre  riporta la notizia della scomparsa di Luigi Di Martino e un avviso scritto a mano in cui lo stesso antico partigiano, sentendola vicina, anticipò di suo pugno il proprio annuncio mortuario.[4]  Qualche mese dopo a ricordare, ancora una volta la figura mitica di Luigi Di Martino, Nuova Iskra nel suo numero speciale di aprile, con trenta pagine, pubblicò una poesia di Catello Uvale, compagno di lotta e amico inseparabile del vecchio operaio della Navalmeccanica, poi sindacalista della Fiom ed infine Segretario della Lega dei pensionati della Cgil. Operaio della Navalmeccanica, delegato sindacale della Fiom, Uvale fu nel 1949  tra i promotori della fondazione del circolo Fgci stabiese e membro del primo Comitato costituente provinciale, infine Segretario della sezione Gramsci.[5]  Era il fratello di Attilio, partigiano fucilato dai nazisti il 5 agosto 1944 a Firenze. Nel 1962 lo ritroviamo consigliere comunale in compagnia della vecchia guardia comunista, tra cui lo stesso Di Martino, Pasquale Cecchi, Liberato De Filippo e Salvatore Cascone.

Qua e la nei vari numeri appaiono i nomi di altri periodici locali, quali la Vetta e la Medusa, (fatto di carta patinata e copertina costosa distribuito gratuitamente ad ogni studente), sui quali non ci soffermiamo avendone già scritto nel citato, La stampa periodica a Castellammare, polemiche con esponenti giovanili di altri partiti, tavole rotonde sui vari argomenti di interesse locale e questioni nazionali e internazionali. E non poteva mancare la pubblicazione a puntate di Lettera ad una professoressa, di don Lorenzo Milani e dei suoi allievi di Bibbiano, piccolo comune di Reggio Emilia, un libro del 1967 che a suo tempo fece scalpore mettendo in luce le troppe contraddizioni della scuola, poi esplose con le lotte studentesche del 1968/69.

Il numero di aprile 1969 fu l’ultimo ciclostilato della serie. Dopo tre anni il Bollettino lasciava il passo ad un vero e proprio giornale, trasformandosi in Periodico di battaglia politica e culturale. Entrava nelle edicole, quale numero unico, l’11 maggio al costo di cento lire ed esordiva con una intervista al Segretario della Camera del Lavoro, Eustachio  Massa sulla necessità dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, poi diventato legge il 20 maggio 1970. La redazione era praticamente la stessa del vecchio ciclostilato, Carmine Longobardi e Franco Perez,  cui si aggiungevano Alfonso Selleri e Salvatore Vozza. Direttore Responsabile era Sergio Gallo, giornalista dell’Unità. Fin da subito il giornale affronterà temi, destinati a diventare veri e propri cavalli di battaglia del periodico, dalla politica urbanistica all’inquinamento del mare, una problematica già allora fortemente sentita, dal  dramma delle Terme Stabiane e del turismo, allo stato penoso della nostra archeologia, dal disastro della scuola alla, naturalmente,  condizione operaia, lo stato delle fabbriche, l’uso e abuso del denaro pubblico, non solo da parte dell’amministrazione comunale stabiese ma anche dei comuni vicinori, a partire da Gragnano feudo indiscusso di Ciccio Patriarca, fedelissimo della potente famiglia Gava. Ovviamente obiettivo principale era la Democrazia Cristiana, l’elefante bianco che dominava la scena politica locale, regionale e nazionale.

Il giornale ospitava spesso articoli di Salvatore Aiello, segretario della Commissione Interna della Navalmeccanica, candidato nelle liste del Pci nelle elezioni politiche del 1968, riscuotendo ottimi consensi con oltre 15mila preferenze;  di Liberato De Filippo, figura di primo piano della sinistra stabiese avendo ricoperto numerosi ruoli, da  Segretario della sezione locale del Pci a Segretario della Camera del Lavoro, da consigliere provinciale a terzo e ultimo sindaco comunista di Castellammare; di Luigi D’Auria, consigliere comunale e funzionario dell’Inca Cgil, battagliero e polemico militante del Pci fin dai primi anni ’40 e di Eustachio Massa. Non mancavano, alternandosi tra loro, le firme e le interviste dei vari  esponenti della società civile cittadina e di un misterioso, Fortegamba.[6]

Famosa rimane la campagna contro il fabbricato realizzato all’incrocio di Viale Europa con via Cosenza, costruito in violazione del piano di fabbricazione. Assessore ai lavori pubblici era Roberto Gava e sindaco Francesco Saverio D’Orsi, uno dei bersagli favoriti del giornale.[7] Le amministrazioni D’Orsi si sono rivelate le peggiori iatture e calamità che si siano mai abbattute sulla nostra cittadina, denunciava il consigliere comunale comunista, Giuseppe Ricolo. Recentemente a ricordare le nefandezze democristiane di quel periodo è stato un bel articolo di Enrico Fiore sul Corriere del Mezzogiorno. Forse non casualmente, Fiore fece il suo esordio giornalistico proprio sulle pagine di Nuova Iskra.[8]

Il periodico comunista tornava sull’argomento nel suo successivo numero, uscito il 10 gennaio 1970 attaccando il ministro di Grazia e Giustizia, Silvio Gava, che in un dibattito parlamentare sulla legge dei fitti aveva dichiarato  che in una fase eclatante di scandali edilizi solo a Castellammare non erano state commesse irregolarità. Nell’articolo venivano ricostruiti i vari saccheggi edilizi, la cementificazione selvaggia operante nei vari comuni del circondario, tutti a guida democristiana, di come suo figlio, Antonio, Presidente della provincia era stato condannato e sospeso per un anno dagli incarichi pubblici, fino ad entrare nel merito della speculazione edilizia in atto nella città stabiese.[9]

Di notevole interesse per quanti interessati a capire chi fu Pier Paolo Pasolini è l’articolo apparso il 12 marzo 1970 dove si fa il punto di un incontro dibattito del precedente 9 febb[10]raio tenutosi al Supercinema con la presenza della deputata Maria Antonietta Macciocchi, comunista all’epoca non ancora pentita, ma ancora più interessante la lettera al giornale di Francesco Rega in cui criticava la moderatrice e lo stesso scrittore per le sue contraddittorie posizioni sui vari temi –  sottoscrive petizioni a favore del Vietnam ma cena con Onassis dimenticando che costui figura tra i principali finanziatori di tutti i regimi fascisti e reazionari della terra e in primo luogo di quello che imperversa nel suo paese, la Grecia –  e la risposta di Matteo Cosenza con la quale concordava in alcuni punti con il lettore sulla strana  interpretazione del  marxismo da parte di Pasolini. Infatti lo scrittore pur dichiarandosi  marxista affermava di non conoscere la classe operaia ma solo i contadini ed i sottoproletari.[11]

Con il titolo, Vergogna D.C., Matteo Cosenza attaccò frontalmente l’amministrazione democristiana, comunale e provinciale e la stessa Capitaneria di Porto per il modo in cui venivano praticamente cancellate le spiagge libere di Pozzano distribuendole tra i vari gestori che ne avevano fatto richiesta, alcune già presenti da diversi anni. La richiesta di spostarsi dal centro cittadino da parte dei diversi gestori nasceva dal divieto di balneazione del lungomare Garibaldi per l’accertato grave inquinamento del mare che costeggiava la villa comunale. In particolare sotto accusa era il rinnovo della concessione stagionale al Bagno Limpida scaduta l’anno precedente a seguito della morte dell’intestataria, la vedova Venosa.[12]  L’accusa era di concedere alla famiglia Venosa un tratto di costa nei pressi della Corderia della marina  Militare sul quale insisteva una delibera provinciale del 1965 con la quale si decideva di poter utilizzare l’area in concessione al solo scopo di allargare la rotonda ma col divieto di usare la zona anche temporaneamente per stabilimento balneare.

Il numero del 30 ottobre 1970 si aprì con un violento attacco a Vittorio Vanacore, Presidente dell’ospedale San Leonardo. Ancora una volta fu Matteo Cosenza a firmare il pesante articolo, ricostruendo la rapida carriera del personaggio, fin da quando vinse nel 1959 un premio di giornalismo assegnato dal locale Circolo Artistico per saggi ed articoli che trattassero di Castellammare. L’articolo del Vanacore, poi pubblicato sul quotidiano napoletano, Il Mattino, intitolato, Castellammare, regina delle acque, era in realtà copiato, perfino nella punteggiatura,  da un servizio pubblicato nel 1934 su di un numero unico intitolato, Quisisana.[13]  Non entriamo nel merito, chi vorrà potrà rifarsi leggendo per intero l’articolo, molto istruttivo su come sia possibile fare carriera, ieri come oggi e forse, purtroppo, come sempre, senza avere titoli, capacità ed esperienza se non quella di avere il giusto santo protettore. Nel caso di Vanacore aver sposato una donzella della famiglia Amato. Ricordiamo, per inciso, che nel 1992, Vittorio Vanacore rimase travolto dallo scandalo dell’ASL 35, ponendo fine ad un trentennio di dominio assoluto della sanità stabiese, all’indomani dell’omicidio del consigliere comunale Sebastiano Corrado da parte della camorra, scoperchiando un vaso di pandora di tangenti, appalti pilotati, prezzi gonfiati e assunzioni, provocando 54 arresti tra sindacalisti, consiglieri comunali, ex parlamentari, imprenditori senza scrupoli e dipendenti della stessa Asl.

