Ci sono date che segnano la storia e ci sono luoghi in cui eventi significativi assumono valenza che supera i propri confini, come Castellammare dove in tempi non lontanissimi anche un’elezione locale poteva indicare una tendenza nazionale tant’è che in qualche partito si analizzavano con attenzione i dati per capire dove stesse andando il Paese. Ora accade che si debbano celebrare a distanza di un giorno ben due centenari: la nascita del Pci che il 21 gennaio 1921 si scindeva dal Psi e, il giorno prima, i fatti di Piazza Spartaco, vale a dire l’assalto dei fascisti provenienti da tutta la provincia al Comune amministrato da qualche mese dai socialisti. Fu, questo, l’episodio meridionale che faceva il paio con quello avvenuto due mesi prima a Bologna dove la neonata giunta di sinistra era stata battezzata con scontri, morti e l’assalto al Municipio sempre da parte dei fascisti.
A Castellammare il giorno dopo la strage, mentre era ancora in corso la caccia a quelli che avevano difeso Palazzo Farnese, fioccheranno le adesioni al partito che in quelle ore vedeva la luce nel teatro San Marco di Livorno. Chi coniò l’appellativo “Stalingrado del Sud” evidentemente pensava a questi trascorsi. Che ora si riassumono nella perfetta sincronia dell’anniversario del Pci e di quello degli scontri di Piazza Spartaco.
Antonio Barone, il compianto professore di lettere del liceo classico e poi convinto dall’autore di questo articolo a divenire lo storico del movimento operaio stabiese, ha ricostruito quelle vicende non edulcorando “gli errori, le ingenuità, le mosse affrettate”, si direbbe “infantili” secondo la lettura leniniana, che l’amministrazione socialista compì nei primi passi della sua attività, soprattutto in materia di politica sociale, che aveva allarmato la piccola e media borghesia locale, soprattutto i “bottegai”. Ma la delibera che, come un provvidenziale pretesto, provocò la reazione, aveva essenzialmente un valore simbolico: cambiare il nome di piazza Municipio, che fino a quel momento non ne aveva, in piazza Spartaco. Il riferimento era alla lega di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht intitolata allo schiavo romano, emblema del coraggio proletario. Il consiglio comunale votò il provvedimento il 18 gennaio, in due giorni i fascisti di Napoli e provincia organizzarono una marcia su Castellammare con l’obiettivo manifesto di arrivare davanti al Municipio e cancellare con qualsiasi mezzo l’onta.
Come una tragedia annunciata gli eventi si susseguirono in una giornata campale. Mentre il corteo dei fascisti proveniva dal cantiere navale, una folla di socialisti era davanti al Municipio ed altri erano all’interno. Lo scontro sarebbe stato inevitabile se polizia e carabinieri non avessero impedito il contatto, ma ciò non avvenne. Volarono oggetti, si verificarono sfondamenti, a nulla valse il tentativo di evitare che accadesse il peggio da parte del vicesindaco Pasquale Cecchi (sarà il primo sindaco comunista venticinque anni dopo) sceso da Palazzo Farnese.
«Due denotazioni – scrive Barone – lacerano l’aria. Il giovane maresciallo dei carabinieri, Clemente Carlino, si accascia a terra in una pozza di sangue, fulminato da un colpo alla fronte». Il seguito fu una vera e propria guerra con il Municipio che diventò un Forte Apache, in una confusione non più governabile. Il bilancio finale sarà di cinque morti (anche tre operai) oltre il carabiniere Carlino e di oltre cento feriti.
I socialisti, c’era anche il nonno di chi scrive, resistettero dentro il municipio fino alle 18, quando, dopo l’arrivo di rinforzi di cinquanta carabinieri e cinquanta guardie regie da Napoli, decisero la resa. Qualcuno riuscì a dileguarsi mentre si procedeva all’arresto di 150 persone. Fermi e arresti proseguirono nelle strade della città mentre veniva invasa la Camera del Lavoro, i cui dirigenti riuscirono a indire uno sciopero generale per il giorno dopo. Barone conclude così la cronaca della giornata: «Verso l’una di notte terminano i trasferimenti degli arrestati verso il carcere locale, mentre risuonano sul selciato i passi dei soldati in pattugliamento, in un’atmosfera di desolazione resa ancora più triste dal freddo e dalla pioggia che continua a cadere imperterrita senza riuscire a cancellare in piazza Spartaco le macchie di sangue di coloro che – come ricorderà tanti anni dopo l’indimenticabile compagno Luigi Di Martino – col martirio semplice, ma fulgido di gloria, diedero l’esempio di quanto amarono la libertà e i diritti del popolo». Nel processo, che si svolse nel febbraio 1922, tutti gli imputati furono assolti.
Si è detto degli errori “infantili”, ma quel consiglio comunale era stato liberamente eletto dai cittadini e democraticamente aveva approvato quella delibera che era nelle sue prerogative. Pur tuttavia le spiegazioni storiche sono più complesse come sottolineò Giorgio Amendola ricordando che il movimento operaio era, nelle sue varie componenti, impreparato a comprendere il fenomeno fascista e che la divisione nella sinistra era prevalente e fu decisiva per l’ascesa di Mussolini. Basti pensare alle assenti o tiepide reazioni ai fatti stabiesi. Il “Soviet”, il giornale del napoletano Bordiga, fresco di nomina a primo segretario del Partito Comunista Italiano, solo quindici giorni dopo vi dedicherà un articolo per scrivere: «Il Comune è ritornato alla borghesia: vi è il commissario prefettizio, il quale ha ripreso la pratica dei favori, delle protezioni, delle clientele. Bene, bene, bene! I lavoratori guardano e giudicano». Sarà invece una settimana dopo l’”Ordine nuovo” di Gramsci ad assegnare a Castellammare il ruolo nazionale più volte riconosciutole: «Senza esagerazione possiamo affermare che il movimento sindacale e politico stabiese è il migliore della Provincia e non indegno di essere ricordato affianco ai vecchi di classe italiana».
Ma c’è anche un’altra storia, molto italiana anche questa. Dopo l’assalto piazza Spartaco ritornò ad essere piazza Municipio. Nel dopoguerra una giunta di sinistra la intitolò nuovamente a Spartaco, un nome che non era più soltanto il modo per ricordare lo schiavo e la sua rivolta ma anche l’eccidio di quel lontano giorno. Durò non molto perché un’amministrazione democristiana, con un colpo di astuzia raffinata, cambiò di nuovo il nome chiamandola piazza Giovanni XXIII. E anni ancora dopo una nuova giunta di sinistra, non potendo ferire i sentimenti popolari verso il “papa buono”, denominò piazza Spartaco un’altra piazza della città. Ma gli stabiesi, più furbi di tutti, generalmente chiamano il luogo simbolo della loro città piazza Municipio.
E per chiudere una terza nota molto personale. Quando si inaugurò al Corso Vittorio Emanuele la nuova sezione del Pci non fu difficile convincere il pittore stabiese, Antonio Gargiulo, a realizzare un affresco nel salone delle riunioni che ricordasse quel pezzo straordinario di storia cittadina e italiana. Ha resistito, la sua opera, a molti cambi di denominazione, questa volta del partito e non di una piazza, e sta ancora là. Non sapendo come andrà a finire non sarebbe inopportuno che si ponesse un vincolo a quel dipinto anche perché la politica è una cosa e la storia un’altra.
*Articolo pubblicato il 19 gennaio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno