Piazza Spartaco, cento anni fa la strage

Ci sono date che segnano la storia e ci sono luoghi in cui eventi significativi assumono valenza che supera i propri confini, come Castellammare dove in tempi non lontanissimi anche un’elezione locale poteva indicare una tendenza nazionale tant’è che in qualche partito si analizzavano con attenzione i dati per capire dove stesse andando il Paese. Ora accade che si debbano celebrare a distanza di un giorno ben due centenari: la nascita del Pci che il 21 gennaio 1921 si scindeva dal Psi e, il giorno prima, i fatti di Piazza Spartaco, vale a dire l’assalto dei fascisti provenienti da tutta la provincia al Comune amministrato da qualche mese dai socialisti. Fu, questo, l’episodio meridionale che faceva il paio con quello avvenuto due mesi prima a Bologna dove la neonata giunta di sinistra era stata battezzata con scontri, morti e l’assalto al Municipio sempre da parte dei fascisti.

A Castellammare il giorno dopo la strage, mentre era ancora in corso la caccia a quelli che avevano difeso Palazzo Farnese, fioccheranno le adesioni al partito che in quelle ore vedeva la luce nel teatro San Marco di Livorno. Chi coniò l’appellativo “Stalingrado del Sud” evidentemente pensava a questi trascorsi. Che ora si riassumono nella perfetta sincronia dell’anniversario del Pci e di quello degli scontri di Piazza Spartaco.

Antonio Barone, il compianto professore di lettere del liceo classico e poi convinto dall’autore di questo articolo a divenire lo storico del movimento operaio stabiese, ha ricostruito quelle vicende non edulcorando “gli errori, le ingenuità, le mosse affrettate”, si direbbe “infantili” secondo la lettura leniniana, che l’amministrazione socialista compì nei primi passi della sua attività, soprattutto in materia di politica sociale, che aveva allarmato la piccola e media borghesia locale, soprattutto i “bottegai”. Ma la delibera che, come un provvidenziale pretesto, provocò la reazione, aveva essenzialmente un valore simbolico: cambiare il nome di piazza Municipio, che fino a quel momento non ne aveva, in piazza Spartaco. Il riferimento era alla lega di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht intitolata allo schiavo romano, emblema del coraggio proletario. Il consiglio comunale votò il provvedimento il 18 gennaio, in due giorni i fascisti di Napoli e provincia organizzarono una marcia su Castellammare con l’obiettivo manifesto di arrivare davanti al Municipio e cancellare con qualsiasi mezzo l’onta.

Come una tragedia annunciata gli eventi si susseguirono in una giornata campale. Mentre il corteo dei fascisti proveniva dal cantiere navale, una folla di socialisti era davanti al Municipio ed altri erano all’interno. Lo scontro sarebbe stato inevitabile se polizia e carabinieri non avessero impedito il contatto, ma ciò non avvenne. Volarono oggetti, si verificarono sfondamenti, a nulla valse il tentativo di evitare che accadesse il peggio da parte del vicesindaco Pasquale Cecchi (sarà il primo sindaco comunista venticinque anni dopo) sceso da Palazzo Farnese.

«Due denotazioni – scrive Barone – lacerano l’aria. Il giovane maresciallo dei carabinieri, Clemente Carlino, si accascia a terra in una pozza di sangue, fulminato da un colpo alla fronte». Il seguito fu una vera e propria guerra con il Municipio che diventò un Forte Apache, in una confusione non più governabile. Il bilancio finale sarà di cinque morti (anche tre operai) oltre il carabiniere Carlino e di oltre cento feriti.

I socialisti, c’era anche il nonno di chi scrive, resistettero dentro il municipio fino alle 18, quando, dopo l’arrivo di rinforzi di cinquanta carabinieri e cinquanta guardie regie da Napoli, decisero la resa. Qualcuno riuscì a dileguarsi mentre si procedeva all’arresto di 150 persone. Fermi e arresti proseguirono nelle strade della città mentre veniva invasa la Camera del Lavoro, i cui dirigenti riuscirono a indire uno sciopero generale per il giorno dopo. Barone conclude così la cronaca della giornata: «Verso l’una di notte terminano i trasferimenti degli arrestati verso il carcere locale, mentre risuonano sul selciato i passi dei soldati in pattugliamento, in un’atmosfera di desolazione resa ancora più triste dal freddo e dalla pioggia che continua a cadere imperterrita senza riuscire a cancellare in piazza Spartaco le macchie di sangue di coloro che – come ricorderà tanti anni dopo l’indimenticabile compagno Luigi Di Martino – col martirio semplice, ma fulgido di gloria, diedero l’esempio di quanto amarono la libertà e i diritti del popolo». Nel processo, che si svolse nel febbraio 1922, tutti gli imputati furono assolti.

Si è detto degli errori “infantili”, ma quel consiglio comunale era stato liberamente eletto dai cittadini e democraticamente aveva approvato quella delibera che era nelle sue prerogative. Pur tuttavia le spiegazioni storiche sono più complesse come sottolineò Giorgio Amendola ricordando che il movimento operaio era, nelle sue varie componenti, impreparato a comprendere il fenomeno fascista e che la divisione nella sinistra era prevalente e fu decisiva per l’ascesa di Mussolini. Basti pensare alle assenti o tiepide reazioni ai fatti stabiesi. Il “Soviet”, il giornale del napoletano Bordiga, fresco di nomina a primo segretario del Partito Comunista Italiano, solo quindici giorni dopo vi dedicherà un articolo per scrivere: «Il Comune è ritornato alla borghesia: vi è il commissario prefettizio, il quale ha ripreso la pratica dei favori, delle protezioni, delle clientele. Bene, bene, bene! I lavoratori guardano e giudicano». Sarà invece una settimana dopo l’”Ordine nuovo” di Gramsci ad assegnare a Castellammare il ruolo nazionale più volte riconosciutole: «Senza esagerazione possiamo affermare che il movimento sindacale e politico stabiese è il migliore della Provincia e non indegno di essere ricordato affianco ai vecchi di classe italiana».

Ma c’è anche un’altra storia, molto italiana anche questa. Dopo l’assalto piazza Spartaco ritornò ad essere piazza Municipio. Nel dopoguerra una giunta di sinistra la intitolò nuovamente a Spartaco, un nome che non era più soltanto il modo per ricordare lo schiavo e la sua rivolta ma anche l’eccidio di quel lontano giorno. Durò non molto perché un’amministrazione democristiana, con un colpo di astuzia raffinata, cambiò di nuovo il nome chiamandola piazza Giovanni XXIII. E anni ancora dopo una nuova giunta di sinistra, non potendo ferire i sentimenti popolari verso il “papa buono”, denominò piazza Spartaco un’altra piazza della città. Ma gli stabiesi, più furbi di tutti, generalmente chiamano il luogo simbolo della loro città piazza Municipio.