Nello stesso numero interessante è anche l’inchiesta a firma di Franco Perez  sul turismo, giunta alla sua seconda puntata, accompagnata da una altrettanto bella lettera di Francesco Rega, con alcuni interessanti spunti destinati a rimanere tali per l’inerzia, l’incapacità della classe dirigente locale contenta di vivere dei piccoli privilegi del  sottogoverno clientelare politico – economico che domina la Piccola Città dei Gava.

Fedele al suo compito di giornale d’inchiesta, Nuova Iskra aprì il suo numero del 3 marzo 1972 sulla gestione dell’Albergo delle Terme costato alla collettività un miliardo e trecento milioni e affidato dalla EAGAT, l’ente nato per la gestione unica delle terme comunali e del nuovo complesso sul Monte Solaro,  al sorrentino Antonino Acampora per 27 milioni rifiutando offerte molto più vantaggiose, tra cui quella di Enzo Di Maio, proprietario del noto ristorante, Ciccio di Pozzano, pronto ad offrire 35 milioni di lire per la gestione dell’albergo. L’articolo, firmato da Catello Chiacchio, si dilunga sulle ragioni clientelari che avevano indotto L’ente ad affidare all’Acampora l’albergo, in particolare l’amicizia con la famiglia Gava.[14]

La vicenda dell’albergo trovò posto perfino nelle aule del parlamento con una interrogazione del senatore, Carlo Fermariello al Ministro, Flaminio Piccoli, di cui riportiamo il testo:

Al Ministro delle Partecipazioni Statali per sapere le ragioni per le quali l’Albergo delle Terme di Castellammare di Stabia, recentemente costruito sul suolo della SINT, il cui costo ammonta a un miliardo e trecento milioni di lire stanziate dalla Cassa del Mezzogiorno, sia stato ceduto in gestione ad un privato e se tale scelta non sia in contrasto col necessario carattere sociale del termalismo che richiede un rapporto diretto nell’arco dell’intero anno, tra cura termale e posti letto e non l’uso, a livelli elitario di una importante struttura alberghiera.

Ancora più duro e circostanziato l’interrogazione del deputato Luigi D’Angelo, splendida figura di operaio riuscito a entrare nelle aule del parlamento, di quando ancora vi era un partito che li rappresentava.[15] Nello stesso numero si affrontava la crisi della Calce e Cementi, anch’essa destinataria di varie, inutili, interrogazioni parlamentari, destinata ben presto alla chiusura, il grave inquinamento con la distruzione della fauna e flora marina della costa stabiese e un interessante, attualissimo articolo di Alfonso Di Maio sul Piano regolatore,  in cui dimostra come già allora era in atto un piano speculativo sull’area Cirio per far posto alla creazione di un nuovo centro direzionale, previo arretramento della stazione ferroviaria. Un progetto che tornerà spesso negli anni a venire, dal cosiddetto Occhio del mare dei primi anni ’90 fino al recente scandalo dell’area Cirio del maggio 2020, con denunce e  arresti di imprenditori e politici locali e regionali, alcuni in odore di camorra.

Per chiudere vogliamo ricordare che Nuova Iskra meritò di essere citata perfino da Fortebraccio, mitico, indimenticabile corsivista del giornale comunista, l’Unità, nel suo numero domenicale del 5 marzo 1972. Lo fece a seguito della pubblicazione, da parte del periodico stabiese, dei tassati per l’imposta di famiglia 1972 e da questo elenco si evinse che Silvio Gava pagava appena 10.764 lire annue su un imponibile di 320mila lire. La notizia, apparsa sul numero del 5 febbraio, fece talmente scalpore e scandalo che l’Unità e lo stesso Fortebraccio furono sommersi da lettere di sdegnata protesta, inducendo il famoso corsivista comunista ed ex democristiano, a scrivere  con la sua solita, proverbiale micidiale, sottile ironia, un velenoso divertentissimo corsivo.[16]

In realtà Nuova Iskra già nel numero del 12 marzo 1970 denunciava di evasione fiscale l’intera famiglia Gava mettendo a confronto il reddito dichiarato con il tenore di vita sostenuto:

Al professor Antonio Gava vorremmo chiedere come riesce con il suo reddito definito (5.445.050) ad avere una casa a Castellammare, una villa a Vico Equense, una casa a Posillipo, uno yacht a mare con un equipaggio di due uomini a fare crociere nel Mediterraneo per cacciare le balene, a fare la villeggiatura invernale a Cortina ecc., e ad avere anche i soldi per pagare le imposte? La seconda domanda la vorremmo rivolgere al senatore Silvio Gava. Non le sembra onorevole ministro, una ingiustizia (senza alcun riferimento al dicastero da lei retto) che lei paghi al comune di Castellammare lire 10.764 di imposta di famiglia?

La nostra ricostruzione sulla vita, non effimera, ma soprattutto non inutile, di Nuova Iskra si chiude qui. Il giornale lascerà spazio a una nuova iniziativa editoriale, dando corpo ad un nuovo periodico, Cronaca della Zona, poi Cronache che, a fasi alterne, uscirà fino a tutti gli anni Ottanta. Non sappiamo i motivi che  portarono alla sua chiusura, di sicuro ancora per qualche tempo Matteo Cosenza continuò a guidare anche il nuovo giornale, nonostante la sua  elezione a consigliere comunale nella tornata amministrativa del 26 novembre 1972, arrivando a ricoprire la carica di assessore all’urbanistica nella Giunta di sinistra guidata dal socialista, Antonio Capasso, ruolo mantenuto con la successiva amministrazione presieduta da Liberato de Filippo, l’ultimo sindaco comunista di Castellammare di Stabia nell’ormai lontano 1976.[17] Successivamente, da giugno 1973 iniziò a lavorare con  un nuovo, importante quindicinale, a tiratura regionale La Voce della Campania, di cui assumerà la direzione nei primi mesi del 1977. La nuova rivista  era nata su iniziativa di un gruppo di giornalisti democratici, esponenti politici e uomini di cultura che diedero vita ad una cooperativa editoriale.[18] Nel 1979 lascerà la direzione del quattordicinale a Michele Santoro.

Cronache sarà una fucina formidabile per una nuova leva di giornalisti stabiesi, tutti destinati a fama nazionale. Ne ricordiamo alcuni, da Luigi Vicinanza, a Antonio Polito, fino a Vittorio Ragone. Di questo abbiamo già scritto nel precedente lavoro già  ricordato. Chi scrive prova ancora un pizzico di nostalgia per  quel combattivo, propositivo  giornale. Sarà perché mi ricorda la lontana e perduta giovinezza, nostalgia di un passato lontano, ma forse, probabilmente, è solo nostalgia per la mancanza di un giornale capace di coniugare le idee di cui era portatore con l’inchiesta giornalistica senza peli sulla lingua.


Note:

[1]Cfr. Raffaele Scala: La stampa periodica a Castellammare di Stabia, pubblicato su Libero Ricercatore il 3 febbraio 2020 e su  Nuovo Monitore Napoletano del 17 febbraio 2020. Una copia, malridotta, de Luce del Popolo, è reperibile presso la Biblioteca Nazionale di Napoli

[2]Iskra dal russo Scintilla, fu un giornale socialdemocratico russo fondato da Lenin, il cui primo numero uscì il 24 dicembre 1900, quale organo del Partito Operaio Socialdemocratico Russo. Cfr. Wikipedia, ad vocem per un attacco

[3]Cfr. Unità, 20 luglio 1966: La nuova segreteria della Fgci. La segreteria era composta da Giuseppe D’Alò, Giuseppe Burgani, Antonio Cardelicchio, Ciro Corsaro, Matteo Cosenza, Antonio Miralto e Antonio Pinto.

Matteo Cosenza, figlio di Saul Cosenza, è nato a Castellammare di Stabia il 25 marzo 1949 e si iscrisse, ancora ragazzo, al circolo locale della Fgci nel 1964. Nel 1972, ancora studente, sarà candidato alla Provincia nel collegio di Castellammare-Sant’Antonio Abate ed eletto con 10.868 preferenze, superato unicamente dal candidato democristiano Francesco D’Orsi con 11.301 voti. Tra i  concorrenti ricordiamo il missino Giuseppe Abbate, il socialista Flavio Di Martino, il socialista unitario, Sebastiano Mariconda e il repubblicano, dirigente industriale, Ugo Sbrana. È stato membro della segreteria provinciale napoletana della Fgci e del Comitato regionale campano del Pci.

[4]Nuova Iskra, anno III,  n. 1 gennaio 1969: Avviso. Il giorno….alle ore…..è deceduto il Compagno Di Martino Luigi, riaffermando la propria fede nel Comunismo. Esso trionferà in Italia e nel mondo. Egli offre i suoi occhi e il suo cuore agli infermi per cui possano giovarsi. Le esequie avranno luogo il giorno…alle ore…partendo dalla casa dell’estinto. Firmato Luigi Di Martino.

