Lo sguardo lungo di Chiaromonte

Franca e Silvia Chiaromonte hanno raccontato a “Infinitimondi”, la rivista curata dal vulcanico Gianfranco Nappi, la storia di una famiglia comunista. Per l’ormai imminente centenario della nascita del Pci è stata concepita  un’iniziativa particolarmente significativa e importante: raccogliere testimonianze, scritti, documenti  e realizzare iniziative editoriali per tutto l’arco del 2021 che consentano di celebrare in maniera non formale un anniversario così rilevante e di ritrovare il senso di una storia collettiva che è stata così intrecciata con quella del nostro paese.

Franca e Silvia sono le figlie di Gerardo Chiaromonte, dirigente di prima grandezza del Partito comunista, e di Bice Foà, “donna, ebrea e comunista”. Il racconto che “Repubblica Napoli” ha pubblicato è molto bello e consente di entrare dalla porta di casa nella vita di una magnifica famiglia che ogni giorno deve conciliare l’attività politica con le esigenze vitali dei suoi componenti, non ultime ovviamente quelle delle due bambine. Per chi lo ha conosciuto leggere questo Gerardo Chiaromonte intimo non è una scoperta ma solo un riandare a un tempo in cui etica e politica, ideali e coerenza, cultura e impegno viaggiavano all’unisono. Chiaromonte, la persona più lontana dalle mode e dall’ostentazione, è stato uno dei massimi dirigenti di quel partito. Per dire, in tutta la fase in cui la linea del compromesso storico fu sostenuta da lui con forza di fatto fu il dirigente politico più vicino a Berlinguer ma non ne condivise la decisione di abbandonarla sostituendola con l’alternativa democratica..

Di lui si è scritto e si dovrà scrivere ancora, ma un passaggio dell’intervento delle figlie merita di essere particolarmente sottolineato, vale a dire quando ricordano: «Nel 1993 papà muore e il suo ultimo discorso alla federazione di Napoli è noto a tutti: sul pericolo di un giustizialismo dilagante, dovuto anche agli enormi errori compiuti. Discorso che si conclude con una dichiarazione di amore nei confronti del partito e di Napoli del tutto irrituale per lui così schivo e riservato nei sentimenti». Vide, cioè, con lucidità che cosa incombeva sul futuro del partito e dell’Italia. Per un uomo per il quale la politica era tutto e la questione morale un dato ineliminabile, le soluzioni ai problemi erano legate a scelte politiche e azioni conseguenti. In sintesi, per lui le scorciatoie, soprattutto quella giudiziaria, erano errori politici gravissimi che avrebbero avuto sviluppi negativi nell’immediato e nel tempo. Se ci pensate, oggi il tema di un giustizialismo ricorrente è centrale nella società italiana. Basterebbe ricordare solo l’ultima clamorosa diciannovesima assoluzione di Antonio Bassolino per capire quanto Chiaromonte avesse visto in profondità e lontano.

Le scelte di allora, così drammatiche e devastanti, dovrebbero essere oggetto di ricerca storica se non fossero di fatto ancora presenti nella vita di oggi anche perché quello di Bassolino, ripeto, è solo uno degli innumerevoli episodi del “giustizialismo dilagante”. Quando, tanto per restare alla stretta attualità, per la gestione di un’emergenza pandemica in Calabria non si sa se rivolgersi ai magistrati o ai tecnici della materia, escludendo di fatto la politica, si capisce bene che c’è qualcosa che non funziona. Certo, è anche difficile stabilire se questo stato di cose sia il risultato di un protagonismo eccessivo dei magistrati o del fallimento della politica. Piuttosto c’è da chiedersi se tutto questo non sia anche conseguenza delle scelte di allora. Il Pci, ricordiamolo, era impegnato a chiedere una seria e radicale riforma della giustizia, le sue battaglie contro i “porti delle nebbie” e gli affossatori delle sentenze erano state memorabili, poi di fatto, senza neanche che ce se ne accorgesse, passò un’altra linea. L’antipolitica era in agguato e fu poi difficile affrontarla e batterla. Chiaromonte vide e segnalò il pericolo.

Padre Pio e il miracolo di un laico

di FILIPPO VELTRI

Può un laico, persino un ateo, intendere il sentimento religioso, la fede? La risposta è sì, se si legge fino alla fine l’ultimo lavoro di Matteo Cosenza ‘’Padre Pio, il vero miracolo’’,  111 pagine – comprese due prefazioni – edite da Rogiosi.  Il giornalista, oggi editorialista del Corriere del Mezzogiorno ma con alle spalle tante esperienze professionali e politiche, con grande coraggio  consegna il risultato a tutti noi, credenti o no che siamo.

Padre Pio è Padre Pio, non servono spiegazioni. Matteo Cosenza venne inviato dal Mattino, dove allora lavorava, a seguire la veglia a 30 anni dalla morte del frate, oggi Santo. Era il 1998, ma l’interesse si è protratto  fino al 2004.

