Unical, buon compleanno

Cinquant’anni di vita e, si può dire, non li dimostra. L’Università della Calabria nacque da una vicenda tragica, gli scontri per Reggio capoluogo, uno stato d’assedio senza precedenti nella storia repubblicana, concluso con la sfilata dei carri armati per le strade della città e sancito da un compromesso, il Pacchetto Colombo, che spezzò in due la nascente Regione, con sede del governo a Catanzaro e sede del consiglio a Reggio: al riguardo va detto con il senno di poi – ma le cose erano chiare anche allora – che non c’era modo migliore per far fallire la nuova e tanto attesa articolazione dello Stato. Piuttosto va sottolineato il ricordato pacchetto Colombo: centro siderurgico a Gioia Tauro (mai nato mentre venivano distrutti terreni altamente produttivi per far posto al porto), un po’ di mance qua e là e la nascita dell’Università a Cosenza. L’ateneo fu poi realizzato sulla collina di Arcavacata nel comune di Rende, dall’altra parte del pianoro su cui sovrasta con gli splendori del passato la vecchia Cosenza.
Nacque come qualcosa di nuovo, un campus, grazie a una personalità straordinaria quale Beniamino Andreatta ma il parterre, se pensiamo solo a Paolo Silos Labini, era di prim’ordine. E tali furono i progettisti e poi i docenti che calarono su quei cubi e su quel ponte per scommettere sulla Calabria delle idee e delle competenze e su un altro Sud.
Scommessa vinta? Bisogna chiederlo alle migliaia di studenti che lì si sono fatti le ossa e si sono laureati. Molti sono andati via, e continuano a farlo, ma questo è un altro problema che non attiene alle responsabilità dell’Università, che forse nel tempo ha accumulato il limite della separatezza, vale a dire la carente ricaduta del suo ruolo sulla società calabrese nei suoi vari aspetti, politica in primis.
Se ne può discutere, ma su un fatto non ci sono dubbi: per quanto dentro un compromesso che alla fine è risultato un fallimento per la Calabria, quella scelta fu giusta. La Calabria sarebbe davvero altra cosa senza quell’ateneo, che è un patrimonio concreto di intelligenza e di studio, di competenze e di cultura, anche di tensioni gravi e in qualche modo vitali se solo si ricordano gli anni tempestosi del terrorismo quando da quelle parti si aggiravano arcavacanti e lupi mannari.
Nei miei anni di lavoro in Calabria, terra che frequentavo anche prima e continuo a farlo con gioia immensa, ho sempre pensato che quell’università potesse essere la leva per invertire la storia calabrese, nel senso di rinnovarla, darle un colpo d’ala, liberarla dalle catene del pregiudizio e della cattiva percezione interna ed esterna. Finora non è stato così o lo è stato solo in piccola parte, ma sono sempre convinto che da lì potrebbe venire la sterzata che cambia in profondo lo stato di cose. L’augurio è che ciò possa avvenire nei prossimi cinquant’anni ma da subito e non tra cinquant’anni, soprattutto che i giovani non si sentano in transito in quelle aule: vadano pure altrove in un mondo senza confini ma possano anche ritornare altrimenti la loro sarebbe una fuga, il peggio che possa capitare e che finora è capitato troppo spesso.

La saggezza è condizione della felicità

Parricidio, incesto, infanticidio… il pensiero va a Edipo e alle tragedie di Sofocle che ne hanno reso eterno il dramma. Storia nota, visitata e rivisitata, assurta a gettonata materia scientifica nell’omonimo complesso freudiano, memorabile l’omonimo film in cui Pasolini confessa, alla sua maniera, di essere Edipo. Si può ancora scriverne senza correre il rischio di ripetere cose risapute? Evidentemente sì se non si smette di produrne. Appena qualche mese fa Luciano Violante con “Insegna Creonte” ha ricomposto con un’intrigante lettura la sua esperienza di magistrato e di politico. Ma già prima, tre anni fa, insieme a Marta Cartabia aveva affrontato il tema con “Giustizia e mito”, qui facendo i conti con Antigone, Edipo e Creonte, e i rispettivi conflitti tra coscienza individuale e ragion di stato, tra colpa e errore, tra la legge e la sua violazione. Ed ecco fresco di stampa un nuovo libro, “Cháos“ (editore Marcianum Press, 102 pagine, euro 13). Lo ha scritto Raffaele Bussi che ritorna, dopo l’intermezzo del libro sul suo concittadino stabiese Michele Tito, all’amata cultura classica greca già raccontata in “Ulisse e il cappellaio cieco”.