[5]La prima formazione giovanile comunista si formò a Castellammare nei primi giorni di novembre del 1944 intitolando il circolo a Giorgio Solà con sede in via Roma 30. La presidenza fu assunta dallo studente Sebastiano Mariconda. Un mese prima, in ottobre, si era costituito un Comitato Giovanile aderente al Fronte della Gioventù composto da liberali, democratici del lavoro, cristiano sociali e comunisti. Ebbe vita brevissima.  Prima della Fgci, nei primi giorni di ottobre 1946 a Castellammare si era ricostituito un nuovo Fronte della Gioventù con l’adesione di oltre 150 giovani. Al movimento aderirono le masse operaie giovanili dei Cmi, della Navalmeccanica, della Calce e cementi e di altre industrie minori. In mancanza di locali adeguati occuparono provvisoriamente due stanze della sede ex GIL aprendo un contenzioso con un Ente di beneficenza cui erano destinati i locali. Cfr. ASN, Associazioni, Ufficio P.S. Castellammare di Stabia 9 ottobre 1946

La FGCI fu ricostituita a livello nazionale nel 1949 e primo Segretario Generale dell’organizzazione giovanile fu Enrico Berlinguer.

[6]Da una conversazione con Matteo Cosenza ho poi saputo che il misterioso Fortegamba altro non era che un giovane Alfonso Di Maio, consigliere comunale dal 1962 e  per diverse consiliature, poi consigliere provinciale e regionale. Docente universitario presso la Facoltà di lettere e Filosofia di Napoli,  Di Maio, già consigliere comunale a Gragnano, di cui è originario,  era stato nel 1964 uno dei fondatori del Psiup a Castellammare di Stabia,  passando successivamente, con lo scioglimento del Psiup,  nelle fila del Pci.

[7]Cfr. Nuova Iskra, anno I, n. 5, 29 novembre 1969: Sensazionale. Scandalo a Stabia; prima denunzia, articolo non firmato. Nello stesso giornale un articolo di Matteo Cosenza: I disegni sono ancora più criminosi, in cui affronta più complessivamente lo scandalo di un Piano regolatore che puntava tutto sulla scelta turistica e favorendo la  speculazione edilizia privata.

[8]Corriere del Mezzogiorno, inserto del Corriere della Sera, 18 giugno 2020: Città di mare con Gava, articolo di Enrico Fiore.

[9]Cfr. Nuova Iskra, anno II, 10 gennaio 1970: I nodi vengono al pettine per la speculazione edilizia a Castellammare di Stabia, articolo non firmato.

[10]Cfr. la biografia di Raffaele Scala: Liberato De Filippo, l’ultimo sindaco comunista di Castellammare di Stabia, pubblicato su www.liberoricercatore.it  il 9 agosto 2018.

[11]Cfr. Nuova Iskra, anno II, n 7, 12 marzo 1970: Pier paolo Pasolini, articolo di Antonino Di Vuolo  e Le contraddizioni di Pasolini, lettera di Francesco Rega e risposta di Matteo Cosenza.

[12]Cfr. Nuova Iskra, anno II, n. 8, 22 maggio 1970: Vergogna Dc, articolo di Matteo Cosenza, da quel numero anche direttore  del giornale, mentre la responsabilità era sempre in capo a Sergio Gallo.

[13]Cfr. Nuova Iskra, anno II, n. 11, 30 ottobre 1970: La dinastia degli Amato, articolo firmato da Matteo Cosenza.

[14]Cfr. Nuova Iskra, anno IV, n. 14, 3 marzo 1972: Albergo delle Terme. Il torbido è venuto a galla, articolo di Catello Chiacchio.

[15]Camera dei deputati, Atti Parlamentari, Discussioni, Seduta  del 4 luglio 1972 di Luigi D’Angelo: Ai Ministri delle partecipazioni statali e del lavoro e previdenza sociale.

[16]L’Unità, 5 marzo 1972: Oggi risponde Fortebraccio. Sottoscrizione. Cfr. anche l’Unità del 15 febbraio 1972, il corsivo dedicato alla presunta povertà, dichiarata dallo stesso Antonio Gava: Suo malgrado, ed infine l’Unità del 2 aprile 1972: I francobolli, in cui Fortebraccio da conto di una vera e propria sottoscrizione a favore della povertà dichiarata dai Gava. Somma raccolta, 3.405 lire!

Sulla dinastia Gava da leggere un impressionate articolo reportage di Maria Antonietta Macciocchi pubbblicato sull’Unità il 14 maggio 1968: Nelle banche di mezza Europa la fortuna della dinastia Gava.

Fortebraccia era lo pseudonimo di Mario Melloni con il quale firmava i suo corsivi su l’Unità. Nato a San Giorgio di Piano (BO) nel 1902, fu antifascista e partigiano, militando nelle fila cattoliche. Dopo la Liberazione si iscriverà alla Democrazia Cristiana, diventando giornalista del quotidiano, Il Popolo. Eletto deputato nel 1948 e nel 1953, fu espulso dal partito a seguito del suo voto contrario all’adesione dell’Italia all’Unione Europea Occidentale (UEO) perché quell’adesione avrebbe permesso il riarmo della Germania. Aderì al Partito comunista nelle cui fila fu eletto nuovamente deputato. Inizierà a scrivere il 12 dicembre 1967 con lo pseudonimo di Fortebraccio fino al 1982 un corsivo al giorno, escluso il lunedì. Scomparirà il 29 giugno 1989.

[17]Cfr. di Raffaele Scala: Liberato De Filippo, l’ultimo sindaco comunista, pubblicato su Libero Ricercatore il 9 agosto 2018 e su Nuovo Monitore Napoletano il 3 ottobre 2018.

[18]Cfr. l’Unità, 2 giugno 1973: Intercettazioni anche a Napoli. Filo diretto fra Questura e Sip, articolo di Eleonora Puntillo.

Cosenza, la vita è impegno tra politica e giornalismo

di UGO CUNDARI

Impegno politico e giornalismo, sempre con la schiena diritta, sono le colonne sulle quali regge il racconto autobiografico “Casomai avessi dimenticato” (Rogiosi. pagine 212. curo 16) dello stabiese Matteo Cosenza, con illustrazione di copertina realizzata da Riccardo Marassi. Si inizia con i ricordi di tanti uomini della sinistra, che allora voleva dire soprattutto Pci: Mario Palermo, «uno dei più pregiati fiori all’occhiello del partito che a Napoli vantava entrature di prim’ordine nella borghesia colta e operosa», Maurizio Valenzi. Giorgio Napolitano, Guido De Mardno, Gerardo Chiaromonte, Antonio Bassolino, con molte pagine dedicate al giornalista Ruggero Zangrandi «venditore di verità ingrate, e la verità più grande l’ha raccontata sul carattere degli italiani, il camaleontismo». Cosenza da giovane lavorava in fabbrica a Torino. «per fare l’esperienza di tanti compagni, con il rischio di finire schiacciato da un sacco di cinquanta chili e i capi che ti chiamano meridionale di merda». Negli anni 70 scoppia il fuoco sacro della passione del giornalisrmo, a vent’anni lavora alla «Voce della Campania». Qui, tra i tanti giovani che faranno carriera, c’è anche Giuseppe D’Avanzo, già allora autore di inchieste sui poteri forti come il Banco di Napoli di Ventriglia. L’obiettivo della testata è di scovare una «identità di comunità» di una regione come la Campania, entità fumosa, indefinibile. Questo è uno dei passaggi più significativi del libro. L’Identità di comunità che cerca Cosenza è anche quella di Napoli e del Sud, sulla scia delle ricerche sul Meridione di Gramsci vero nume tutelare dell’autore, insieme al padre, il compagno Saul. La «Voce della Campania» lancia una serie di progetti inediti, come i 30 fascicoli sulla storia della Regione da allegare al giornale, poi un’analoga iniziativa sulla geografia della Campania, infine 44 fascicoli per dare valore al suo «patrimonio custodito e sedimentato nel tempo». Nel ’79 Cosenza passa alla redazione napoletana di «Paese sera», le riunioni politiche si fanno più accese, la sua voce spesso fuori dal coro lo espone a diversi attacchi di chi, nel partito, vorrebbe posizioni più malleabili. Arriva il declassamento all’edizione pomeridiana per due anni, poi «l’espiazione ha fine» e Cosenza diventa capo dell’edizione napoletana del giornale. Qualche anno e passa a «Il Mattino», dove lavora per sedici anni come inviato e capo della redazione di Salemo, della Grande Napoli e degli Interni: l’impegno più importante, il giornale più importante della sua caniera» le redazioni più numerose da guidare allo scoop. Poi la direzione de «Il Quotidlano della Calabria», poi… un libro per ricordare quanto fatto e quanto scritto Casomai avessi dimenticato. Recensione pubblicato su “Il Mattino” il 22 luglio 2020

Politica e giornali il viaggio autobiografico di Matteo Cosenza

di ANTONIO FERRARA

Non è un saggio né un romanzo. Con “Casomai avessi dimenticato” (Rogiosi editore, 200 pagine, 16 euro) Matteo Cosenza manda in stampa un’autobiografia storicizzata, nella quale protagonisti e vicende politiche tra Castellammare di Stabia Napoli e la Calabria vengono letti attraverso l’attività politica e professionale dell’autore, dagli esordi da giovanissimo attivista della Fgci all’esperienza di asse soie all’urbanistica nella sua città e poi di consigliere provinciale di Napoli fino alla scelta del giornalismo. 