Cosenza andò a san Giovanni Rotondo obbedendo al direttore, e consegnò dei bellissimi reportage riprodotti oggi nel libro. Ma poi il libro in sè è un percorso, personale e intimo, su quel che significhi, per chi si confessa laico, ateo o forse “solo” agnostico, il valore della fede. Dal matrimonio prima civile poi ricelebrato dopo tanti anni in Chiesa al senso del divino, alle parole della Bibbia e del Corano letti e riletti, ai miracoli, anzi ‘’…al miracolo delle persone che affidavano il loro cuore a un frate le cui membra (…) sanguinavano come quelle del Cristo in croce”.  “Non capivo – scrive l’autore – non condividevo, non credevo ma rispettavo quegli uomini e quelle donne e continuo a farlo’’.

Continua a farlo perché,  come spiega padre Giancarlo Bregantini (Arcivescovo di Campobasso-Boiano) nella prefazione,  ‘’tutto il libro è attraversato da una parola magica: lo stupore’’. Stupore per la fede della gente umile, per la sofferenza che diventa gemito, per gli eventi esterni di folle e poi per l’arte che ne raccoglie il fascino, come nella Basilica ideata e progettata da Renzo Piano. Ma è anche lo stupore (ce lo ricorda Vittorio Del Tufo nell’altra introduzione) del giornalismo vero, ‘’che quando si fa così resta ancora il mestiere più bello del mondo’’.

Il vero miracolo di Padre Pio avrebbe forse fatto felice la madre dell’autore alla quale il libro è dedicato: ‘Avidamente leggeva i miei articoli – chiude Cosenza – sperando invano che mi convertissi’’. Se non un miracolo intero, almeno un mezzo miracolo.

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No’ ndrangheta. Con Gentiloni, De Sena e Laratta

La prima pagina de “Il nuovo corriere della Sila2 dell’ottobre 2010.
L’editoriale de “Il nuovo corriere della Sila”2 dell’ottobre 2010
La pagina de “Il nuovo corriere della Sila” dedicata al dibattito sulla manifestazione di Reggio Calabria

Il mensile “Il nuovo corriere della Sila” diretto da Saverio Basile dedicò ampio spazio a un dibattito svoltosi a san Giovanni in Fiore due giorni dopo la manifestazione di Reggio Calabria “No ‘ndrangheta” del 25 settembre 2010. La discussione era centrata sul tema “L’informazione in Calabria”, e ne discutemmo io, Paolo Gentiloni, Luigi De Sena e Franco Laratta.. La coincidenza con l’appena avvenuta iniziativa di Reggio rese particolarmente vivace e interessante il dibattito. Ricordo che sia in privato sia pubblicamente Gentiloni mi chiese più volte come avessimo fatto noi del “Quotidiano della Calabria” a portare tanta gente in piazza.

Peccato per Castellammare. Tentativo di coprire le “piaghe”

Non gioisco per l’esclusione di Castellammare dalla corsa per diventare capitale della cultura per il 2022. E non nascondo neanche la gioia per Procida, isola sempre presente a casa mia nella più bella foto che io abbia fatto in vita mia: le mie figlie piccolissime che, sedute sugli scalini della rampa in pietra di una casa tipica di Solchiaro, danno con le loro manine il granone a una gallina. Ma Castellammare è la mia città e, per quanto ne possa stare lontano, la sento tale in ogni istante. Per questo affetto viscerale avevo dato il mio nome al comitato di onore per la candidatura, e, pur non avendo partecipato ai suoi lavori anche perché non so se ce ne siano stati, dico che mi dispiace. Mi dispiace per gli stabiesi, non so se pochi o molti, che avevano nutrito la speranza di una svolta virtuosa. Evidentemente ci vuole ben altro.

Lo sapevo anche nel 2013 quando, sollecitato a dare una mano, mi candidai a sindaco. Ero ben consapevole che c’era poco spazio per un programma, se posso dire, “romantico”, visto il radicamento di gruppi e interessi che avevano tarpato le ali allac ittà. Lo capii un pomeriggio nello studio di un vecchio amico di gioventù quando brutalmente mi chiese che intenzioni avessi sulle aree di corso Alcide De Gasperi e se mi fossi incontrato con tizio o sempronio. Capito che non avrei incontrato quelle persone mi disse: “Allora tu non sarai eletto neanche consigliere comunale”. E così fu.  Tramontata la stagione delle Partecipazioni Statali e, quindi, delle industrie e anche delle Terme, la città ha tentato nuovi percorsi a fasi alterne ma mai facendo fino in fondo i conti con la mutazione sociale e culturale che stava avvenendo. Prendete la storia del Centro Antico. Ogni città, basta guardarsi in giro, quando entra in crisi riparte dal suo “cuore” per immaginare e perseguire una prospettiva nuova. L’immagine di Castellammare è congelata nell’abbandono degradato del suo patrimonio identitario che si racchiude nello spazio che va dal Cantiere e dalle Antiche Terme alla piazza del Municipio. Per il quale non si spendono neanche più le parole. Mentre tutto il resto, fatti salvi interventi sul lungomare e gemme preziose come il neonato Museo d’Orsi a Palazzo Reale, è un contenitore di strade insufficienti e palazzi raramente belli, mentre sulle aree industriali dismesse si concentrano mire più che discutibili. Quanto poi alla sicurezza generale le cronache parlano da sole.