E per chiudere una terza nota molto personale. Quando si inaugurò al Corso Vittorio Emanuele la nuova sezione del Pci non fu difficile convincere il pittore stabiese, Antonio Gargiulo, a realizzare un affresco nel salone delle riunioni che ricordasse quel pezzo straordinario di storia cittadina e italiana. Ha resistito, la sua opera, a molti cambi di denominazione, questa volta del partito e non di una piazza, e sta ancora là. Non sapendo come andrà a finire non sarebbe inopportuno che si ponesse un vincolo a quel dipinto anche perché la politica è una cosa e la storia un’altra.
*Articolo pubblicato il 19 gennaio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

 

Una ventata di buonismo sulla città

Una ventata di buonismo, ricorrente a dire il vero, soffia sull’anima di Napoli. Solita, quasi scontata, dopo ogni episodio di cattivismo, secondo la regola che ad ogni azione ne dovrebbe seguire un’altra di segno opposto. Dialettica affascinante ma anche stucchevole tra il male e il bene. Certo, in un mondo in cui la lotta tra i «buoni» e i «cattivi» è pane quotidiano, vedi quello che accade in queste ore nel cuore della «democrazia» planetaria, si rischia di essere un po’ provinciali a pensare che questo puntino del pianeta, la città in cui viviamo, sia il centro di tutto, ma Napoli è Napoli e noi siamo qui e, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti con il nostro pezzetto di terra e di storia, quasi un buco della serratura da cui scrutare l’universo.

Un ragazzo viene ucciso da un poliziotto mentre sta facendo una rapina. Si scopre il suo mondo, emerge il contesto sociale e familiare, si piange doverosamente la sua fine perché non la si può accettare se si pensa che quell’itinerario così pericoloso e sbagliato era potenzialmente già scritto. Immediata scatta la rivendicazione, legittima, di giustizia e verità sulla dinamica dell’accaduto per verificare come abbia agito il poliziotto, anche lui già condannato a portare con sé e per sempre l’immagine del proprio dito che preme il grilletto e stronca un’esistenza. Non finisce qui perché nel quartiere decidono di fare un murale che, mentre sottolinea la domanda di giustizia, trasforma in un mito da emulare quel povero ragazzo. Che non ha scelto di nascere, crescere e sparire in una famiglia che qualche settimana dopo sarà ulteriormente e indelebilmente funestata dall’omicidio del padre. Dov’è il bene? Dov’è il male?

Un artista, Jago, realizza un’opera particolare che viene collocata in piazza Plebiscito, il sito ormai mitico delle installazioni artistiche più significative della fine del secolo scorso: un feto di marmo pesantissimo accoccolato in terra che, secondo l’intento dichiarato, dovrebbe costringere i passanti a guardare in basso per una serie di molteplici interpretazioni. L’opera, come capitò in altre occasioni in una città esperta nello sberleffo — ricordate i capitoni nelle vasche davanti al portone del fu Banco di Napoli in via Toledo? —, è stata danneggiata, si è scoperto attraverso i social, da baldanzosi ragazzi. Apriti cielo! Caccia ai rei i quali incontrano l’artista e si pentono. Il bene e il male di nuovo si confondono. Capita che un rompiscatole — si chiama Eduardo Cicelyn, perché, come si fa in questo giornale, ha un nome e cognome — faccia urticanti osservazioni sul valore dell’opera e sulla dinamica della vicenda. Apriti cielo, di nuovo! Botta e risposta, in qualche caso anche come un messaggio cifrato, e la citata ventata dopo aver soffiato impetuosamente si disperde nell’aria così com’è comparsa.

Un napoletano che, come il James Stewart della hitchcockiana «finestra sul cortile» e con la variante moderna dell’ormai acclarata stabile appendice del corpo umano, filma un’aggressione con pestaggio e furto di scooter che avviene non nel cortile ma nella strada su cui affaccia. La vittima è un rider che sta portando cibo a domicilio. Un altro rompiscatole — ce ne sono a Napoli, non ci facciamo mancare nulla — rende pubblico il documento e succede il finimondo. Dopo il male il bene. La polizia, sempre solerte in queste occasioni mediatiche, scopre in tempi record ladri e scooter, mentre scatta un’universale gara di solidarietà, anche con qualche ombra, al derubato, che dal canto suo ha parole struggenti per attaccamento alla città e per civiltà. Provocatoriamente si poteva anche pensare che, una volta presi quei ladri, bisognasse buttare le chiavi, un modo per chiedere che la giustizia faccia fino in fondo il suo lavoro, ma poi si apprende che quei balordi sono minorenni tranne due ventenni, anche loro cresciuti in un contesto che ha segnato il loro destino, e allora il bene e il male si mischiano, fanno discutere. Perché l’altro corno del problema è nella condizione di quel rider, solo uno della serie dei rider scippati ogni giorno dello strumento di lavoro da riottenere in cambio di qualche centinaio di euro. Uno sfregio ai tanti che, piegati dalle necessità, si sono acconciati a un lavoro senza diritti.

Per dirla con Francesco, il fatto è che gli «scarti» sono tra noi, nell’esercito del male e in quello del bene. Troppo facile affidarsi alle buone azioni. Non vale per la chiesa, che ha la carità nel suo Dna, per cui la fila dei nuovi emarginati alla Mensa dei poveri, come ci ricorda insistentemente Antonio Bassolino nei suoi quotidiani pellegrinaggi urbani, è nell’ordine delle cose. Ma ci sono troppe buone azioni «sospese», dal caffè al paniere, dalla spesa alla Befana… Ben vengano, naturalmente, come l’euro che diamo al povero immigrato che fa la guardia davanti ai negozi. Servirebbe ben altro, anche in un tempo crudele e terribile come quello che da ormai da quasi anno ci angustia. Senza farla lunga, diciamo in sintesi estrema che occorrono buone azioni di… governo. A tutti i livelli. Vale per Napoli e per tutto il resto. La politica che cambia e indirizza, che dà risposte, che risolve, che aiuta, che ristora anche. Soprattutto meno spettacolo e autoreferenzialità e più sostanza. Non dipende solo da chi ha il potere di decidere ma da noi che gli diamo questo potere anche se ci asteniamo.

Banalità, direte, ma è banale anche il male come il bene. I quali rischiano di diventare ripetitivi luoghi comuni. E allora luoghi comuni per luoghi comuni rifugiamoci in quelli che qualche giorno fa su queste colonne ci ha ricordato Massimo Cacciari elencandone alcuni dei più significativi. Magra consolazione in questo buco dell’universo che è la nostra irripetibile e amata Napoli.

*Articolo pubblicato il 9 gennaio 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