L’autore ha diretto il quindicinale “La voce della Campania”, la redazione napoletana di “Paese Sera”, ha lavorato per 16 anni al “Mattino” e dal 2006 al 2014 ha guidato “Il Quotidiano della Calabria”, oggi scrive per il “Corriere dei Mezzogiorno”. 

Questo attraversamento umano e professionale che dagli anni Sessanta del ginnasio giunge fino all’esperienza calabrese è scandito da scambi epistolari, ricordi e annota zioni che Cosenza ricostruisce attraverso quelle “”carte che hanno affollato una vita. Ogni frase, ogni riga – scrive – contiene una storia, un incontro, un fatto, delle persone”. Attingendo a questa vasta raccolta di documenti che il politico-cronista Cosenza ha archiviato per decenni, ecco prendere forma episodi e vicende che inquadrano il secondo Novecento.

Sullo sfondo il rapporto complesso con il Pci e con una generazione di dirigenti politici che dal padre Saul (operaio e dirigente comunista) fino a Napolitano, Valenzi, Berlinguer e altri hanno incrociato la sua vita. Alcuni di questi non furono facili, come quelli con Napolitano, segretario della Federazione napoletana che lo rimprovera (siamo nel 1965, Cosenza ha l6 anni) per aver organizzalo come Fgci a Castellammare una conferenza di Ruggero Zangrandi. antifascista che aveva dedicato libri di inchiesta sulla fuga dei Savoia e la mancata difesa di Roma dopo il 1943, ma era inviso a Mario Palermo e agli intellettuali comunisti per le sue posizioni critiche sulla pacificazione post-bellica in Italia. Sin da subito Cosenza non nasconde la consapevolezza della sua indole fortemente indipendente che lo porterà a una convivenza non facile con il partito comunista, manche con i genitori e la sua città. La sua passione per la parola Letta e scritta (che è alla base della sua attenzione per l’archiviazione di documenti) verrà incanalata nel giornalismo. 

Ecco i primi giornali ciclostilati, come “Nuova Iskra”, poi il periodico stabiese “Cronache”, infine il salto a Napoli con “La Voce della Campania”, dove incrocia tanti giovani, compreso Giuseppe D’Avanzo, che Cosenza portò con sé a “Paese Sera”, dove entrò nel 1979. Due anni prima, Co-senza aveva rinunciato a trasferirsi a Milano dove aveva avuto un colloquio con Michele Tito, vicedirettore del “Corriere della Sera”, dalle comuni origini stabiesi. Nelle pagine del libro scorrono questo e tanti altri episodi e personaggi, da Pier Paolo Pasolini a Francesco De Martino, da Giorgio Amendola a Giacomo Mancini, da Gerardo Chiaromonte ad Antono Gava, da Giancarlo Siani a Mimmo Maresca.

Recensione pubblicata su Repubblica il 13 luglio 2020

La meglio gioventù di via Cervantes

di MARCELLA CIARNELLI

Fare il giornalista è bello. Fare politica lo è altrettanto. Se nella vita ti capita o, meglio, riesci a fare tutt’e due mettendo l’impegno delle parole al servizio della militanza e viceversa, non c’è che dire, ti è andata bene. Ed hai un sacco di fatti, persone, delusioni, avventure, gioie da raccontare.

Lo ha fatto questo percorso, la cronaca di un bel pezzo di vita, un giornalista di rango con un passato intenso da politico, anche se non si smette mai di essere né giornalista né politico. Matteo Cosenza, classe 1949, che da Castellammare di Stabia dov’è nato ha compiuto il suo percorso prima nella sua città, poi a Napoli e poi in Calabria. E lo racconta nel libro “Casomai avessi dimenticato” edito da Narratori Rogiosi, che è un condensato di ricordi personali e vicende politiche dagli anni ’60 a venire in avanti.

Nelle quasi duecento pagine scorrono le vicende del ragazzo Matteo all’ombra del grande (in tutti i sensi) padre, il compagno Saul, l’operaio con la mente politica, cui il discolo di casa riservò tante preoccupazioni ma altrettante soddisfazioni. L’impegno dell’uomo Matteo militante e gran professionista. Ma anche la storia, col Vesuvio come quinta, di un partito, il Pci, dei suoi dirigenti, molti figure di spicco nel panorama nazionale. Da Giorgio Napolitano a Gerardo Chiaromonte, da Maurizio Valenzi ad Andrea Geremicca e Antonio Bassolino. Si incontrano in quelle pagine anche i socialisti Francesco De Martino e Giacomo Mancini. E anche Antonio Gava, un nemico di quelli in grado però di riconoscere le capacità dell’avversario politico.

Il viaggio di Matteo Cosenza è partito da un fatto pratico. La necessità di fare spazio. Di liberarsi (per affrontare più leggero un trasloco) di gran parte delle carte, appunti, lettere, biglietti, accumulati fin qui, praticamente una vita. È un fatto strano che un giornalista conservi in un modo così accurato le tracce della sua professione. Ma a volte capita. In questo caso si può dire fortunatamente, dato che sono sopravvissute con i libri di casa all’assalto delle termiti.

Cosenza ha fatto diversamente dai più, e ora chi vuole si ritrova a leggere e a ammirare, ispirati da “tutte le carte della mia vita”, tredici affreschi di vita, evocati con l’acuta penna del cronista ma anche con il cuore di chi ha creduto nelle sue battaglie. In sintonia, ma a volte anche no, con quelle del Pci, un partito destinato a restare per sempre dentro chi ne è stato militante.  È lì, magari in un angolino, confuso tra mille cambiamenti. Ma c’è.

Quella che Matteo racconta è la storia di un ragazzo avventuroso, anche ribelle, capace di andare a scoprire tra grandi difficoltà la Torino del nord operaio, per poi tornare al suo sud e dare sfogo all’ autentica passione per il giornalismo. Per la carta fondamentalmente, vale lo stesso per i libri, anche se le tecnologie alla fine hanno piegato lui e quanti di noi sono stati molto resistenti a cedere ad esse. Impaginare, sfogliare, la tipografia…

Da “Gioventù democratica”, il primo giornalino in ciclostile fino al “Quotidiano della Calabria”. Passando per “La voce della Campania”, “Paese sera” e “Il Mattino”. Una lunga carriera, anche con incarichi di direttore, per avere ora l’impegno di editorialista del “Corriere del Mezzogiorno”.

Sono affascinanti i racconti di Matteo. Ci sono i tempi della Napoli conquistata dalla sinistra, un evento impensabile solo pochi anni prima. Il gusto dell’individuare l’essenza dei personaggi attraverso quanto è meno pubblico, le loro case, guardando con loro i panorami che sono stati compagni di vita e di pensieri mai resi pubblici. Ci sono le dispute giornalistiche. I confronti politici con i compagni di un’avventura indimenticabile. L’essenza dell’essere giornalista e comunista, di cui c’è testimonianza in un breve carteggio con Enrico Berlinguer.

Ci sono curiosità e testimonianze. Il ricordo di chi non ce l’ha fatta, come Mimmo Maresca, e si è lasciato andare lasciando come eredità ai sopravvissuti la sensazione di non aver compreso una richiesta di aiuto. L’indignazione per la morte violenta, l’omicidio vigliacco di Giancarlo Siani, giovane precario ma già giornalista di grande coraggio e spessore.

Dal mio punto di vista sono le persone, i colleghi che l’autore cita nelle pagine del libro a suscitare il più affettuoso interesse e tanti ricordi. Via Cervantes 55 è stato il recapito di un sogno per più di una generazione di giornalisti napoletani. Noi stavamo all’Unità, altri alla Voce, poco distante Paese Sera. L’elenco è lungo, l’autore ne ricorda tanti. Antonio Polito e Gigi Vicinanza, i ragazzi di Castellammare scesi in campo poco prima della generazione dei Ragone. Eleonora Puntillo, Sergio Gallo, Ennio Simeone, i maestri. Franco Barbagallo l’avamposto dei professori, Fulvio Milone, Enzo d’Errico, l’indimenticabile Peppe D’Avanzo. Com’è stato bello ritrovarli assieme a tutti gli altri. Assieme ai politici con cui abbiamo condiviso l’appartenenza e la passione. Grazie Matteo.