Era, dunque, velleitaria la candidatura a capitale della cultura 2022? Di sicuro era un tentativo di coprire e non guarire le piaghe. Qualcuno lo avrà fatto strumentalmente ma penso anche che altri promotori siano stati in perfetta buona fede. Ma Castellammare ha bisogno di un’idea, di un progetto, di una visione di futuro. Che allo stato non ci sono. La nostalgia del tempo che fu, della sua straordinaria storia politica, economica e culturale è ormai materia esattamente di storia. Ne abbiamo scritto su queste colonne ampiamente provocando anche una vivace e interessante discussione. Pur tuttavia del passato non si può non tener conto, ma non per restarne prigionieri. Il presente è la città come si presenta dopo decenni tormentati da trasformazioni economiche e da eventi traumatici come il terremoto del 1980. E pur tuttavia un’idea per il futuro non può prescindere da tutto questo. Da qualche punto occorre ripartire. Per esempio, che si fa di quel Centro Antico?

Articolo pubblicato il 17 novembre 2020

Appunti per una presentazione che non c’è stata

di ROMANO PITARO
“Casomai avessi dimenticato” e le parole segnate (e non dette) a margine delle pagine…
Avrei dovuto presentare il bel volume di Matteo Cosenza (“Casomai avessi dimenticato”- Rogiosi editore) a Vibo Valentia, ma il malefico virus s’è opposto. L’ho letto a Sellia Marina, dove c’è il mio mare e dove, in estate, l’ex direttore del “Quotidiano della Calabria”, giornalista di lungo corso ed oggi editorialista del “Corriere del Mezzogiorno”, s’immerge nello Ionio e fa base per i suoi spostamenti multidisciplinari.
In attesa dell’incontro mancato, avevo depositato il libro in un angolo della scrivania da cui il faccione barbuto di Matteo, in copertina tratteggiato con acume dalla caricatura di Riccardo Marasi, mi ha scrutato per tutto questo tempo.
Oggi ho spostato nella libreria (costretto dai fastidiosi limiti di spazio) il viaggio autobiografico in 200 pagine che, per 16 euro, consente al lettore un tour appassionato nelle tante vite in cui Matteo s’è imbattuto (alla rinfusa: Berlinguer, Napolitano, De Martino, Mancini, Gava, Pasolini, Nonno, Bassolino, Zangrandi, Siani e tantissimi altri) in oltre mezzo secolo di inquietudini politiche e giornalistiche.
Prima di accomiatarmi dal libro, però, voglio riportare qui, per rendere meno infelice il distacco, le parole e qualche appunto che, a margine delle pagine, avevo segnato per introdurre il dibattito:
– Memoria, Identità e Mondo digitale;
– Carte (il libro di carta origina dalle carte raccolte, accumulate e infine selezionate, nel corso di una vita d’impegno mai distratto né subito);
– Le carte di Matteo Cosenza e le “Carte di Famiglia” (www.archividifamiglia.it) del pedagogista Nicola Siciliani de Cumis (esperto del filosofo marxista Labriola ed appassionato di Makarenko, il fondatore della pedagogia sovietica) che da quattro decenni circa coltiva uno sterminato Archivio-Laboratorio con l’occhio dell’emerografo, dello storico e dell’educatore. Il suo è un Archivio-Laboratorio sui generis, che tiene insieme “e risolve ad un livello più alto i materiali che lo impreziosiscono (dalle lettere inedite di Calvino alle centinaia di tesi universitarie alle “terze pagine” dei quotidiani e periodici), per svolgere un’attività di documentazione e di formazione;
– La ragione per cui è importante (oltre al libro naturalmente) il quotidiano o l’informazione periodica scritta nel tempo di Internet. Una mia domanda e la risposta di Siciliani de Cumis:
D: C’è un’oggettiva crisi della stampa cartacea. Si registrano crolli di lettura. Non pensa che col finire del Novecento, si è eclissando anche un certo modo di fare informazione e che dobbiamo ‘rassegnarci’ al linguaggio della Rete?
R. La crisi della carta stampata, le percentuali dei crolli della lettura e degli incassi, sia pubblicitari sia di vendite, sono il frutto di una crisi, più ampia e pervasiva, della cultura italiana nel suo complesso. Non è che, con il Novecento sia finito un modo di fare informazione: è che, in questi ultimi venti anni, è cominciata una nuova era, che dispone di strumenti di eccezionale portata comunicativa, ma è estremamente incerta sugli scopi della comunicazione. La crisi che viviamo sulla nostra pelle, chi fa il giornale e chi lo legge, è di tipo soprattutto culturale e ideale, e poi anche di natura economico-strutturale e, dunque, ideologico-sovrastrutturale. Se il linguaggio sincopato e rapido della Rete prende corpo, ciò avviene in quanto sono le ragioni stesse del dire e del cosa dire a non riconoscersi nelle ragioni necessarie e nei motivi sufficienti per aprire bocca. Se le dimensioni del parlarsi superficialmente e in tutta fretta, sembrano avere preso il sopravvento, con la conseguenza dell’imbarbarimento della lingua, della frantumazione e dello sgangheramento delle parole e, prima, dei concetti, ciò sembra soprattutto dipendere da uno svuotamento del pensiero e da una immenso vuoto di valori. Tutto un mondo di certezze è crollato. Nessun altro mondo di nuove ipotesi si è ancora affacciato all’orizzonte. Il problema è, però, che questo inedito mondo bisogna ancora scriverlo;
– Padre (il padre di Matteo , Saul, è stato una figura carismatica del Pci di Castellammare e del napoletano): Mosè – Freud – Kafka – “Il gesto di Ettore” di Luigi Zoja;
– La fabbrica, il Partito, la modernità e l’interregno in cui siamo precipitati;
– Gramsci e la crisi d’autorità: “Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”;
– Il dissolvimento delle Istituzioni e l’azione delle lobby collegate alle grandi corporation che “governano” i processi economici globali;
– Le zone morte (o moribonde) infiltrate dai populismi;
– La Calabria “zattera irrecuperabile staccata dall’Italia ma anche dalla Sicilia e dalla Campania?”;
– “Dare gas alla Calabria migliore”: la manifestazione antimafia a Reggio Calabria nel 2010 organizzata dal Quotidiano diretto da Matteo Cosenza.
Nota
Grazie, Romano Pitaro, per questi appunti del tuo intervento alla presentazione che non c’è stata. Ci saremmo visti con Peppino Lavorato, leggendaria figura di comunista, uomo integerrimo e stimato a tutte le latitudini, con Vito Teti, figura di primo piano della cultura calabrese, con Michele Albanese, collega valoroso inviso alla ‘ndrangheta che lo fa vivere sotto scorta da cinque anni, e con Bruno Gemelli, giornalista e scrittore. Ci tenevo molto a questa presentazione di Vibo Valentia, purtroppo… E ora che leggo queste note di Romano, mentre sono felice per averle lui rese pubbliche, penso a come sarebbero risultate in un ragionamento che avrebbe legato tutti i punti e mi dispiace molto che non sia stato possibile sentirlo.
Matteo Cosenza