LA POLIZIA NON RISOLVE
SOLTANTO I CASI MEDIATICI
di Alessandro Giuliano
Gentile direttore, a tutela dei miei collaboratori e del loro costante impegno mi corre l’obbligo di fare una precisazione rispetto ad una frase, contenuta in un articolo a firma di Matteo Cosenza e riferita alla rapina di Calata Capodichino, secondo cui la Polizia è «sempre solerte in queste occasioni mediatiche»: quasi che, nelle altre occasioni, non lo fosse, o lo fosse meno. Mi consenta di proporre una diversa chiave di lettura.E cioè che la maggior parte delle continue operazioni di polizia giudiziaria svolte dalle forze dell’ordine non raggiunge gli onori della cronaca tranne che in alcuni casi, attorno ai quali si è sviluppato un clamore mediatico che, inevitabilmente, si estende anche alla fase delle attività di Polizia.
Qualche esempio, solo a proposito di rapine avvenute negli stessi giorni? Il 30 dicembre, tre uomini sono stati individuati e bloccati poco dopo aver rapinato un coppia a Ponticelli; il 4 gennaio, è stata arrestata una coppia che aveva appena rapinato un automobilista in zona Gianturco, e lo stesso giorno un uomo che aveva aggredito e rapinato una signora a Soccavo; il 7 gennaio è stato arrestato un uomo che in piazza Nazionale aveva rapinato un automobilista dopo aver commesso la cosiddetta «truffa dello specchietto» e lo stesso giorno, a San Giorgio a Cremano, due uomini in scooter che avevano rapinato un giovane del suo cellulare e ancora, sempre il 7, in piazza Garibaldi, un malvivente che aveva appena rapinato una coppia di un borsello.
Tutte queste operazioni, puntualmente rese note agli organi di informazione, non hanno raggiunto le prime pagine (neanche le seconde); ovviamente non sta a me dire cosa debba essere pubblicato e cosa no, ci mancherebbe altro; ma certamente posso affermare che le donne e gli uomini della Polizia di Stato, e delle altre forze dell’ordine, sono solerti sempre e sempre profondono ogni possibile sforzo, anche nei casi meno «mediatici».
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So, e la ringrazio per averlo ricordato, che l’impegno dei suoi uomini non è «solerte» solo in occasioni di particolare attenzione collettiva. È interessante l’altra chiave di lettura che lei fornisce quando ricorda le tante operazioni che non hanno avuto gli onori della cronaca e riconosce che «il clamore mediatico, inevitabilmente, si estende anche alla fase delle attività di Polizia». Nel caso di Calata Capodichino alla valutazione della notizia, rilevante di per sé, si è sommato anche l’effetto dirompente del video virale. (ma. co.)
*La lettera del Questore e la mia risposta pubblicate il 10 gennaio 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

Padre Pio, un giornalista e il miracolo della fede

di ClAUDIA PRESICCE

Un giorno di molti anni fa un giornalista del Mattino venne chiamato dal direttore, a quel tempo Paolo Graldi, per un nuovo incarico. Doveva andare a San Giovanni Rotondo per assistere alla veglia dei trent’anni dalla morte di Padre Pio. Molti altri suoi colleghi avrebbero fatto carte false per raggiungere quei luoghi: il quotidiano era di aria democristiana e la maggior parte dei redattori erano cattolici praticanti. Lui invece, Matteo Cosenza, non aveva il dono della fede. E, forse proprio per evitare articoli inginocchiati ed estatici di fronte a quell’evento, era stato proprio lui il prescelto.

Cominciò così una lunga storia, di articoli e di vita, ricostruita oggi nelle sue tappe essenziali da Cosenza in “Padre Pio. Il vero miracolo” (Rogiosi Editore Pagg.112 Euro 12.50). Il libro segue la narrazione del giornalista del percorso dal 1998 al 2004, dalla speranza alla beatificazione di Padre Pio voluta fortemente da Papa Wojtyla, passando per la costruzione della grande chiesa di Renzo Piano a San Giovanni Rotondo. Cosenza fu l’autore delle cronache di avvenimenti fondamentali di quegli anni, raccolse storie dei tanti fedeli, ma non nascose la deriva speculativa e l’eccessiva mercificazione nata intorno a questa figura, soprattutto in quell’angolo di Puglia. Dall’altra parte a Pietrelcina invece su Padre Pio a quel tempo sembrava essere stato fatto davvero troppo poco.

«Non ero andato in Puglia per convertirmi e non mi sono convertito – scrive Cosenza – sui miracoli, che in quel luogo ti ritrovavi a ogni passo che facevi, non mi avventuro, ho le mie opinioni e non sono cambiate, ma un miracolo io lo trovai e lo raccontai, e credo sia il vero grande miracolo di Padre Pio, e chissà che non fosse proprio questo ciò che il direttore voleva che io raccontassi…».

Il vero miracolo era la fede della massa umana che il giornalista incrociava per le vie di San Giovanni Rotondo, gente innamorata di quel fraticello arrivata lì da chissà dove per andare a pregarlo. Le testimonianze intrecciate alle speranze, il dolore e la sofferenza affidati al frate con le stimmate.

«Ognuno può pensarla a suo modo, ma quella fede era essa stessa il miracolo. La religione della speranza affidata ad una preghiera, identificata in un umile fraticello diventato un mito planetario», spiega ancora.

Un fenomeno di grandi proporzioni che Cosenza ha trattato come un cronista oculato. «La gente accorre. E Matteo la registra – scrive nella prefazione padre Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Boiano – ne evidenzia i passi, ne descrive le emozioni, ne raccoglie le lacrime e gli entusiasmi. Ore di attesa, per confessarsi facevano quando Padre Pio era vivo. Adesso le ore le fanno per entrare nella sua tomba. Per poter pregare con calma, per trovare uno spazio alla confessione».

Non essere credente non ha significato porsi con atteggiamento di rifiuto o sdegnoso di-stacco, né farsi travolgere dall’estasi altrui. Davanti agli occhi del giornalista stava scorrendo gran parte della storia cristiana, umana e religiosa, a cavallo di due secoli, e meritava rispetto e attenzione, prima che giudizi.

«Quel vento, che diventò un uragano, Matteo Cosenza lo ha sempre descritto senza retorica (e soprattutto senza fare sconti agli eccessi di un certo turismo religioso, al circo mediatico che spesso accompagna talune manifestazioni di fede) ma raccontando la fede, la passione popolare. E dando soprattutto voce agli uomini, alle persone, alle loro storie, alle lo-ro passioni, alle loro sofferenze» scrive nell’introduzione Vittorio del Tufo.

*Recensione pubblicata sul “Quotidiano di Puglia” il 29 dicembre 2020

De Magistris e l’ipotesi “calabrese”

«Sarebbe una sfida interessante, si potrebbe anche vincere». Luigi de Magistris non finirà mai di stupire. Visto come è stata amministrata Napoli in questi anni si potrebbe sospettare che lui la notte non abbia dormito per pensare a come risolvere, avendo solo l’imbarazzo della scelta, qualche problema della città, ma soprattutto per capire quale destino disegnare per il suo personalissimo futuro. Un merito gli va riconosciuto: un’immaginazione sterminata compresa la capacità di escogitare ogni volta la mossa del cavallo.

Ora sta valutando l’eventualità di ritornare in Calabria per candidarsi alla presidenza della Regione. Ne parla con i suoi, credo soprattutto con sua moglie che è calabrese doc. In Calabria ci sono anche gruppi intitolati al suo nome. Non so quanto i calabresi auspichino questa prospettiva ma, considerato come sono andate le cose tra fallimenti politici, gestioni sbagliate e anche eventi luttuosi, non è da escludere che il pubblico ministero che ritornerebbe da politico navigato, quasi un figliol prodigo, potrebbe diventare non si sa se un vincitore ma sicuramente un protagonista della tormentata regione.

In ogni caso, in una terra ritenuta irrecuperabile, la sua popolarità mediatica (gli studi televisivi ne sanno qualcosa) potrebbe anche essere vista come una risorsa per invertire la pessima percezione.

Vivida è la memoria del suo vecchio lavoro nel palazzo di giustizia di Catanzaro. Le sue inchieste, osteggiate perché toccavano nervi scoperti del funzionamento della politica e della pubblica amministrazione, partivano da intuizioni fondate. Poi, per l’ostilità ambientale compresa quella di tanti suoi colleghi e anche per la sua voglia di arrivare rapidamente a conclusioni forse anche per non soccombere ai «nemici» del suo lavoro, quelle inchieste non hanno sortito gli effetti che promettevano. E lui ha lasciato la toga e la Calabria.