Recensione pubblicata su Foglieviaggi il 25 settembre 2020

Il giornalista e la memoria

di VLADIMIRO BOTTONE

Sono nato in una famiglia della piccola borghesia impiegatizia, abitavo nella Napoli vecchia e bassa. Ebbi diretta cognizione della classe operaia al secondo anno di liceo. I miei amici di militanza ed io eravamo stati un po’ malandrini. Un plotone di metallurgici si recò dall’Italsider a piazza del Gesù, per presenziare e presidiare. Nonostante l’elettricità palpabile, non mi dispiacevano quelle figure in tuta ed elmetto che brandivano massicci strumenti da lavoro. Non avevano il gusto masaniellesco di eliminare gli avversari in un irrazionale, isterico furore da linciaggio. La classe operaia non faceva giustizia sommaria; casomai si garantiva l’agibilità politica con la fisicità di quei corpulenti lavoratori. Era gente che si guadagnava il pane, sostentava la famiglia e attingeva alla passione ideale per menare, se co-stretta, le mani. Rispetto senza subordinate, da parte mia Altre volte, in quegli anni, ho sfiorato la classe operaia. Sui treni della Circumvesuviana, nella tratta da Sorrento, dove villeggiavo, a Napoli. Erano adulti vestiti con dignità e, spesso, con la testata dell’Unità dispiegata davanti al volto. Frugali, con un velo di maturità precoce, altre volte discutevano e scherzavano fra loro, sempre senza passare i limiti (niente da spartire con il plebeismo del lumpenproletariat anarcoide che vivacizza le serate a piazzetta Bellini). Scendevano tutti a Castellammare, quegli operai. Addetti presso una cantieristica parte integrante dell’Italia manifatturiera, oltreché di quell’industrializzazione del Mezzogiorno predestinata ad affrontare il mare procelloso fra Maastricht e il Wto, Scilla e Cariddi. I cantieri navali stabiesi, si diceva. Con quel peculiare skyline di scafi, carroponte, bracci di gru che incornicia i primi capitoli di questo autobiografico Casomai avessi dimenticato (Rogiosi editore).

Lo firma Matteo Cosenza: giornalista stabiese di lungo corso, affabulatore fluidissimo ed uomo di strenua fedeltà alla dimensione della Politica vista come progettazione e cantiere – appunto! – della vita associata. Casomai avessi dimenticato è un titolo eloquente. Lo scritto che introduce, difatti, sorge per intero dalla memoria. La memoria di un giovanissimo militante del Pci che, grazie al padre, respira in famiglia la politica e la metterà in pratica soprattutto nelle redazioni di quotidiani e periodici. L’Unità e Paese Sera nell’edizione napoletana, La Voce della Campania, Il Mattino. Un viaggio attraverso la carta stampata – e, prima, ciclostilata — che prende spunto narrativo dal riordino di un archivio privato, stratificatosi in mezzo secolo. La carta, ancora: il supporto da cui tutt’oggi, nelle prime stesure di un testo, Cosenza non riesce a prescindere. In questo limite-virtù si racchiude il mio e il suo non essere dei nativi digitali. Il che implica privilegiare la materialità sul virtuale, il pensiero di lunga durata sulla volatilità, la consistenza sulla liquidità. Tutte caratteristiche, le prime, che tradotte in chiave politica rimandano alla forma-Partito e, trasposte in chiave sociologica, rinviano alla nozione di Classe. Cosicché la biografia esistenziale ed intellettuale di Matteo Cosenza può, a mio avviso, venire allineata su questa concatenazione: Classe-Partito-Progetto politico. Alla Classe e alla sua moralità si riagganciano i capitoli sugli anni di formazione stabiesi fra sezione, comizi, piccole avventurose pubblicazioni capaci di richiamare l’attenzione del gruppo dirigente. Al Partito si rifanno i medaglioni, mai agiografici o piatti, dedicati a Berlinguer, a Napolitano, ad Antonio Bassolino. Al Progetto politico si richiamano, invece, i passaggi riservati al ceto intellettuale con il quale Cosenza 

ha incrociato molte tappe della sua vita (belle in particolare le pagine rievocative di una figu-a irregolare e, insieme, emblematica del Novecento italiano come quella di Ruggero Zangrandi). 

Se nella nozione di intellettuale includiamo tutti coloro i quali elaborano e trasmettono conoscenza, in questa categoria dovremo finire per inscrivere non poche delle figure che, a vario titolo e grado, innervano l’autobiografia generazionale di Cosenza. Dunque giornalisti di frontiera come Giancarlo Siani (pieno di pudore e sottigliezza morale il bel capitolo a lui consacrato); di-rettori di quotidiani e articolisti, fino a studiosi eminenti quali Francesco de Martino, Giuseppe Galasso, Biagio De Giovanni. Personalità, queste ultime, che non esitarono ad abbinare una copiosa attività culturale e la partecipazione al processo di direzione politica del Paese. Di agire, pertanto, da classe dirigente saldamente ancorata ad una società nazionale, con una chiara visione 

dell’Italia ed una penetrante capacità di interpretare gli interessi di ceti e gruppi sociali, orientandone la coscienza. 

Con il che siamo dunque lontanissimi – la chiosa è solo mia, si badi – dall’odierno fantasma dell’intellettuale-star. Per solito un letterato fluttuante nella nebulosa di un’élite transnazionale dalle residenze molteplici. Uno strato sociale senza radici che non ha occhi se non per le moltitudini altrettanto sradicate, oltre che per quei «diritti cosmetici» funzionali a imbellettare i reali rapporti di forza tra i dominanti e l’universo pulviscolare dei dominati. Quei dominati — primi fra tutti le partite Iva sole dinanzi ai meccanismi di mercato — che non riescono a rappresentarsi e riconoscersi come classe. 

Che conclusione trarre, allora, dalla lettura di queste circa duecento pagine, scritte con un’efficacissima economia stilistica e un altrettanto ammirevole dispendio di passione? Dobbiamo rassegnarci a considerare queste opere memoriali solo in chiave di epicedio nostalgico dei «Trenta gloriosi» (1945-1975), da consegnare – è il caso di dirlo – alle carte d’archivio? Personalmente ritengo che il rimpianto sia dannoso come l’eccesso di salatura mentre la Memoria, come nel lavoro di Cosenza, può rappresentare il sale della terra e della vita. La Memoria può indicare che ebbe luogo un mondo diverso da oggi; che l’esistente non è un eterno presente e che domani potrebbe ribaltare quanto ora risulta – alla lettera – fuori discussione. Non è un peccato –tutt’altro – ricordare con Matteo Cosenza che vi fu un tempo in cui gli intellettuali giocavano un ruolo politico. E, aggiungo io, i romanzieri erano anche degli intellettuali (senza per giunta condannarci a leggere, come oggi, sempre la solita storiella). 

Recensione pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno il 7 luglio 2020 – VEDI ARTICOLO

Per non dimenticare

di GIANNI CERASUOLO

Matteo Cosenza, giornalista e anima inquieta della sinistra napoletana, ha raccolto in un libro riflessioni e ritratti che ruotano intorno all’identità partenopea. Che è fatta soprattutto di contraddizioni, da Eduardo a Giancarlo Siani

 La sera, anzi la notte, quando le pagine del giornale erano chiuse e pronte per la stampa nella tipografia che era sotto di noi, spesso si rimaneva a chiacchierare, io e lui, nel suo bello studio di direttore. Ci raccontavamo le nostre storie di giornalisti di lungo corso, una vita spesa dentro le redazioni, frammenti di una esistenza piena di persone e di fatti, di incavolature e di esclusive, di pacchetti di sigarette e di pasti irregolari. E lui spesso aggiungeva un sorta di “tutto il dolce minuto per minuto”, la descrizione accurata di come faceva un dolce, un uovo di cioccolata oppure una pastiera per la Pasqua.

Perché Matteo Cosenza, oltre a essere una buona penna di scrittore, è anche un ottimo cuoco (ed Anna, sua moglie, non gli è da meno). Quelle conversazioni notturne nella sede del Quotidiano della Calabria a Cosenza (eh sì, nomen omen) furono delle piccole anticipazioni di quanto ho ritrovato scritto in questo casomai avessi dimenticato (Rogiosi editore, 200 pagine, 16 euro), un libro dalla elegante copertina con una sfiziosa caricatura dell’autore fatta da Riccardo Marassi, pagine di un flash back tra le carte di una vita, un cofanetto di ricordi che Matteo si porta dentro di sé attorno alle sue grandi passioni: la politica e il giornalismo.

In realtà, protagonista di queste pagine è la Memoria, la testimonianza di una generazione che ha cercato di rendere la vita bella a questo Paese. Riuscendovi solo parzialmente. C’è un abisso tra quello che ha vissuto Cosenza, e tanti altri come lui, e la realtà che ci circonda. Non perché sono passati tanti anni e le trasformazioni sociali e di costume sono inevitabili. Non perché c’è la nostalgia a far da velo. È che le dimensioni culturali e politiche hanno assunto altre dimensioni, più superficiali, meno sofferte, non ideologiche. O semplicemente sono altro.