Per Ugo invece del murale meglio la memoria privata

Da anni nel portafogli di mia moglie c’è la foto di un ragazzo. Si chiamava Marco Altomare, aveva diciassette anni, faceva il rapinatore ma la fedina penale era ancora pulita, i carabinieri lo inseguirono e lo uccisero in via Vicinale Piscinola mentre scappava insieme a un complice a bordo di Bmw rubata. Era stato un suo studente alla “Carlo Levi” di Scampia. Lo conoscevano bene le mie figlie essendo andate più volte in quella scuola media in occasione delle innumerevoli iniziative didattiche che i docenti organizzavano. Ed anche io posso dire di conoscerlo perché a casa mia se ne parlava spesso mentre si pranzava per decantarne l’intelligenza e gli sforzi che si facevano per liberare lui e altri suoi coetanei dai rischi del mondo di fuori. La sua morte fu un lutto familiare e mi toccò rincuorare più volte mia moglie che riteneva quel tragico epilogo anche un fallimento della sua missione educatrice. Ma, le dicevo, si sbagliava perché non solo la scuola, non solo la famiglia, non solo la società, non solo lo stato, ma solo lo sforzo corale di tutti questi soggetti poteva sradicare il male che naturalmente rischiava di infettare tanti ragazzi innocenti.

Il murale di Ugo ai Quartieri Spagnoli mi ha fatto ricordare Marco e sollecitato una domanda: poteva avere anche lui analogo tributo pubblico? E che cosa avrei pensato? O, meglio, mi sarei indignato come ho fatto ora? Vedere il mondo solo in bianco e nero non è quasi mai, se non mai, il metodo giusto di valutare, per cui anche in questo tormentato caso prudenza e ragionamento sono necessari. Si parla per Ugo come per Marco di ragazzi che sono in ogni caso vittime, perché prima ancora di accertare se ci sia stato un eccesso da parte dei tutori dell’ordine e della sicurezza pubblica, cosa che va fatta con rigore come è necessario in un paese in cui il diritto è sacro, sappiamo bene che colpe certe ricadono sul contesto familiare, ambientale, sociale in cui sono cresciuti. Dico banalità ma non c’è nulla di più vero e spesso tragico della banalità.

Dunque, non era nel Dna di Ugo e Marco diventare rapinatori, considerare la prepotenza e la violenza valori, immaginare il proprio futuro di piccoli o grandi boss agiati e rispettati, come non è merito del Dna essere persone perbene, morigerate e educate bensì di chi aiuta a vivere e crescere con i valori corrispondenti. Pertanto ricordare con rispetto i caduti di una guerra nella quale giovanissime vite sono state spinte si può dire da quando sono nate e poi alimentate con il latte dell’illegalità, dell’abuso e del reato, è un modo non solo per restare umani ma anche per chiedersi e tentare di capire il perché.

L’immagine di quel ragazzo su un muro si presta a questa sola lettura? Se così fosse resti lì. Ma, decontestualizzata, essa diventa, se non da subito, nel tempo il simbolo di un sacrificio, di un eroe, di un mito, di un esempio. Ci sono, e ci devono essere, ben altri modi per dimostrare che quella morte non possa essere archiviata come un incidente di percorso, ed è troppo facile per tutti lasciare che quel volto assolva da responsabilità collettive. Per capirci io su quella parete disegnerei il viso sorridente di Giancarlo Siani, uno che ha sacrificato la propria vita per combattere l’illegalità e chi mandava e manda i “muschilli” al macello. La foto di Ugo, come quella di Marco, la lascerei all’affetto e al ricordo di chi ha spazio nel portafogli.