La sua cristallina onestà non è stata mai in discussione per quanto si possa immaginare che le risonanze magnetiche abbiano passato al vaglio la sua vita e quella di chi gli sta vicino. Chi scrive lavorò a quel tempo in Calabria e non ebbe mai dubbi tanto da scrivere che avrebbe comprato senza difficoltà un’auto usata da lui. Oggi farebbe lo stesso. Altra faccenda è la sua capacità di governare.

Il decennio ormai quasi completato della sindacatura dimostra la sua inadeguatezza a fronteggiare la complessità di una città unica e difficile come Napoli. Una città che si innamora facilmente del promesso cambiamento, fosse anche rivoluzionario, specie quando è alle strette e non vede prospettive rassicuranti. Figuriamoci se viene accarezzata con proclami, bandane, flotte, monete separatistiche, alberi metallici e corni… almeno questi ultimi evitati chissà se non per volontario scongiuro.

Inutile elencare i vari fallimenti, dal trasporto pubblico all’abbandono dei parchi, dall’ordinaria disamministrazione ai conti in clamoroso rosso tanto da dover consigliare una probabile legge speciale per la città che consenta ai futuri amministratori di poter operare. In fondo, del ricco dibattito di queste settimane a destra, centro e sinistra sul futuro sindaco il dato più confortante è proprio la prospettiva che lo Stato, chiunque vinca, provvederà a mettere un po’ di ordine e di ossigeno nei bilanci del Comune. Nel tempo saranno gli storici a inquadrare questo periodo e non è da escludere che il giudizio su de Magistris sarà condizionato dall’ultima fase, quella del duello insopportabile tra lui e il presidente della Regione De Luca; sarà anche complicato stabilire chi abbia avuto più colpe.

Comunque non è certo tempo di fare storia, de Magistris a suo modo è sempre in campo. Dieci anni fa nessuno avrebbe pensato che potesse farcela. Le sue ambizioni sono spesso apparse spropositate, ha coltivato anche il sogno di un «premierato», e così ora la via d’uscita calabrese – se non sceglie altri percorsi – non appare certo come un’aspirazione strampalata. Il fatto è che il suo genio tattico è straordinario. La Calabria, ritenuta residuale, è diventata mediaticamente, e non solo, centrale nel dibattito pubblico nazionale per i suoi primati negativi. Lo scenario ideale per uno che in quella regione ha radici profonde e che sa come stare stabilmente al centro dell’attenzione.

I calabresi, dopo tanto patire, potrebbero essere tentati. Chissà. Intanto il dado è lanciato. Quanto a Napoli fa tenerezza Alessandra Clemente, simbolo di tante cose importanti, sovraccaricata in questi anni di responsabilità immani e, infine, scagliata sulla scacchiera da cui uscirà il futuro sindaco di Napoli in guisa di pedone… sacrificale.

  • articolo pubblicato il 24 dicembre 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

 

Napoli deve ancora vincere il suo scudetto

In vita mia ho visto tante partite ma quasi sempre in televisione, allo stadio sono andato poche volte e tra queste ce ne sono due stampate nella memoria che mi suscitano sempre un sorriso dolce e tenero. Da bambino tifavo per la Juve ma più che per la squadra impazzivo per Sivori e Charles, il giocoliere e il gigante, la fantasia e la potenza, l’argentino e l’inglese. E quando la Juve venne a battersi con il Napoli di Achille Lauro costrinsi mio padre a fare un’eccezione alle sue domeniche tutte diffusione del giornale-pranzo-pisolino-cinema. Una volta nello stadio del Vomero mi sembrò di sognare. Avevo occhi solo per Omar, i suoi calzini abbassati e i gol, la vittoria schiacciante sul Napoli con il “Comandante” che non avrebbe voluto mai arrendersi alla sconfitta. Ma capii anche, quando durante un’interruzione del gioco attraversò la linea di bordo campo, si fece dare una banana, la sbucciò e la divorò, che lui era in totale sintonia con il pubblico in visibilio. Che fu poi accontentato, come sappiamo, quando Sivori indossò la maglia del Napoli. E anche io cambiai casacca. Perché, lo confesso, nel tempo mi sono reso conto di non tifare per una squadra ma per il campione, e forse non è neanche tifo vero e proprio.

Per la seconda volta cambiai stadio. San Paolo in una partita di festa assoluta. Dopo l’arrivo di Maradona con il primo saluto immortalato dalla sua entrata dalla scala sotterranea ci fu una partita amichevole di presentazione del campione. Andai anche io con mia moglie e le mie due figlie piccoline. Non seguivo molto il gioco e, perdonatemi, Maradona perché ero più interessato a loro ma mi ci volle poco per capire che in quel momento eravamo nel luogo più felice e sicuro del mondo. Mia figlia la più grande, nove anni, stravedeva, forse per eredità, per i campioni della Juve, Platini su tutti, e non so come i nostri vicini di gradinata vennero a saperlo. L’adottarono. La riempirono di attenzioni, in un clima festoso, di gioia vera. E tutti cercavano di convincerla a cambiare fede. Chi invece era impegnato in un altro tipo di educazione era seduto due grandinate più giù. Teneva con sé un bimbo piccolo, non avrà avuto più di tre o quattro anni. Quando Maradona fece uno dei suoi numeri scattò in piedi sollevando il figlio fin dove potevano arrivare le braccia, poi coccolandolo gli disse: «Guarda bene e studia, tu te lo devi imparare». Se avessi avuto dubbi quel siparietto mi fece capire che era amore a prima vista e che il futuro del Napoli sarebbe cambiato per sempre.

Dunque, ho tifato per Maradona più che per il Napoli. Come tutti ero, sono e sarò sempre strabiliato dalla sua arte. Lui in un campo di calcio, fosse anche un inzaccherato terreno di periferia, era oltre. Amavo Sivori ma i paragoni sono impossibili, perché chissà quando nascerà un nuovo Maradona. Ora, non voglio inserirmi nella discussione sul campione e sull’uomo, sui pregi e sui limiti, sono le cronache, i fatti, anche la tragica conclusione a raccontare questo contrasto insanabile della sua vita irripetibile. Mi piace solo sostenere che forse hanno ragione Ottavio Bianchi e altri quando dicono che nessuno ha detto i no che sarebbero potuti servire al campione dalle mille tentazioni e lo avrebbero aiutato a non precipitare nelle trappole sparse sul suo cammino. Ma questa ormai, per quanto se ne possa parlare ancora a lungo, è una storia chiusa, sepolta con la bara di Maradona. Non mancheranno gli strascichi, anche giudiziari e non solo se pensiamo ai tanti eredi, ma le magie del “dio del calcio” saranno ricordate per sempre e continueremo a vederle senza mai stancarci.