Cosenza è stato un giovanissimo comunista di Castellammare di Stabia, un “compagno” a volte scomodo con il suo caratterino non sempre docile, e un giovane giornalista sempre curioso. Ha diretto La Voce della Campania, una gemma dell’editoria che gravitava attorno al Pci negli anni Settanta e Ottanta, un quindicinale battagliero e culturalmente “alto”; ha guidato la redazione napoletana di Paese Sera; è stato per sedici anni nel principale giornale del Sud, Il Mattino, poi si è spostato in Calabria al Quotidiano. E siccome tene l’arteteca, vale a dire non si ferma un attimo, oggi è editorialista del Corriere del Mezzogiorno, la costola napoletana del Corsera. Matteo ha “allevato” generazioni di ottimi giornalisti: Antonio Polito, Gigi Vicinanza, Enzo Ciaccio, Peppe D’Avanzo, Michele Santoro. Ha avuto incontri ravvicinati con politici e intellettuali di primo piano: Giorgio Napolitano (più scontri che incontri, in questo caso), Enrico Berlinguer, Gerardo Chiaromonte, Francesco De Martino, Giacomo Mancini. Ma anche amicizie come quella con Ruggero Zangrandi, singolare figura di giornalista in rotta di collisione con il gruppo dirigente del Pci che mal sopportava le denunce sulla tragedia dell’8 settembre e sulle responsabilità di Badoglio e dei militari. E sul male atavico degli italiani: il camaleontismo. Un bubbone non estirpato che aveva consentito agli alti funzionari dello Stato fascista, con il silenzio della sinistra, di restare ai loro posti anche nell’Italia democratica.

Ribelle come lo siamo stati un po’ tutti in quegli anni, e come è giusto che lo siano i giovani se accoppiano alla rivolta la ragione e l’utopia, Matteo scappò a Torino dopo una discussione in famiglia (suo padre, Saul, è stato una figura carismatica del Pci di Castellammare e del napoletano), nella città della Fiat, il mito della fabbrica, degli operai, degli emigrati che allora, leggiamo in uno dei capitoli migliori e più teneri di casomai avessi dimenticato, potevano essere anche veneti e non necessariamente «dei meridionali di merda». La fabbrica rimase lontana, si ritrovò a fare lo scaricatore di tubi di Eternit e di quintali e quintali di mais. Durò poco. Presto tornò a casa, a Castellammare, a Napoli.

Oggi si discute di Gomorra, «e se la fiction… nuoccia  o meno a Napoli addirittura attribuendo alla rappresentazione la responsabilità della realtà che essa rappresenta», allora ai tempi della Voce della Campania ci si divideva sulla “napoletanità” polemizzando, come fece Cosenza, con Antonio Ghirelli che a metà degli anni Settanta pubblicò un saggio-inchiesta che aveva per titolo proprio la Napoletanità. «Mi sembrava, il suo saggio, un monotono ritorno a uno stereotipo tutto sommato comodo per giustificare i difetti, esaltandone i pregi, del popolo napoletano, dimenticando – si legge nel libro – le novità pur presenti come l’emergere di nuove energie sociali, politiche e culturali». Ma Mimì Rea rinfacciò al giornalista stabiese le sue tesi di «marxista convinto», insinuando, forse a ragione, non pochi dubbi «specie quando vedo che la gente fa la fila per entrare nel Teatro 2000, tempio della sceneggiata, e quando apprendo che sul San Ferdinando pendono cinquantamila prenotazioni di persone ansiose di rivedere la “napolitaneria” illustrata di Eduardo De Filippo». Una discussione – che non si è mai conclusa né potrebbe finire – alimentata allora anche da Pier Paolo Pasolini che nel saggio di Ghirelli scriveva: «Non so se tutti i poteri che si sono susseguiti a Napoli, così stranamente simili tra loro, siano stati condizionati dalla plebe napoletana o l’abbiano prodotta. Certamente c’è una risposta a questo problema: basta leggere la storia napoletana, non da dilettanti o casualmente, ma con l’onestà scientifica. Questo io finora non l’ho fatto, perché non mi si è presentata l’occasione, o forse perché non mi interessa. Ciò che si ama tende a imporsi come ontologico. Io so questo. Che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana… vive nel ventre di una grande città di mare». E si spiegava così: «Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità». La vecchia tribù «…continua, come se nulla fosse successo, a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a sfottere…». Nel frattempo la tribù stava diventando altra anche per il diffondersi del benessere («irrisorio») e per le trasformazioni urbanistiche «…finché i veri napoletani ci saranno, quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati). I napoletani hanno deciso di estinguersi restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili». Dunque, si chiede Cosenza, trasferendo il ragionamento di Pasolini su Napoli alla Calabria, che cosa si deve mettere in scena? «Gli splendori o le miserie?». I “banditi” di Cutro, come li chiamava il poeta friulano, e i boss di Gomorra, oppure fare come gli struzzi e mettere la testa nella sabbia?  Osserva il giornalista: «Non so se i napoletani siano una tribù, sono piuttosto convinto che quando si assolvono o quando si flagellano, due sport molto ricorrenti, di fatto deformino la lettura della loro condizione e della loro città, un po’ come abbiamo visto accadere in Calabria. Paradossalmente sono due modi opposti di fare come gli struzzi. Sarà, anche questo, un pezzo dell’identità che si cerca? Nostalgia del domani, ci ricorda Macry. Forse perché si sogna un futuro che sia come il passato che si vuole, a occhi bendati, sempre splendido splendente, bypassando il presente di cui si è parte e in qualche modo responsabili».

Non mise la testa sotto la sabbia Giancarlo Siani, il giornalista “precario” del Mattino ucciso dai “banditi” della camorra la sera del 23 settembre del 1985, un tragico fatto a cui Cosenza dedica un delicato e intenso capitolo del suo libro (“In auto con Giancarlo”). Siani fu lasciato solo. Allora l’autore del libro era a Paese Sera e criticò il direttore del quotidiano napoletano, Pasquale Nonno, per quasi nove anni alla guida del giornale. Nonno si era chiesto in un editoriale, ma anche nel corso di un dibattito televisivo in uno “speciale” del Tg1 dopo l’omicidio, «Perché proprio lui?»: «L’agguato ha le caratteristiche della camorra. Da ultimo Giancarlo si era occupato di droga. Ma se anche queste fossero ipotesi, e non possono esserlo, ancora resterebbe senza risposta quel perché… e non possiamo non domandarci se abbiamo sbagliato qualcosa o se forse non abbiamo mandato allo sbaraglio, senza accorgercene, questo nostro collega così giovane e indifeso». Riflette ora Matteo Cosenza: «Probabilmente non era nelle intenzioni di Nonno, ma l’effetto fu sconcertante perché sembrava quasi che Giancarlo avesse sbagliato qualcosa al punto da provocare la decisione della camorra di eliminarlo». Ma forse c’era anche l’angoscia di un uomo che sentiva la responsabilità di aver esposto troppo un giovane collaboratore, peraltro nemmeno assunto, mandandolo in quella Torre Annunziata, “regno” del clan Gionta. «Sbagliammo tutto» è la risposta che alcuni si sono dati anche all’interno del giornale. «L’errore, però, era nelle cose, era nel sistema», è la sottolineatura dell’autore. «Per un giovane, diventare giornalista era un sogno e un’impresa. L’abusivato era, ed è ancora, un percorso che poteva far aprire qualche porta. Ed era una strada obbligata anche se si poteva contare su una raccomandazione, perché per un direttore, ma anche per un redattore capo o un capo servizio, era più facile favorire qualcuno mandandolo per qualche mese in periferia o in provincia a fare la gavetta, affinché potesse mettersi in mostra ed essere infilato nel “pacchetto” di assunzioni che periodicamente veniva contrattato con i comitati di redazione… Procedura discutibile… un giovane si sentiva ripagato dalla firma sul giornale, da compensi modesti e dalla possibilità di entrare nel giro… Giancarlo era uno di questi giovani e andò a Torre Annunziata non sapendo che quella era la prima e ultima tappa della sua “via crucis”. Era bravo anche troppo. Pulito, perbene, colto, entusiasta. Solo. Soprattutto solo…».

Quando chiudi questo libro, vorresti chiedere a Matteo di continuare a raccontare. Di sicuro starà imbastendo qualche altra trama.