 

Arcolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno l’11 novembre 2020

Pirenei, confine d’Europa tra paladini e contrabbandieri

Avevo portato il libro sbagliato. Più che ”Fiesta” avrei fatto meglio a mettere in valigia l’”Orlando furioso”, ma forse, anche sapendolo, non lo avrei fatto se non altro per il peso e l’ingombro dei tre volumi del poema di Ariosto, certamente non una “guida” tascabile. In realtà, quando eravamo partiti da Napoli, non pensavo affatto alla possibilità di incontrare il “paladino”. Moglie e figlie, 17 e e 15 anni, ignoravano che del nostro viaggio mi interessava soprattutto l’appuntamento con San Firmino, la festa, i tori, la Spagna. E la festa cadeva proprio in quei giorni di luglio del 1992 quando saremmo stati a un tiro di schioppo da Pamplona.
Era stata una lunga galoppata. Sosta notturna a Ventimiglia prima di entrare in Provenza: Arles, Avignone, la Camargue, i cavalli, un anticipo dei tori, i fenicotteri rosa, la Madonna Nera… Poi Barcellona. Un cantiere che freneticamente si stava chiudendo in vista del 25 luglio, giorno di inaugurazione delle Olimpiadi, mentre la famiglia chiedeva: «E dopo dove andiamo?». La prendevo alla larga parlando di una città in festa, promettendo che ci saremmo divertiti e che lo spettacolo a cui avremmo assistito sarebbe stato indimenticabile.
Partimmo di buon’ora lasciando il Mediterraneo per arrivare a fine mattinata quasi in vista dell’Atlantico. Una tranquilla marcia avendo sulla destra i Pirenei, mentre di tanto in tanto intrattenevo i miei decantando la corsa dei tori che li avrebbe divertiti un mondo. Ci fermammo ai margini del centro mentre si vedeva già un gran movimento di gente, soprattutto di lenzuola bianche isolate o radunate a capannelli, che, se fosse stata notte, avrebbero evocato i fantasmi. Segno che l’evento era in pieno svolgimento, nulla che rimandasse al risveglio di Hemingway: «La mattina era finito tutto. La fiesta si era conclusa… La piazza era deserta e non c’era nessuno per le strade. Solo qualche bambino che raccoglieva aste di razzi nella piazza. I caffè si stavano appena aprendo e i camerieri portavano fuori le comode sedie bianche di vimini, disponendole intorno ai tavolini col ripiano di marmo all’ombra del portico. Stavano pulendo le strade e annaffiandole con un idrante».
Mi fermai nei pressi di un ufficio informazioni. Scesi dall’auto mentre una preoccupata raccomandazione a tre voci mi accompagnava: «Fai presto». Non ero l’unico in quella sala affollata e rumorosa. Finalmente fu il mio turno, ebbi le notizie che mi servivano e uscii con l’indirizzo di un albergo al quale una cortesissima impiegata aveva già telefonato. Non mi ero reso conto del tempo trascorso, fuori, nella piazzetta e nella strada che si proiettava verso il centro della città, c’era una moltitudine disordinata e fluttuante di persone. A ben vedere il panno che indossavano non era proprio bianco bensì macchiato vistosamente di rosso o di un giallo denso, sporco insomma di vino o di birra. Per terra bottiglie intere o in frantumi e tra i cocci c’era chi era riuscito a trovare uno spazio per riposarsi. Puzza d’alcol, canti, urla, qualche spinta, un ondeggiare allegramente incontrollato, un’ubriachezza diffusa e vistosa che metteva in allarme. Popolo sì caliente ma in quel caso raggelante.
Me ne resi conto entrando nell’auto sigillata dai finestrini chiusi e dalle sicure alle portiere. Un silenzio stridente con il chiasso di fuori. Mia moglie non dovette neanche fiatare, mi bastò vedere dallo specchietto i volti delle figlie sul sedile posteriore e chiedere retoricamente: «Andiamo via?». Non fu necessario che rispondessero. Misi in moto e ripresi la marcia nella direzione da cui eravamo giunti. Addio Pamplona, addio tori, addio mio amato scrittore.
Appena fuori dalla città ci fermammo a pranzare e, non avendo idee chiare sulla prossima tappa e per di più escludendo di rifare gli oltre trecento chilometri di autostrada dell’andata, cercammo di avere qualche suggerimento dai presenti. Per non farla lunga, attorno a noi si radunò una piccola folla. Chi proponeva una cosa, chi un’altra, noi fummo tentati dalla possibilità di andare in Francia attraverso i Pirenei. Intanto però bisognava prima fermarsi da qualche parte e pernottare. Eravamo nei pressi del passo di Roncisvalle, lì vicino c’era un delizioso paesino dal nome suggestivo, Isaba, quasi un ultimo avamposto prima della salita, dove ci recammo convintamente.