Starei, però, attento a non esagerare. Ci manca solo che qualcuno chieda di cambiare il nome della città e siamo al completo. Lo dico ora con voce bassa come feci quando il Napoli vinse il suo primo scudetto. Il lunedì sera, invitato da Aldo Biscardi in qualità di responsabile dell’edizione napoletana di “Paese Sera”, fui sul palco installato a piazza Plebiscito per “Il processo del lunedì”. Ovviamente si esagerava anche allora tant’è che lo scudetto della squadra veniva rappresentato come la conferma che Napoli stava vincendo o che avrebbe vinto tutti gli altri scudetti a cui aveva diritto. Il calcio, dunque, visto come un simbolo di riscatto non solo sportivo. Certo, c’era del vero anche in questo sentimento che, però, si fondava su desideri e non su azioni, progetti, impegni. Del resto, si è visto che la città gli altri scudetti che le servivano non li ha vinti perché ci voleva ben altro che il pur bellissimo e significativo traguardo calcistico. L’assioma era semplice: se una squadra di giocatori raccolta attorno al campione più bravo del mondo riesce a ottenere risultati tanto a lungo auspicati perché non si può avere un’altra squadra che faccia vincere la città nel suo funzionamento ordinario? Il tema è ritornato anche di questi tempi quando, dopo gestioni del Napoli fallimentari sul piano finanziario prima ancora che sportivo, si è aperta una fase nuova che, al di là dei risultati ancora desiderati più che raggiunti, è connotata da una gestione equilibrata.

Tornando a quella trasmissione, mi permisi, con molta prudenza, di non associare automaticamente lo scudetto alle condizioni e necessità della città. Non avevo torto, come purtroppo i fatti hanno dimostrato, ma, con il senno di poi, un discorso del genere era inopportuno. Non piacque neanche alla direzione del mio giornale secondo cui non saremmo stati in sintonia con i lettori. E oggi, di fronte al dolore vasto e profondo dei napoletani, non so se ripeterei quello che dissi allora. Ma lo pensavo e lo penso. E sono addolorato, ma non per la morte in sé perché questa è nel nostro destino e neanche per l’età troppo precoce per andarsene, quanto per le modalità, la sua drammaticità e le tappe progressive attraverso le quali si è determinata. Tutto ciò, per quanto ingiusto e insopportabile, ci restituisce un “dio” nella sua umanità, nella fragilità che è il dato costitutivo della nostra esistenza, nella solitudine di chi paga sulla propria pelle errori e colpe.

La gratitudine della sua gente è più che comprensibile, ma che non diventi un modo per dire che solo Maradona ha dato a Napoli per non chiedersi che cosa ognuno abbia dato e dia alla sua città. Napoli deve ancora vincere i suoi scudetti, a parte quelli un po’ solitari della squadra di calcio. Servono i geni, ma anche chi non lo è. La gratitudine potrebbe diventare una delega postdatata. Meglio non esagerare. Io preferisco ricordarlo con il bel titolo sullo storico gol contro l’Inghilterra, lo fece Daniele Azzolini, capo della redazione sportiva di Paese Sera: Superman. Super certo, ma anche un uomo.

* Articolo pubblicato il 5 dicembre 2020 sul “Corriere del Mezzogiorno”

Padre Pio, il vero miracolo

di FLORIANA GUERRIERO

«Non ero andato in Puglia per convertirmi e non mi sono convertito. Sui miracoli ho le mie opinioni e non sono cambiate. Ma un miracolo io lo trovai e lo raccontai e credo che sia il vero grande miracolo di Padre Pio». È uno sguardo sempre rispettoso ma profondamente laico quello che il giornalista Matteo Cosenza consegna ai suoi lettori, chiamato a raccontare come cronista del Mattino la sua ascesa agli altari. Sarà il direttore del Mattino a sceglierlo inaspettatamente per il difficile compito di raccontare la veglia dei trent’anni dalla morte e poi il lungo cammino fino alla proclamazione a santo. Comincerà allora il tentativo di comprendere il miracolo della fede, a partire dalla capacità di San Pio di muovere le folle.

«Quando scesi dall’auto davanti all’Hotel degli Angeli avevo chiaro quello che avrei fatto. Guardare, cercare, capire e raccontare stando sulla soglia, in punta di piedi con curiosità e rispetto». A prendere forma tra le pagine sono le tante storie del popolo di Padre Pio, uomini e donne in attesa di grazia, studenti orgogliosi del proprio santo o medici agnostici. C’è chi viene qui da sempre e chi arriva a San Giovanni Rotondo per la prima volta. Fin da quella veglia di preghiera a trent’anni dalla morte il 23 novembre 1998 Cosenza comprende bene come di fronte a lui c’è il popolo dei deboli: «Anziani in cerca di certezze, ammalati, persone preoccupate per la salute di qualche caro, portatori di handicap, tanti esclusi che in una società che alle soglie del Duemila trasmette messaggi di opulenza, avvertono tutta la fragilità della vita, si sentono minacciati dalla violenza, dal dolore».

Con una candela, un rosario, un libretto sono quasi insensibili al freddo. Ripetono che «siamo più vicini a Dio attraverso Padre Pio». «È uno dei profeti di questo nostro secolo nel quale ci sono tanti falsi profeti». Donne come Rosanna Bani che da cinque viene a San Giovanni Rotondo: «Non chiedo niente, salvo che mantenere la fede e la serenità. Qui mi sento una spinta, una carica». Un racconto nel quale entrano con forza anche le storie di miracoli, come quello di Consiglia Di Martino e della sua guarigione inspiegabile, di Wanda Poltawska, affetta da un tumore alla gola, Papa Wojtyla chiese a Padre Pio di pregare per lei, per poi informarlo che la dottoressa Poltawska «prima di entrare in sala operatoria è misteriosamente guarita». Sarà, poi, la dottoressa polacca a visitare la tomba e a scrivere sul registro dei pellegrini: «Sono felice per questo giorno. Il Santo Padre mi ha detto che ogni giorno prega per la canonizzazione di Padre Pio». Ma è anche un universo in cui c’è chi continua a specula-re sulla fede per Padre Pio, la cui imma-ine viene venduta in ogni dimensione, come spiega Padre Pacifico Giuliano, direttore della Libreria di Padre Pio: «Non se ne può più. Stamattina è venuto uno che voleva comprare l’olio di Padre Pio, gli ho detto di andare al supermercato. E poi chi vuole il profumo, chi la tabacchiera».

Senza dimenticare gli alberghi, i negozi, i ristoranti che hanno occupato tutto ciò che si poteva attorno al santuario. Cosenza non esita a parlare di scempio, dal progetto di costruzione di 91 alberghi per portare i 1800 posti letto e ad oltre seimila agli indici di fabbricabilità saltati, fino alle deroghe al Piano Regolatore con gli alberghi fatti passare per opere di pubblica utilità. Il tutto intorno alla chiesa di Renzo Piano, autentica meraviglia dell’architettura contemporanea. Quello che non è Pietrelcina, dove la comunità ha scoperto tardi la portata del fenomeno Padre Pio e fa ancora fatica a farci i conti, a rispondere alla forte domanda di turismo religioso. Eppure Pietrelcina con la sua dimensione francescana è ancora una tappa fondamentale dell’itinerario di fede, dove si continua a respirare il senso più autentico della fede.