Si sa, Laio, re di Tebe e marito di Giocasta, apprende dall’oracolo di Delfi che il suo prossimo figlio lo avrebbe ucciso e avrebbe sposato la madre. Crede alla profezia, e fa deportare il figlio in una foresta. Salvato da un pastore e allevato poi dal re di Corinto, Polibio, il bambino viene chiamato Edipo per il piede gonfio a causa delle ferite procurate dai morsi delle bestie. Da grande Edipo incontra Laio e, ignorando che fosse il padre, lo uccide. Diventa poi re di Tebe, dopo aver risposto all’enigma della Sfinge, che impediva a chiunque di entrare nella città, ricevendo in cambio il trono da Creonte e sposandone la sorella Giocasta, ignaro che fosse sua madre. Dal matrimonio nascono quattro figli dei quali lui è padre e fratello. Quando si scopre la verità Giocasta si impicca e lui si acceca e poi se ne va mendicando nell’Attica accompagnato dalle figlie Antigone e Ismene.

Bussi inizia da qui il suo viaggio “sui passi di Edipo”. La forma è quella agile e serrata del dialogo platonico che, con uno sguardo sull’oggi, ricostruisce il tormentato percorso di Edipo, il quale sa che «la sventura farà ricadere la colpa anche sui figli” che pagheranno gli errori di chi li ha generati. Moriranno, infatti, i due figli-fratelli nel contendersi il potere a Tebe e morirà Antigone, “murata in una grotta”, per aver disobbedito all’ordine di Creonte di lasciare insepolto il fratello Polinice che gli si era opposto.

La tragedia mescola colpe ed errori, ma è al tempo stesso – questo il filo del libro – espressione di un mondo disordinato, il “cháos”, che è inevitabile quando «la mente cancella le norme del buon governo… barattandole con le proprie… Creonte non ha esitato a proporci una tirannia che di democrazia aveva solo la facciata». All’arroganza del potere si oppone la sola Antigone infrangendo la “legge” del re. Il capo dei saggi può concludere: «Tebani, la saggezza è la prima condizione della felicità. Attenti a commettere empietà contro gli dei, ma anche contro gli esseri umani, come ha fatto Creonte contro il povero Edipo venendone ripagato con la stessa moneta». Violante la spiega così: «La democrazia non esiste in natura, essa è frutto di una costruzione dell’intelligenza, della voglia di libertà delle persone». E saggezza e intelligenza non fanno mai rima con il delirio di onnipotenza in pubblico e in privato.

*Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 14 aprile 2021

 

 

Aria nuova (e promettente) nella Chiesa di Napoli

Soffia, fresca e promettente, l’aria nuova nella Chiesa napoletana. Napoli è un territorio, meglio ancora un mondo sterminato di storia, umanità, contraddizioni, simboli, credenze, passioni, miserie e splendori tale da incutere timore, ansia, forse anche un sentimento di inadeguatezza, ma don Mimmo Battaglia non s’è perso d’anima e ha fatto da subito quello che faceva da sempre: stare tra la gente, piegarsi sulle piaghe, ascoltare, pronunciare parole chiare e vere, sottolineare doveri e diritti, andare al cuore dei problemi, infondere la speranza che non attende e che si fa impegno, invitare al coraggio che vince le paure. È la chiesa di Francesco, del papa che il venerdì, a sorpresa, entra nei luoghi della sofferenza professando misericordia con una mano sulla testa, un abbraccio, una carezza, un sorriso agli ultimi, agli umiliati e offesi, agli scarti. La chiesa che fa il suo mestiere di sempre quando non si incartapecorisce trasformandosi in potere tra i poteri.

Neanche il virus, che pure lo ha toccato fisicamente, ha fermato il nuovo vescovo di Napoli. Anzi. La sua è già una presenza viva nella città dei mille problemi, le sue giornate sono piene di incontri, di visite, di discorsi, di appelli, di progetti. E, come avviene soprattutto nei periodi difficili, il tam-tam produce rapidamente i suoi effetti e così dagli operai della Whirlpool ai mercatali, dai singoli ai gruppi il suo intervento è richiesto, ascoltato, rispettato. Lui non si sottrae. Tra la denuncia e l’implorazione si fa strada la richiesta, tutta politica, di soluzioni e non di prebende. Per poveri e povertà, che “non sono categorie sociologiche”, propone una “cordata sociale”. A chi gli segnala che in una chiesa sono ancora ben esposti i quadri regalati dai Nuvoletta, gli assassini di Giancarlo Siani, non risponde con il silenzio o parole inutili bensì con l’ordine di rimuovere quei doni sgraditi e “grondanti sangue”. Uomo del nostro tempo, chatta quotidianamente con i cinquecento sacerdoti della sua diocesi. Ai ragazzi di Procida che hanno “salvato la processione del Venerdì Santo” scrive: «Ogni volta che penso ai ragazzi e ai bambini, mi torna alla mente la tavolozza dei colori che utilizzano i pittori per le loro opere. Voi ragazzi e bambini siete un mix di colori in grado di dare vita anche alle giornate più buie. Siete un dono immenso e prezioso per noi adulti e, forse non ve lo diciamo spesso, ma guardare a voi, al vostro modo di affrontare e vivere la vita, è un grande esempio per noi adulti».