Eravamo in un luogo leggendario, teatro di epici scontri tra cristiani e musulmani, dove la “chanson de geste” era diventata la “Chanson de Roland”, il paladino Orlando che, nonostante e per salvare la spada Durlindana, donatagli da Carlo Magno, trovò la morte nella Battaglia di Roncisvalle. Leggenda che, con variazioni sul tema, diventerà immortale prima con Matteo Maria Boiardo e il suo “Orlando innamorato” e definitivamente con il capolavoro eterno dell’Ariosto. Si poteva ben dire che l’imprevisto cambiamento del programma pamploniano aveva riservato al viaggio una direzione ancora più interessante.
La mattina dopo, il cielo su Isaba era plumbeo. Non era l’epoca dei navigatori e dei telefonini e peraltro non trovammo una carta geografica per quel pezzo di territorio, dunque chiedemmo all’albergatore le indicazioni per la traversata. Credo che anche Orlando gli avrebbe lanciato qualche anatema a posteriori per quella disinvolta sicurezza con la quale ci rassicurò sulla facilità di andare in Francia, verso Tolosa. Ci indicò la strada che, lunga e diritta per un buon tratto, conduceva alla montagna. «Seguitela, non potete sbagliare, vi troverete in Francia senza difficoltà», ci assicurò con uno spagnolo abbastanza comprensibile. E così ci lasciammo alle spalle memorie, storia, paladini e crociate, convinti che ormai, pur ancora con qualche tappa, eravamo sulla strada del ritorno.
Dopo una ventina di minuti fu chiaro che la scalata era iniziata. E fin qui nulla di grave. Fatto sta che dopo un po’ penetrammo in una nebbia fitta che nascose qualsiasi vista, figuriamoci i panorami. Ci volle poco per capire che la strada, che ci era sembrata non larga ma comunque percorribile, in realtà fosse strettissima. Soprattutto la paura prese il sopravvento quando ci rendemmo conto che su un lato, prima il destro poi il sinistro a seconda del tornante, non c’era parapetto e il precipizio era a pochi centimetri. Fermarsi? Meglio di no perché saremmo rimasti in quella prigione. Procedevo quasi a passo d’uomo, con gli occhi sgranati, in un silenzio sepolcrale dell’abitacolo perché moglie e figlie erano terrorizzate. E quella stradina, che mi sembrava una mulattiera, non finiva più. Tornare indietro? Ma era impossibile fare retromarcia o inversione. Il pericolo più grosso lo corremmo quando davanti al cofano comparve all’improvviso una monumentale mucca, finita su quel tratto di strada, che doveva ben conoscere, chissà come. Faticosamente ci facemmo spazio anche perché la bestia non aveva alcuna fretta. Unica consolazione fu pensare che per starci quella mucca da qualche parte dovevano esserci anche una fattoria, delle persone, qualcuno a cui chiedere aiuto. E cercai di sfruttare questa speranza per attenuare la disperazione delle mie donne.
Non so quanto durò questo incubo, sicuramente moltissimi chilometri, fin quasi ai 1700 metri di quel passo. Quando finalmente la nebbia si diradò davanti a noi si aprì un paesaggio lunare. La strada non si arrampicava più, a tratti attraversava un piccolo altopiano. Finalmente una persona. Da lontano ci osservò con curiosità che divenne stupore quando si avvicinò e si rese conto dell’equipaggio che era a bordo. Sembrava quasi volesse dirci: ma chi vi ha mandato quassù? Riuscimmo solo a capire che proseguendo ancora per qualche chilometro sarebbe iniziata la discesa, praticamente eravamo al confine tra Spagna e Francia, in un passaggio, ci fu detto in seguito con non celato stupore a Tolosa, che era usato da sempre dai contrabbandieri.
Le nostre disavventure non erano terminate, anche se quelle di dopo furono rose e fiori. In quei giorni la Francia era paralizzata dallo sciopero dei camionisti. Ce ne accorgemmo molto prima di entrare a Tolosa. Dove arrivammo grazie alla provvidenziale cortesia di una signora che si trovò, ferma anche lei, accanto alla nostra auto. Le dicemmo che dovevamo andare in città e lei ci disse di seguirla. Prese strade secondarie e correva come una pazza, ci lasciò quasi dentro Tolosa. Mentre la salutavamo vedemmo che entrava in un piccolo edificio con una grande insegna di cui leggemmo solo la parola psychiatrie… Un sorriso ci voleva, prima di riprendere, per tappe, la via di casa. Certo, un ritorno senza Fiesta, ma volete mettere Roncisvalle, Orlando e i contrabbandieri?