Un racconto, quello di Cosenza, che non può dimenticare il tripudio di fuochi d’artificio, i 50.000 fazzoletti e cappelli che sventolano nella piazza di San Giovanni Rotondo per salutare la beatificazione di Padre Pio mentre trasmettono le immagini del Pontefice in Piazza San Pietro do-ve sono altri tremila sangiovannesi fino all’esposizione della statua in chiesa «poiché ora che è beato è finalmente possibile». O ancora l’incontro con i pellegrini in marcia dall’Abruzzo verso Monte Sant’Angelo per pregare nella grotta di San Michele fino al manipolo di fedeli guidati da Padre Antonio Gambale che marciano a piedi da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo per ricordare i tanti pellegrinaggi a piedi che i pietrelcinesi facevano da decenni su carri, muli e biciclette per andarlo a trovare a San Giovanni Rotondo e il trasferimento in elicottero della statua della Madonna della Libera dalla chiesa madre alla sala della tomba del beato. Tra loro c’è anche chi come Egidio Cavallucci è un medico dell’ospedale Rummo di Benevento, da sempre schierato a sinistra, che non esista a definirsi ateo: «Mi intriga la sua figura per le masse che mette in movimento. La fede non ce l’ho, semmai invidio loro che ce l’hanno. Io faccio l’anestesista rianimatore e sono a contatto con la morte. Quando in una notte spirano tra le due braccia tre persone io ne esco distrutto e senza spiegazioni, mentre vedo i parenti addolorati e sereni perché hanno la fede». Non ha dubbi Cavallucci: «La fede è l’unica ancora in grado di dare speranza agli ultimi».

Poi la decisione di Wojtyla, il 16 giugno del 2002 Padre Pio è proclamato santo, è il padre guardiano del convento di Santa Maria delle Grazie a mettere in guardia: «La Chiesa ci propone i santi per imitarli e non certo per i loro miracoli. Ora dobbiamo essere in sintonia con gli insegnamenti che ci ha lasciato Padre Pio». Poi la folla straripante e commossa di San Giovanni Rotondo che ha fatto sì che il momento religioso avesse il sopravvento su tutto in occasione della proclamazione di Padre Pio a Santo, al di là dei timori della vigilia di isterismi e fenomeni da baraccone. In sessantamila provenienti dalla provincia o ancora da Puglia, Basilicata, Calabria, Campania, ligi alle regole, perché tutti possano partecipare alla festa. E anche in quella cerimonia di festa la sofferenza è palpabile, la si vede nelle 250 carrozzelle dell’Unitalsi, circondate da centinaia di volontari o ancora negli ammalati affacciati alla Casa sollievo della sofferenza, altra opera straordinaria realizzata da San Pio. «Qui è la civiltà – ricorda Cosenza – perché in questo luogo i diversamente abili sono persone e vengono prima degli altri». Sofferenza che è nella storia di San Pio e nel corpo del pontefice Wojtyla, piegato e dolente nell’annunciare il nuovo santo e nel rivolgere a lui una preghiera toccante: «Umile e amato Padre Pio insegna anche a noi l’umiltà del corpo».

Poi la sfida del grande architetto Renzo Piano di realizzare un luogo di culto di massa che valorizzasse lo spazio della fede. Piano tentenna, per lui non ha senso quella richiesta dei frati di costruire la chiesa come uno spazio che non sia di raccoglimento. Infine la scelta di cimentarsi in quel progetto che sembra impossibile. Oggi sorge a valle della chiesa dove Padre Pio si affacciava dalla sua cella lungo un tratto scosceso. «La pietra degli archi, il legno della copertura, l’armonia delle linee trasmettono l’immagine di una conchiglia che deve racchiudere uno spazio di religiosità». Ma è lo stesso Piano a mettere in guardia: «Mi auguro che questa chiesa venga difesa. La scommessa è di far vincere il bene sul male, di far tacere i mercanti del tempio e di avere un dialogo con sé stessi».

* Articolo pubblicato il 29 novembre 2020 sul “Quotidiano del Sud” edizione irpina

 

Viaggio nella fede degli umili

di FRANCESCO DANDOLO

Fu Gabriele De Rosa, grande storico del Novecento, a documentare che la religiosità popolare era un fenomeno complesso. Da non guardare come si faceva e si fa tutt’oggi in modo altezzoso, ma piuttosto da comprendere nel contesto socio-culturale del Mezzogiorno.

In realtà nel caso di Padre Pio, al centro del bel libro di Matteo Cosenza (“Padre Pio, il vero miracolo”, Rogiosi), si va oltre l’Italia meridionale. Infatti, la devozione attorno al Santo di Pietrelcina raduna un popolo variegato e di diversa condizione: «Non ci sono argini per contenere il fiume in piena» commenta Cosenza. Un popolo in larga parte fatto di deboli, anziani, disabili, gli esclusi o come li definisce papa Francesco gli «scarti» della nostra società. Sono loro i protagonisti di queste pagine. Gli umili e i semplici, come lo è Padre Pio. Espressione di un’umanità dolente, ma non per questo triste e arrabbiata. Lo si percepisce nelle pagine di questo libro, in cui affiora una moltitudine di fedeli contraddistinta da un’incondizionata fiducia nel Santo che da un canto trasmette un’immediata immedesimazione – parla come i semplici – e dall’altra si mostra autorevole con le sue stimmate, inconfondibili segni della presenza divina nel suo corpo. Devoti pronti a difenderlo dall’attacco delle istituzioni ecclesiastiche perché convinti di trovarsi dinanzi a una persona che già in vita emana profumo di santità. Ma in questo popolo vi sono persone di assoluto rilievo. Fra questi ha un ruolo particolare Giovanni Paolo II che nel 1962 domandò a Padre Pio di intercedere per la guarigione di una sua amica.

Si tratta di un popolo che brilla nei suoi comportamenti collettivi per compostezza e sobrietà, soprattutto quando si raduna in decine di migliaia, occasioni in cui – nota l’autore – il dolore e la sofferenza si trasformano in bene. Una domanda di guarigione che trova risposta anche nell’ospedale che nel nome di Padre Pio è una struttura sanitaria modello dell’Italia meridionale.

L’apice lo si raggiunge il giorno in cui Padre Pio è proclamato santo: si respira la cultura del prossimo nell’attesa di un miracolo, che se riversa i suoi positivi effetti sul singolo si tinge subito di una partecipazione unanime. Continua nel nome di Padre Pio l’antica devozione taumaturgica che ha riempito la storia del cristianesimo nelle regioni meridionali con un chiaro fondamento evangelico: tanta parte della vita di Gesù si caratterizza per aver compiuto miracoli. Così un’incessante invocazione pervade il libro, sussidiata da tanti volontari, per lo più giovani al servizio di chi soffre e rivelatori di un’autentica civiltà: «Perché in questo luogo questi disabili sono persone, anzi vengono prima degli altri». Innanzitutto vengono prima per la fede che li anima. La manifestazione di questa fede è la chiesa progettata da Renzo Piano che permette ai tanti che vi entrano di raccogliersi in modo intimo «nell’aura che domina questi spazi». Ed è significativo che gli archi della chiesa convergono tutti in direzione delle spoglie di Padre Pio, nell’intento di creare un legame tra il luogo della preghiera e l’intercessione di Padre Pio. Un modo di concepire l’architettura che si contrappone alle costruzioni segnate da una modernità che sull’onda del turismo religioso si mostra irrispettosa nei confronti dei sentimenti che suscita quel luogo.