Recensione pubblicata sul sito “Succede oggi” il 1° agosto 2020

Il terremoto che ci cambiò tutto

Si avvicina una data importante, di quelle che segnano la vita di una comunità e delle persone, un prima e un dopo come uno spartiacque tra una storia e un’altra. Il 23 novembre 1980 per noi gente della Campania e della Basilicata è storia ma è anche presente nella vita delle nostre famiglie. Anche la mia colpita tragicamente come ho raccontato in un capitolo del libro dedicato a mio padre, “Il compagno Saul”. Crollò quasi tutto in quel palazzo di via Catello Fusco a Castellammare mentre lui, mia madre e mia sorella cercavano riparo da qualche parte: dal momento che in quegli attimi infernali fu lui ad avere la lucidità di capire che cosa fosse meglio fare, lo trovarono sotto l’arco della porta perché quello sarebbe stato l’ultimo muro a finire in frantumi. L’arco resse ma lui no e dopo poche settimane se ne andò per sempre.
La mia vicenda e quelle di moltitudini di altre persone e famiglie sono patrimonio incancellabile della nostra memoria. E ha fatto bene il “Mattino” a iniziare per tempo a rispettarla con il viaggio a ritroso nel tempo e nei luoghi e, immagino con l’occhio rivolto ai cambiamenti intervenuti e all’eredità che quell’evento ci ha lasciati. Con un’attenzione anche a ciò che abbiamo fatto per rimarginare le ferite e creare le condizioni per affrontare con la prevenzione necessaria il loro replicarsi, ciò che ovviamente nessuno si augura ma che è nelle cose, nella vitalità del pianeta sul quale poggiamo i piedi.
Il giornale che allora stava in via Chiatamone scrisse una pagina storica di giornalismo, merito indiscutibile del direttore Roberto Ciuni che riuscì a mobilitare l’intera redazione come mai si era visto in quel palazzo. Noi da “Paese Sera”, giornale nazionale con un’edizione campana, facemmo la nostra parte. E per tutti i giornalisti, di qualsiasi testata, fu un cambio di passo che dimostrò il valore insostituibile dell’informazione. In seguito riuscimmo anche a svolgere un ruolo di primo piano. Una mattina di pochi mesi dopo Ciuni imbufalito aprì la riunione di redazione sventolando il nostro e il suo giornale e gridando: ma noi dove stiamo, prendiamo queste legnate da un giornale che ha meno della metà dei redattori di un nostro settore. Lo ricordo non per rivendicare meriti particolari ma perché si era già dentro le vicende complicate del dopo-terremoto.
I gruppi terroristici erano attivamente impegnati nello sfruttare il disagio e con il sequestro Cirillo alzarono il tiro. Vicenda dai mille risvolti, tanti rimasti oscuri almeno dal punto di vista giudiziario, ma fu chiaro il tentativo di sfruttare la grande partita della ricostruzione a fini eversivi: la casa e il lavoro, ma nella prima fase più la prima, alimentarono una strategia della tensione molto insidiosa. Noi di “Paese Sera” decidemmo di rischiare e lanciammo segnali non già, naturalmente ai terroristi, ma a quell’area politica e sociale nella quale si muovevano con relativa tranquillità. La deportazione degli sloggiati verso le periferie, mentre ancora si puntellavano i palazzi del centro storico, era uno degli argomenti più caldi. Da quel mondo semisotteraneo arrivarono interventi che coraggiosamente e non senza preoccupazioni pubblicammo e finimmo al centro dell’attenzione, anche degli inquirenti che cercavano invano il covo dove era tenuto prigioniero l’assessore regionale democristiano. Alla fine il nostro lavoro fu utile e per questo il direttore del “Mattino” si arrabbiò perché non voleva stare un passo indietro.
Furono anni difficili, questa è la verità, dove scesero in campo le forze più disparate. Dei terroristi abbiamo detto, ma ormai era evidente che la camorra aveva scommesso sulla ricostruzione, sul grande affare che si apriva per i loro patrimoni. Allo stesso tempo si mossero istituzioni e partiti predisponendo piani e programmi. Bisognava ricostruire strade e quartieri delle grandi città, mentre i piccoli paese dell’interno, rasi al suo in quella manciata di secondi in cui tremò tutto, andavano reinventati. Com’è andata si sa. Tante buone cose ci sono state, migliaia di persone, per quanto sradicate dalle loro dimore, hanno avuto una casa, ma tanto spazio e potere hanno avuto la cattiva politica e, soprattutto, la camorra che in molte realtà non è più rimasta fuori dalle stanze in cui si prendevano le decisioni ma è entrata e spesso si è seduta in poltrona.
Quaranta anni dopo si possono fare dei bilanci accurati ed è bene accingersi per tempo a questo scopo. Anche perché tra prima e dopo quella data c’è stata una frattura non solo della terra ma anche della nostra storia, e molte cose, la politica per prima, non sono state più le stesse. Tanto da chiedersi, visto che sembrerebbe che il dopo-terremoto non sia mai finito, se abbiamo la serenità e la distanza giusta per ricostruire la storia. Specie in tempi in cui, per questo o per quel motivo, ognuno tende a piegarla ai propri gusti e interessi. Ne riparleremo.

Nel nome di Libero d’Orsi

Le metà di uno scaffale della nostra libreria è occupata dai suoi libri. Di poesia, di storia, di cultura (da Ludovico Ariosto a l’Abate Lamennais), di novelle, di racconti e soprattutto di Stabia. Ci sono cari perché l’autore è lo zio di Anna e lei, appena fidanzati, con comprensibile orgoglio volle farmelo conoscere. Di fama Libero d’Orsi mi era noto, perché lui era il preside che aveva portato alla luce le magnifiche ville dell’antica Stabia. Questa fu la passione o meglio la missione della sua vita. 

C’è un dialogo illuminante nel suo libro “Il mio povero io”. Sta scavando nel podere del notaio Gaspare De Martino che lo osserva con preoccupazione e lo interrompe continuamente sperando che non venga manomessa la sua proprietà. Il preside lo “prega e riprega” di lasciarlo fare e alle strette gli dice: «Caro dottore, come potreste dormire i vostri sonni tranquilli ora che sapete che sotto i cavoli e le fave piangono e sognano creature bellissime che, se anche solo dipinte, non sono meno vive di voi e di me?… Ma non saltate di gioia al pensiero che quasi certamente questa è proprio la villa di Pomponio, l’amico di Plinio? Avreste il coraggio di lasciare sottoterra la stanza dove Plinio… il grande ammiraglio… il grande scienziato… dormì l’ultimo sonno?». Come poteva resistergli il notaio! Una delle personalità culturali più importanti della città, un educatore di generazioni di studenti, un uomo stimato a ogni latitudine stava lì in compagnia di due operai, compreso il bidello, armati di piccone e pala, a convincerlo con l’entusiasmo di un ragazzo che poteva essere protagonista insieme a lui di una delle scoperte archeologiche più importanti. Scavò, scavò, scavò e nessuno poté fermarlo.

Il suo sogno di riportare alla luce una parte significativa del luogo di villeggiatura dei potenti romani di quel tempo è stato realizzato, mentre l’altro – dare una casa ai reperti straordinari venuti alla luce – è diventato realtà quarantatré anni dopo la sua morte: da giovedì il Museo Stabiano ha trovato la sua sede dignitosa nella Reggia di Quisisana, e anche questa dimora magnifica, dopo anni di abbandono e un restauro di qualche anno fa, ha finalmente una prestigiosa e adeguata funzione. E Libero d’Orsi, a cui è intitolato il museo, ha il riconoscimento che la città gli doveva.

Merito indiscutibile di Massimo Osanna, direttore generale dei Musei, che ha creduto nell’operazione e l’ha portata a compimento in collaborazione con il Comune. Alla vigilia di questo evento che doveva unire la città e le sue rappresentanze non è mancata qualche discussione sulla primogenitura. Che poteva essere evitata dopo tanti decenni di scandalosa sottovalutazione di un bene così prezioso per Castellammare e non solo, ma soprattutto perché ci sono cose su cui non ci si divide. Sicuramente non sarebbe piaciuta al preside.

Lui racconta il rapporto con gli amministratori di allora quando cercava sostegno materiale per poter realizzare la grande impresa. Si reca dal sindaco, “il dottor Pasquale Cecchi che mi vuole bene da sempre” e imbastisce questo “discorsetto”: «Caro sindaco, stammi a sentire; ti voglio tutto orecchi. Ho bisogno di voi: dovete darmi uomini e materiali. Pensa che la scoperta di Stabia avrà una risonanza in tutto il mondo». E poi “scherzando sul serio” aggiunge: «Aiutandomi a scoprire o a ritrovare la nostra sepolta città, voi ideologicamente siete a posto con la vostra coscienza… sinistra. Non combatterono gli Stabiani il dittatore Silla? Ebbene voi continuate la storia! Non potete tradire una simile eredità!». Ottiene quello che vuole.

Cambia l’amministrazione e la nuova è “anch’essa benemerita”, il sindaco è un democristiano, il “dinamico” Giovanni degli Uberti, che non vuole essere da meno del predecessore e lo aiuta in tutti i modi. Sostegno che non mancherà quando il sindaco sarà suo nipote Franco d’Orsi. In questo clima viene portata alla luce l’antica Stabia e nasce il museo in una sede che diventa rapidamente inadeguata. Fino a oggi.

Sarà un caso ma ciò è avvenuto due giorni prima della manifestazione per la presentazione della candidatura di Castellammare a capitale della cultura 2022. Sono in tanti ad aver manifestato comprensibili perplessità su questa iniziativa ricordando lo stato in cui versa la città sotto il profilo economico, sociale e della sicurezza. Non sono rilievi di poco conto, piuttosto è da vedere se questa scommessa servirà a dare una spinta in avanti o si rivelerà solo un sogno ambizioso e forse anche strumentale. Per l’affetto per la mia città io le auguro di farcela perché questo significherebbe aver imboccato la via virtuosa del cambiamento. E mi piacerebbe che il nuovo Museo stabiano Libero d’Orsi sia un punto di ripartenza. Per affetto… dicevo. 

Pino Amato, il dc dallo sguardo lungo

Ha ragione Arnaldo Amato a ricordare la seconda condanna caduta sul capo dei familiari delle vittime del terrorismo, dopo quella della perdita insanabile di un padre, di un fratello, di un marito: l’oblio. O, peggio ancora, il dover assistere all’esibizione, spesso guardata benevolmente da chi la promuove, degli assassini che, talvolta sorridendo, raccontano le loro gesta senza mostrare non dico pentimento ma almeno un po’ di pietà per i morti. A questa infamia se ne aggiunge infine un’altra non meno dolorosa: la scomparsa dalla memoria collettiva dei caduti, come dire?, di serie B. Chi volete che possa occuparsi dopo tanti anni di Raffaele Delcogliano o di Pino Amato, due assessori regionali uccisi perché facevano bene, troppo bene il loro lavoro. Il primo stava operando con intelligenza nella delicata materia del lavoro, il secondo aveva colto il nodo cruciale della crisi strutturale della Regione. E di quest’ultimo, stimolato dalla bella lettera del figlio al direttore pubblicata domenica, voglio parlare.