Fonte  https://www.foglieviaggi.cloud/blog/pirenei-confine-deuropa-fra-paladini-e-contrabbandieri

 

Il bacio che serve alla Calabria

Sono sconcertato e spero davvero che il mio sentire venga smentito dai fatti. I fatti che al momento non mi sembra vengano preceduti da un buon auspicio per la sanità calabrese, in generale e soprattutto ora che si è in piena pandemia. Quel video del neo-commissario alla sanità Giuseppe Zuccatelli sull’inutilità della mascherina e della colpa del bacio non si archivia facilmente. Auguriamoci di doverlo dimenticare presto. Ma il ministro Speranza ha voluto così e vogliamo credere che sia stato ben consigliato e che rispetto alla fine ingloriosa del commissario Cotticelli (mio concittadino e, se non ricordo male, nato nello mia stessa strada) riservi ai calabresi un destino migliore.
Se avessi avuto la possibilità, per quel poco che può valere un mio giudizio, io gli avrei detto, nessuno si scandalizzi, di guardare in Calabria e nella sua storia. Gli avrei ricordato che un medico di spessore professionale e culturale e soprattutto uomo libero e coraggioso, amministratore pubblico ed anche con esperienza di gestione del settore, c’era e si chiama Santo Gioffrè. Lui fu nominato, credo in un momento di distrazione, commissario della disastrata Asp di Reggio Calabria. Si mise al lavoro e scoprì magagne allucinanti. Una per tutte: fatture per importi milionari pagate due e anche tre volte. Non chiuse un occhio e neanche tutti e due, andò avanti, affondò il bisturi nell’infezione e fu – indovinate? – cacciato. Una pietra sul malaffare e via come sempre.
Ricordare questo precedente storico (l’aggettivo è appropriato perché questa vicenda resterà negli annali, piaccia o non piaccia a chi l’ha voluta rendere tale) non è una forzatura perché la sanità calabrese ha necessità di essere risanata, riorganizzata, gestita in maniera efficiente e trasparente, con lo stesso riguardo che la mano pubblica riserva con i denari di tutti alla sanità privata (per averne qualche elemento andate sulla pagina facebook Iacchite di Gabriele Carchidi).
Speranza ha deciso diversamente. E queste mie sono chiacchiere e basta. Con l’augurio che, prendendo per buona la tesi del bacio del nuovo commissario venuto dalla Romagna, la Calabria più che dalla pandemia venga baciata dalla buona gestione. Questa sì è un’infezione che manca da troppo tempo e che ora è vitale come non mai.

Castellammare, un gesto responsabile

Cerco sempre di ragionare senza pregiudizi e il pregiudizio, se l’avessi, mi porterebbe a ritenere Gaetano Cimmino un sindaco ben lontano dalle mie concezioni e dalla mia sensibilità, ma mi vado convincendo che si sia comportato responsabilmente. Perché chiedere al presidente della Regione di dichiarare la sua città, la mia Castellammare, “zona rossa” non è una scelta che si fa a cuor leggero, e bisogna aspettarsi che sia accompagnata da controlli severi che finora sono vistosamente mancati. I numeri e le terribili cronache di questi mesi e di questi giorni dicono che la città è davvero in una situazione allarmante, non solo il suo ospedale, che ormai è diventato un simbolo della crisi pandemica, ma la diffusione del virus, per quello che si sa, in rapporto alla popolazione.

Per legami familiari e per conversazioni con amici con i quali intrattengo un dialogo quasi quotidiano ho informazioni sempre più preoccupate e preoccupanti da settimane e credo che a Cimmino non si offrivano molte alternative. Pur tuttavia, piuttosto che indugiare con il timore dell’impopolarità e la paura di sbagliare, ha scelto la via più drastica, quella che sperabilmente può riportare nel giro di un periodo non prevedibile la situazione ad una condizione non dico di normalità ma almeno di sopportabilità.

Aggiungo che, al di là di valutazioni di merito o di eventuali propositi strumentali, mi aveva positivamente sorpreso la sua iniziativa, a prima vista temeraria, di candidare Castellammare a capitale italiana della cultura del 2022. Mi sembra che siano due decisioni, soprattutto quella di oggi, responsabili. Soprattutto auguro agli stabiesi, familiari e amici compresi, di poter affrontare e superare il difficile momento con senso di responsabilità e unità di intenti e comportamenti.

Peppe, nel nome del padre

Innanzitutto era una persona buona. Lo so per me ma so che mai lo mosse un sentimento cattivo nei confronti di qualcuno. Scaturiscono da questa convinzione il dolore e le lacrime che, alla notizia che ci aspettavamo e che speravamo mai arrivasse, non sono stati trattenuti da quelli che, e sono un popolo, lo hanno conosciuto e frequentato nella sua lunga esistenza. Una vita pubblica, ecco l’altro elemento, perché lui le mani se le sporcava sempre riuscendo ad attraversare i mari spesso tempestosi della politica con una trasparenza, direi un’innocenza, che ti lasciava interdetto. Mi ricordava un suo grandissimo compagno e amico, il più amato in assoluto da lui, a me più che vicino, che con lo stesso candore si sporcava le mani senza che uno schizzo di polvere, il fango non era nell’ordine delle cose, potesse depositarsi sulla sua persona. E poi la cultura che dava sostanza e profondità alle prime due sue immense qualità. Una cultura fatta di curiosità e non di ostentazione, di competenza e non di presunzione, di specializzazione e di onnicomprensività.

Io lo conoscevo bene, Peppe Bruno, e lo piango non già per la sua morte, che è nell’ordine delle cose per noi di una certa età, ma per il modo atroce, sicuramente per le sofferenze anche se voglio sperare che, intubato e sedato per tanti giorni, non se ne sia accorto. Ma quando l’ho sentito prima che si infilasse nel tunnel senza uscita quei patimenti annunciati erano nella sua mente e nel suo cuore. “Ti voglio bene, ti ho sempre voluto bene”. Me l’aveva detto tante volte ma questa volta, pur non sapendo ancora che il virus con la falce era già entrato nel suo corpo, ho sentito che c’era molto di più, c’era sicuramente l’angoscioso dolore per l’amata moglie allettata e priva di conoscenza da troppo tempo, per i figli, per i nipoti, anche per la loro sicurezza perché lui che di lavoro era riuscito a dispensarne tanto si era trattenuto dal favorire chi gli era più vicino. C’era, l’ho capito dopo, quasi un lascito, un testamento non scritto all’amico di una vita. Che qui io cerco di onorare.