Si potrebbe pensare che sia un libro scritto da un seguace di Padre Pio. L’autore, invece, si definisce agnostico, inviato del suo giornale a San Giovanni Rotondo in occasione della veglia a trent’anni dalla morte di Padre Pio. Vi giunge senza pregiudizi, motivato da una gran voglia di capire e ascoltare. Si imbatte in una realtà inedita, osservata con molto rispetto che lo rafforza in una ricerca interiore, mai sopita. Una ricerca ancora attuale di fronte alle grandi domande della vita che traggono spunto dai semplici e umili fedeli di Padre Pio. E in effetti è proprio così: guardando gli ultimi si riscopre il senso vero della propria esistenza.

* Articolo pubblicato il 2 dicembre 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

Il santo raccontato dal giornalista ateo

 

di PIETRO GARGANO

Un bravo giornalista deve essere una brava persona, onesta, capace di raccontare pure i fatti che si intonano alle proprie idee. Non è un ragionamento da critico ma è il primo pensiero dopo aver letto l’ultimo libro di Matteo Cosenza, “Padre Pio, il vero miracolo” (Rogiosi, pagine 112, euro 12,50). Il secondo pensiero è stato: ”Il Mattino” ha avuto e ha campioni del mestiere, avrebbe dovuto, e deve, far sentire la sua voce in tutto il Paese.

La storia cominciò quando il direttore Paolo Graldi ordinò a Matteo di fare un’inchiesta su Padre Pio, pur sapendo che egli non credeva in Dio e men che mai nei miracoli o nelle stimmate. Matteo andò, per disciplina ma pure per curiosità: voleva cercare, capire e raccontare i motivi della devozione corale per quel piccolo frate. Ora ha ritrovato gli appunti di quel viaggio e li ha ordinati in volume. Soprattutto ha risentito lo stupore. Ne spiega i quattro aspetti: la fede della gente umile, dei fragili; la sofferenza che diventava gemito; le folle che correvano alla tomba del padre e l’arte che ne ha raccolto il fascino in strutture ardite, come la basilica ideata da Renzo Piano.

Le pagine sono il frutto di un amore laico e della convinzione orgogliosa che un’inchiesta giornalistica può aiutare a svelare i misteri, perfino quella fede di popolo, battezzata con il nome di “vento”. Talora diventato uragano. Certo, c’è l’industria del sacro, a volte pacchiana. Certo, ci sono i tanti cantieri delle nuove case. Certo, ci sono alberghi e alberghetti. E finte rose blu, statuine, santini. L’urbanistica del paese ne è sconvolta, come il buon gusto. Ma è il prezzo da pagare, per onorare il santo, e per uscire dalle arretratezze del passato. In compenso ci sono un ospedale all’avanguardia, una Casa per ragazze madri, cento altre strutture di solidarietà.

Il volume è onorato dai contributi di Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso, e di Vittorio Del Tufo, autorevole firma del nostro giornale. Aiutano a capire. Matteo spiega i suoi dubbi: «Se chiudi gli occhi senti che in cinquantamila formano un cuore solo. Esagerato? Tutto qui è esagerato. Ma o ci sei dentro con la fede o guardi da fuori e non capisci, o ti fermi sulla soglia con un piede di qua e uno di là per prendere cognizione prima ancora che comprendere».

Non mancano le tappe a Pietrelcina, con spunti originali. Ad esempio le nozze di Maria Teresa Iadanza di Pietrelcina con Matteo Manciacotti di San Giovanni Rotondo, un ponte tra i due luoghi del Frate. Ad esempio il prodigio delle campane che suonano da sole, narrato a voce bassa: «Qui l’incontro con i miracoli è quanto di più facile possa accadere. Se non li cerchi, sono loro a inseguirti».

Anche chi scrive, in un’altra epoca, andò da Padre Pio. Il guardiano del convento mi portò davanti a una statua del Frate: «In chiesa mancava un simulacro di Sant’Antonio e lo ordinammo. Aprimmo la cassa e fu uno schianto: era Padre Pio, non il santo di Padova. Avemmo quasi paura, così la cassa fu portata negli scantinati. La mettemmo qui dopo la morte del Frate. Ma non lo scrivere, tra i devoti ci sono dei fanatici, romperebbero la statua per ricavarne reliquie». La storia era bella e la pubblicai. Poco dopo mi ruppi una gamba in un incidente d’auto e mi convinsi, da superstizioso, ch’ero stato punito da Padre Pio.

Un anno dopo ero ancora a letto, la gamba non si muoveva di un millimetro. Una notte fui svegliato da un profumo di viola, quello dei miracoli. La coperta si muoveva, era il mio piede. Scoppiai a piangere, chiamai mia moglie. Mi aspettavo di rialzarmi come Lazzaro. Non fu così, ma mi rimisi in piedi. Lo racconto non per protagonismo, ma perché ho promesso di farlo, da testimone laico, ogni volta che ce n’è occasione.

La conclusione a Matteo, com’è giusto. Anche perché è un lieto fine, quasi un prodigio. Ogni giorno veniva al Chiatamone don Enzo Calabrese, navigato prete. Rastrellava giornali e tentava di rastrellare anime. Matteo lo sfrucoliava per la mania di profumarsi. Una volta gli parlò delle nozze civili e gli disse di aver intuito il desiderio della moglie Anna di sposarsi in chiesa. Don Ezio fece tutto da solo. Un giorno Matteo, Anna, le figlie e la madre andarono insieme nella grande chiesa di via Santacroce. Venticinque anni dopo il matrimonio civile, Matteo disse un’altra volta sì.

  • Articolo pubblicato il 2 dicembre 2020 su “Il Mattino”

 

Quegli esempi di sanità che funzionano

Di ritorno da un incubo durato 24 giorni si può ricavare qualche indicazione che vada al di là dell’esperienza personale? Nel suo editoriale dei giorni scorsi Procolo Mirabella ha pacatamente ricordato lo stravolgimento del nostro sistema sanitario in anni di tagli, di finanziamenti squilibrati, di sottovalutazione concreta delle strutture pubbliche e di guasti che sono stati messi drammaticamente a nudo dalla pandemia. Occorre ripensare tutto, rivedere modi, procedure e risorse e finirla con l’associazione tagli lineari-maggiore efficienza-meno sprechi e corruzione. Anche perché qualcuno – tutti quelli che hanno lavorato per smantellare di fatto il primato della sanità pubblica riuscendoci, fortunatamente, solo in parte – dovrebbe rispondere alla domanda: è paragonabile il danno finanziario di oggi ai risparmi degli anni scorsi? Da dove ripartire? Dal buon senso, dall’esperienza del passato, dalle cose che funzionavano, soprattutto dal primo protagonista del sistema, dalla base della piramide senza la quale la costruzione crolla: il medico.

In una famiglia formata da padre, madre e due bambini di cinque e tre anni, appena appresa la notizia che il collega del primo era risultato positivo è scattato l’allarme. Primi colpi di tosse e altri fastidi che ormai scrutiamo con gli occhi spalancati e le orecchie stappate. Immediata la paura con corredo di cattivi pensieri. Domenica mattina. Prima telefonata al medico di famiglia, una dottoressa di grande esperienza e disponibilità (anche all’una di notte risponde, sempre). Lei intuisce subito il pericolo e prescrive la terapia anti-covid. Intanto, l’interessato (non ha febbre) si reca con tutte le precauzioni al Cotugno e si mette in fila davanti alla “casina rossa” per fare il tampone. Nel frattempo chi scrive era in giro per farmacie. Lui, tornato a casa, pur senza sapere di essere positivo o negativo, inizia la terapia. Due giorni dopo saprà di essere positivo, ma intanto è già sotto farmaci. Un vantaggio che anche un ignorante in medicina capisce quanto sia stato importante.