Pino Amato fu la grande sorpresa della Regione. Quando morì erano trascorsi appena dieci anni di vita della nuova istituzione. La sua nascita era stata accompagnata da grandi speranze, la gente l’aveva colta come un’occasione di sviluppo reale, la possibilità di rimettere insieme “osso” e “polpa”, di ricucire il rapporto, mai saldo, tra zone interne e la costa, Napoli soprattutto. Lo Statuto suggellò questo cammino. Poi la delusione, ci si accorse che a Santa Lucia avevano preso il sopravvento la brutta politica e le vecchie pratiche.

Amato, direttore amministrativo del Formez, fu consigliere comunale di Napoli fino al 1975 quando venne eletto alla Regione diventando nel 1978 assessore all’agricoltura e l’anno dopo al bilancio e programmazione economica. Con Paolo Cirino Pomicino e Enzo Scotti era uno dei tre esponenti della corrente andreottiana della Dc, particolarmente attiva in quegli anni con il gruppo “Nuova Napoli” contro la corrazzata dorotea dei Gava. Anche per questo noi giornalisti di sinistra li seguivamo con particolare attenzione: ci davano sempre materia per scrivere.

Si diceva che il vero organizzatore del gruppo fosse Amato, essendo nota l’effervescenza di Pomicino e il volare alto di Scotti, tanto alto da sganciarsi negli anni a venire dal “Divo”. Amato emerse con tutto il suo spessore da assessore regionale all’agricoltura quando produsse atti rilevanti, come è documentato dal volume che raccoglie i suoi scritti, i due documenti sull’agricoltura e le relazioni al bilancio che gli valsero la condanna a morte da parte delle Brigate Rosse.

«La Regione è bloccata da un “circolo vizioso”». Nelle relaziono al bilancio di previsione del 1980 e del bilancio programmatico 1980-1982 affondò il bisturi nel cancro. Uscite correnti esorbitanti, attorno al 70 per cento, si combinavano con l’incapacità di spesa e la formazione di residui passivi nell’ordine delle migliaia di miliardi. In secondo luogo, anche per effetto del trasferimento di gran parte del personale da Comuni, Province e altri enti locali, la Regione si era strutturata su un modello organizzativo che rifletteva i difetti degli enti di provenienza. Il risultato finale era quello di una sostanziale impossibilità di pianificare, legiferare e spendere, mentre cresceva a dismisura la funzione amministrativa, indirizzata per lo più a deliberare sulla gestione della spesa corrente, cosicché la Regione, diventando di fatto un mega-municipio, veniva meno ai suoi compiti statutari.

Le Br, molto attente a colpire i “cervelli” migliori del sistema, leggevano i suoi documenti, così come facevamo in alcuni giornali. Ero in quel periodo il responsabile dell’edizione notte di Paese Sera e seguivo anche l’attività della Regione e in particolare di Amato anche per le sue aperture al Pci. Il 17 maggio 1980, era sabato, ospitai lui e il professore Alfonso Di Maio, consigliere regionale del Pci per un “faccia a faccia” sul bilancio. Un denso confronto nella redazione di piazzetta Matilde Serao a quell’ora deserta. Poi li accompagnai alla porta, ma quel percorso di qualche decina di metri durò un’eternità. Amato parlava, si fermava, si mostrava stranamente preoccupato, io e Di Maio ogni tanto ci guardavamo un po’ meravigliati, infine restammo davanti all’ascensore del terzo piano per un tempo lunghissimo, sembrava che non volesse andarsene e stesse per dirci qualcosa. Dopo una mezz’ora mi telefonò Di Maio per commentare quel comportamento, ma non sapemmo spiegarcelo. Il giorno dopo pubblicai il resoconto di quell’incontro.

Nel primo mattino di lunedì 19, una giornata di sole, mi ero affacciato quando sentii il suono di sirene spiegate. Da piazza Plebiscito sbucarono alcune auto. Le vidi sfrecciare davanti al San Carlo, su una intravidi un corpo accasciato sul sedile posteriore. Era quello di Pino Amato, che dopo poco sarebbe stato adagiato sul marmo dell’obitorio del Pellegrini. Scrissi un articolo per il giornale che dopo poche ore era in edicola e raccontai anche quello strano commiato di due giorni prima. Nei giorni seguenti Scotti, Pomicino, Enzo Giustino, tra gli altri, vollero incontrarmi per sapere di più di quella preoccupazione che Amato aveva trasmesso a me e a Di Maio. Fui anche a casa della vedova, Mariolina, a Palazzo Cellammare. Di Maio lo sentii per telefono. Addolorati per non aver capito che cosa voleva dirci e che non gli avevamo sollecitato a dire, ci dicemmo che mentre noi eravamo con lui, nelle stesse ore alcuni giovani con il fumo in testa e le pistole in tasca stavano studiando gli ultimi dettagli dell’agguato in vico Alabardieri. Oggi sono molto ascoltati, mentre l’oblio è calato sulla vittima: una persona di valore, limpida, impegnata, una risorsa di questa terra dalla memoria spesso corta.  

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 22 maggio 2018

Un clima sempre più pesante

Queste mogli di calciatori che decidono di scappare da Napoli sanno di già visto, di un vecchio e abusato copione che si ripete e che inquieta inevitabilmente anche chi della squadra di calcio, da cui le annunciate partenze avrebbero origine, non si interessa granché. Chissà se davvero ci sia una mano precisa dietro le disavventure capitate nel momento meno opportuno ad alcuni calciatori del Napoli, alle loro famiglie e alle loro cose. Ce lo diranno le inchieste e come al solito le attendiamo. Ma per dire del clima pesante, non nuovo, che si respira intorno alla squadra, non c’è bisogno di aspettare, perché, anche se non ci fosse, come ci auguriamo, una regia unica dietro gli episodi, il fatto stesso che la si sospetti non nasce dai cavolfiori ma dalla cronaca della città, compresa quella che è ormai storia.

Il copione, dicevo. Vale a dire la commistione inevitabile tra corso sportivo della squadra e cronaca non calcistica se non nera, tra campo di gioco e città. Una commistione che addolora la platea vasta e irriducibile dei tifosi, di quelli che con orgoglio e senza arrossire si dicono “malati” del ciuccio, e che dovrebbe essere risparmiata a un pubblico così fedele e invidiato in Italia e in mezzo mondo. Ma Napoli è così, divisa tra momenti sublimi e capacità masochistica di sporcarli, perché essa è quel caleidoscopio di realtà diverse, alcune repellenti, tenute insieme da un collante fatto di tolleranza, di lasciar correre, di perdono e sopportazione, di assuefazione, che alla fine diventa esso stesso, proprio quel collante, complicità, quasi uno dei caratteri peculiari della città se non il fondamentale.

Non sto a ripetere quanto si legge e sente da giorni sulla rivolta dei giocatori, sulle partenze minacciate, temute o desiderate, sull’allenatore in bilico insieme al figlio, sul presidente che invece di un manager affida anche lui, come nei migliori feudi, la gestione al figlio, sugli schemi di gioco, sulle formazioni troppo mutevoli in campo, sulle congiure di arbitri e var, anche perché ne capisco poco e non mi avventuro in giudizi, piuttosto è proprio quella fuga, quel clima, quel copione a sollecitare domande non nuove e anche un paragone non rassicurante.

Certo, nella sua storia il Napoli ha visto arrivare fior fiore di giocatori da tutto il mondo, anche i migliori in assoluto, ma quante volte non è stato possibile convincere calciatori di valore a venire stabilmente al San Paolo? Di alcuni si è saputo, ma probabilmente ce ne son altri di cui non si è avuta neanche notizia. Non sarà l’unico motivo, trattandosi di trattative in cui prima che il cuore spesso se non sempre contano i quattrini, ma sicuramente ha pesato più di una volta il clima, sono prevalsi i timori per le brutte faccende di questi giorni che in un baleno fanno dimenticare l’inebriante applauso dei tifosi e la bellezza folgorante di Napoli. E come non pensare, passando ad altro campo, a chi rinuncia a investire non solo nel nostro territorio ma in tanta parte del Sud, a chi vuole intraprendere un’attività imprenditoriale o commerciale e si ritrova a che fare con i delinquenti più o meno organizzati, e, se può, si ritrae dall’impresa e scappa, o subisce e paga.

Da napoletano, tifoso o meno non fa differenza, ma anche, come l’esempio appena ricordato che amplia l’orizzonte, da meridionale mi interrogherei su questo cancro che corrode e soffoca le nostre terre, e su come, Stato e cittadini insieme, ce se ne possa finalmente liberare per vivere meglio, per coltivare i nostri interessi, anche la passione per undici giovanotti in mutande che possono far sognare ma anche arrabbiare. Dovrebbe essere il calcio, bellezza. Sportivamente parlando. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 13 novembre 2019