Avevo quindici o sedici anni quando lo conobbi. Io già facevo politica e lui era con Alfonso di Maio, Giuseppe Ghiandi, Giovanni Fioretti, Mario Acerra, Renato Tito, uno stimato dirigente dello Psiup. Era naturale che quasi tutti loro confluissero nel Pci ma io non aspettai che Peppe venisse nella nostra casa perché fummo subito in sintonia. Grazie a tante battaglie, anche all’invenzione non coronata da fortuna della Consulta giovanile nella quale, mentre i partiti degli anziani litigavano, noi più o meno giovani discutevamo insieme per fare qualcosa indipendentemente dal fatto che fossimo comunisti, socialisti, repubblicani o democristiani. Per anni poi, per la comune militanza e frequentazione degli stessi spazi, ci vedevamo tutti i giorni. Lui era “attratto” soprattutto dal “compagno Saul”. Ovviamente lo coinvolsi nella realizzazione dei giornali che sfornavamo a pieno ritmo. E indimenticabili furono le “riunioni di lavoro” a casa mia per prima impostare i contenuti del numero del giornale da realizzare e poi per leggere, correggere e sistemare tutti insieme (c’erano con noi Antonio Barone, Franco Perez, Luigi Vicinanza, Enrico Fiore, Antonio Polito) gli articoli che sarebbero stati pubblicati. Facevamo notte e, come ho scritto di recente, Anna ci nutriva più che spartanamente perché non navigavamo nell’oro.

Fisicamente ci perdemmo quando decisi di interrompere l’attività politica e fare il giornalista a tempo pieno. Mio padre soffrì molto e Peppe, pur senza mai dirmelo, soffrì altrettanto anche per solidarietà con mio padre. Ed è stato molto tenero non molto tempo fa quando mi ha raccontato le chiacchierate che faceva con lui su di me, di come papà fosse addolorato e al tempo stesso orgoglioso. Non vado oltre perché l’emozione non me lo consente…

Fisicamente, dicevo, ma in realtà non ci siamo mai lasciati. Lui è stato una presenza costante della mia vita, un approdo dove trovare sincerità, franchezza, affetto, amicizia, stima, sentimenti tutti ricambiati con gli interessi. Neanche alcuni mesi fa, quando poteva accadere, ci fu un’ombra nel nostro rapporto. Mi riferisco ad un articolo che scrissi per il “Corriere del Mezzogiorno” su Castellammare e il suo declino. Qualcuno ricorderà che per qualche settimana si sviluppò una discussione pubblica molto intensa. Poiché io parlavo anche della situazione delle Terme, di cui lui era stato amministratore unico, e accadeva anche che, ma non io, si potesse fare di tutte le erbe un fascio, mi disse: “Ma mò la vogliamo finire?” La risata che seguì mi fece capire che c’era sì un appunto ma anche l’ammissione che qualche responsabilità poteva pure esserci. In realtà nel tramonto politico di una certa Castellammare le responsabilità sono state individuali, collettive e anche derivate da un mondo che cambiava (pensiamo solo alla scomparsa delle Partecipazioni statali su cui si reggevano quasi tutte le attività imprenditoriali comprese le Terme), ma qui non voglio parlare di questo piuttosto voglio ribadire quanto fosse limpido, aperto, sincero il rapporto tar me e Peppe. Ci dicevamo tutto, lui a me e io a lui, e posso dirvi che persone più oneste, belle e competenti ne ho incontrate poche nella mia vita.

Competente lo era. Quando entrò nell’Acquedotto di Napoli, allora nella sede di via Costantinopoli, era un fresco laureato in ingegneria. Ne divenne nel tempo uno stimato direttore e se il servizio idrico della nostra terra è sicuramente uno dei nostri vanti lo si deve anche al suo contributo, tanto apprezzato da avergli consentito di avere responsabilità pubbliche fino ad oggi anche dopo aver lasciato l’Arin, poi diventata Abc. Competente e colto, ma non lo esibiva. A mia memoria non ricordo un solo gesto di presunzione, di alterigia, di superbia. Compagno fino in fondo lo era anche in questo.

E poi che compagno! Dopo un mio intervento “fuori ordinanza” in un Comitato regionale del Pci particolarmente importante me lo dimostrò senza tentennamenti. Copio qui quanto ho scritto nel mio libro: “Quando tornai al mio posto capii che l’avevo fatta grossa. Le sedie accanto, davanti e dietro la mia furono libere per tutto il giorno fino alla conclusione della riunione, solo uno – e lo cito proprio perché fu un’eccezione – ogni tanto mi faceva compagnia non tanto per condivisione e antica amicizia quanto, pensai e penso, per solidarietà: Giuseppe Bruno, dirigente stabiese del partito”.

Questo era Peppe, questo era Peppe per me. E sono disperato perché non posso salutarlo per l’ultima volta almeno per ricambiargli il tributo che lui diede al “compagno Saul” che nel suo cuore considerava un padre e che per questo me lo ha fatto sentire fratello.