Secondo tempo. Uno dei tre farmaci, l’antibiotico, non è sufficiente e dopo quattro giorni si manifesta la febbre con punte molto alte. Nuovo allarme, angosciante. Un familiare ricerca il numero dell’Usca e telefona. Dopo un’attesa non lunghissima una voce: «Sono… mi dica». I nomi (questo come quello del medico di famiglia) dovrebbero essere fatti, ma è meglio di no perché qui parliamo di un sistema e non delle persone, sapendo che dobbiamo riconoscenza infinita a tutti i medici, infermieri e al personale sanitario che sulla trincea più esposta stanno combattendo per la nostra salute e la nostra vita.

Dunque, la dottoressa dell’Usca si fa spiegare la situazione e immediatamente ordina di cambiare l’antibiotico e si accomiata dicendo: «Mi chiami domani e mi faccia sapere». Il giorno dopo risponde al telefono e prescrive alcuni esami chiedendo di avere i risultati via Whatsapp. L’interlocuzione triangolare tra familiare, medico di famiglia e medico dell’Usca continua. La febbre scompare, il saturimetro fornisce dati confortanti, i giorni di quarantena terminano e, un sabato mattina, senza alcuna richiesta, arriva il pullmino con gli addetti al tampone. Dopo qualche giorno la buona notizia e l’incubo finisce.

È scontato che si possono raccontare esperienze di segno diverso, di assistenza inadeguata, di attese insopportabili, di mancate risposte, di disorganizzazione, di solitudine sanitaria prima ancora che umana, e, quindi, una testimonianza non fa testo e neanche statistica per quanto sarebbe bello credere che lo sia, ma ciò che conta è il suo significato. Non si può pensare di non partire da qui, dalla medicina di base, primo tassello di un sistema che preveda al meglio e al massimo, in una sequenza di contagiose positività, le Asl, gli ospedali, il personale, la ricerca. Lo dobbiamo all’esperienza tragica nella quale siamo precipitati, alla salute e alla vita che restano i beni più preziosi. Basterà ricordarsi di una domanda: quanto ci stanno costando, socialmente ed economicamente, il virus e l’impreparazione, che è fatta di messaggi sbagliati e di nostri comportamenti individuali troppo disinvolti ma anche di politiche che hanno devastato la nostra sanità pubblica. Non si ripartirà da zero, ma ci sarà molto da lavorare e non si potrà non farlo.

*Articolo pubblicato il 1° dicembre 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

Una colonna sonora sottovoce

di TIZIANA ESPOSITO
“Silenzio, compostezza, commozione. Se chiudi gli occhi senti che in cinquantamila formano un cuore solo. Esagerato? Qui tutto è esagerato. Ma o ci sei dentro con la fede o guardi da fuori e non capisci, o ti fermi sulla soglia con un piede di qua e uno di là per prendere cognizione prima ancora che comprendere…quando Giovanni Paolo II lo proclama beato, un tremito passa come una corrente dalla chiesa al sagrato, da viale Cappuccini all’ospedale, dalla Via Crucis a viale Padre Pio. Ma nella chiesa accade qualcosa di inconsueto. Si alza un suono strano…un inno di gioia, fatto di un battito di lingua che ricorda altre culture, altri continenti. È Colette, una fedele del Camerun…Padre Pio, dice poi con il volto gioioso rigato dalle lacrime, è…Padre Pio”
La fede, nella vita di ognuno di noi, prende strade differenti e compie strani giri. C’è chi, educato alle regole della religione cristiana fin da bambino, continua a credere fermamente in esse anche da adulto, rafforzandole; d’altra parte ci sono quelli che, pur avendo ricevuto un’educazione religiosa, la perdono poi per strada, per i motivi più svariati, e continuano a vivere contenti del loro ateismo.
In mezzo stanno coloro che per tutta la vita coltivano il dubbio, nutrono la speranza, ma non riescono, forse non si sentono degni di definirsi credenti. Io faccio parte di questa categoria di fede che potrei definire altalenante, e mi capita, a volte, di sentire il bisogno di entrare in una chiesa, magari una piccola e fuori mano, e guardare fisso verso un altare, ritornando indietro nel tempo. In quei momenti mi tornano alla mente canti ascoltati quando frequentavo l’Azione cattolica, tanti anni fa, e poi risentiti, da mamma, alle messe del catechismo dei miei figli. Resta con me, Tu sei la mia vita,Dolce sentire…
Leggendo “Padre Pio il vero miracolo” ,di Matteo Cosenza, mi è tornato alla memoria e mi è rimasto, come una colonna sonora cantata sottovoce, “Il tuo popolo in cammino cerca in te la guida…”. E con questo sottofondo solo mio ho continuato a leggere…
Il libro raccoglie una serie di articoli scritti per il Mattino in vari momenti legati alla figura di San Pio, come il trentennale della morte, la beatificazione e poi la santificazione, il trasporto, faticoso e devoto, della statua della Madonna della Libera da Pietrelcina a S.Giovanni Rotondo, la costruzione della chiesa dedicata al frate da Renzo Piano… E in tutti questi pezzi di un lungo reportage Matteo insiste su quello che, secondo lui, giornalista laico ed agnostico, è il vero miracolo di padre Pio: la capacità di muovere le folle, di suscitare il “vento” di una fede paragonata, nella mirabile introduzione di Vittorio Del Tufo, ad “un fuoco che continua ad ardere”. In pratica, la forza di un uomo, un piccolo e testardo frate che, in vita e in morte, fa muovere le persone, mette in cammino il suo popolo.
Non è l’unico miracolo che Cosenza trova in questa figura carismatica e leggendo il suo libro ci rendiamo conto che ognuno di noi può trovare quello che più gli assomiglia: la speranza di una guarigione, il desiderio di partecipazione, la voglia di contare…Fino ad arrivare a quelli citati nell’altra bellissima introduzione di Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Boiano, la speranza che si fa convinzione che “c’è sempre una via di uscita”, soprattutto nella solidarietà, e la necessità, perché ogni miracolo possa manifestarsi, che “il silenzio ritorni tra queste colline”. Lo stesso silenzio che molti, come me, guidati dal dubbio, ricercano nelle piccole chiese nascoste e nei canti ascoltati da piccoli. Lo stesso silenzio che cerca l’autore, ve ne renderete conto arrivando alle ultime pagine del libro.
Parlando con Matteo ,giorni fa, ricordavo il motivo che mi lega, dal punto di vista umano e familiare, al frate di Pietrelcina e lui, giustamente, mi ha risposto che, in fondo, in ognuna delle nostre famiglie c’è un po’ di questo personaggio. Lo sa bene lui, nella dedica che offre a sua mamma, lo sa ancora di più sua moglie, citata due volte nel testo, in due momenti di grande intensità emotiva.
Un libro che mi sento di consigliare a tutti:a chi, ateo convinto, vuole studiare un fenomeno di massa guidato dalle riflessioni di un bravo giornalista; al credente, per trovare conferma e conforto; a chi è in dubbio e in cammino, perché ha la possibilità di compiere un viaggio insieme all’autore.
* Recensione pubblicata nel gruppo “Una città che legge” di Facebook