Viene, ricordiamolo, dalla Calabria dove i colori, bellissimi, sono intensi pur in aree spesso su altro versante troppo opache o dipinte come tali. In quella terra, più nota per le aree grigie e martoriata da una perenne considerazione negativa di dentro e di fuori, uomini di chiesa di valore hanno fatto e fanno sentire la loro voce. Certo, ci sono quelli che consentono profanazioni simboliche ai boss della ‘ndrangheta, ma da Pino Demasi a Ennio Stamile, da Pietro De Luca a Giacomo Panizza un foltissimo gruppo di parroci difende l’integrità della missione pastorale senza timore di finire nel mirino dei potenti e dei malavitosi e si misura con i drammi delle ingiustizie e della povertà. Battaglia è cresciuto in questo mondo lasciando tracce importanti nella sua Satriano che è parte della diocesi di Catanzaro-Squillace, retta da Vincenzo Bertolone, che, tanto per dire, è stato il postulatore della causa di beatificazione di don Pino Puglisi.

Franco Cimino, un cattolico calabrese autorevole che conosce bene il nuovo vescovo di Napoli, invita a soffermarsi sui suoi occhi: profondità, dolcezza e fermezza svelano il carattere dell’uomo, ne mettono a nudo l’anima, non mentono sui suoi sentimenti e sui suoi pensieri. Una volta gli ha detto che sarebbe andato lontano, e Napoli, dopo la parentesi sannita, ha confermato la previsione, che fu bloccata drasticamente dall’interessato quando stava per diventare più ardita.  Per don Mimmo conta l’azione di ogni giorno, il qui e ora, perché è vitale percorrere «non le strade che fuggono dalla vita, non quelle del disimpegno o della resa».

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/21_aprile_06/c-un-aria-nuova-promettente-chiesa-napoli-7fb721fa-96a1-11eb-9062-f607427fe665.shtml

Amor di cioccolato e uova fai-da-te

Viaggia da un continente all’altro, attraversa gli oceani, quando non è più una pianta appartiene al mondo, all’esercito sterminato di amatori, manipolato si trasforma e assume colori, consistenze e sapori molteplici, quanto al colore, se lo fondi e lo mescoli, ottieni anche senza eccessiva immaginazione quello perverso del peccato. Sublime parto della natura il cacao. Da maneggiare con cura e prudenza.

Un amico di gioventù lavorò in una fabbrica svizzera di cioccolato, durò poco, dopo qualche mese scappò dalle montagne e ritornò alla nativa città di mare. In sua presenza non si poteva neanche pronunciare la parola perché l’iniziale inebriante profumo assorbito in dosi industriali provocava la ripulsa fin quasi al rigetto. Ma si era giovani e ogni tanto la ferocia irriverente che a quell’età sembrava una bella cosa veniva esercitata per farlo soffrire. Una sera in una trattoria di periferia, tra spaghetti alla puttanesca e salsiccia e friarielli, non si parlava d’altro che della bontà del cioccolato. Non resse e fuggì; poiché l’auto era sua gli altri dovettero farsela a piedi. E pagare il conto.

Più o meno a quel tempo chi scrive scoprì di essere un ladro. Sua nonna, Nanninella, aveva dei lontani parenti in America. I quali con una certa regolarità le inviavano qualche dollaro e delle “poglie di cioccolato”, lei chiamava a questa maniera le tavolette di cioccolata. Non che fossero eccelse ma per un ragazzo, non ancora in grado di distinguere il…  grano dal loglio, erano desiderabili. Ancor di più perché proibite essendo custodite nel primo cassetto del comò. Lui scoprì dove veniva nascosta la chiave e, quando la sua amata nonna sonnecchiava, violava il nascondiglio, scartava una tavoletta, ne toglieva un pezzo e poi la richiudeva cercando di restituirle la forma originaria. Naturalmente cascò dalle nuvole quando fu scoperto.

Imparata l’arte della destrezza vi fece ricorso anche quando l’età era adulta. Poteva non dar conto ma sentirsi rimproverato per gli alimenti eccessivi che facevano debordare la sua circonferenza gli pesava. Dunque, comprava di nascosto la cioccolata e altrettanto di nascosto se la spassava. Gli successe anche l’impossibile. Amava, ama, quei barattoli di crema marrone che piacciono all’umanità intera (per favore, i puristi del cacao duro e puro perdonino questa licenza) e ne aveva sempre qualcuno nella credenza, qualche volta anche recipienti di qualche chilo abbondante. Di notte, tornava nelle ore piccole dal lavoro, dormendo tutti, affondava il cucchiaio, poi lo faceva ruotare su sé stesso più volte fino a fare una bombetta di crema e se la ficcava in bocca chiudendo gli occhi. Tornava felice tra le coperte. E quando si rese conto che stava abusando con danni non solo per la bilancia ma anche per la salute, escogitò uno stratagemma penoso. Soprattutto quando non riusciva a prendere sonno, andava in cucina, apriva la credenza e guardava a lungo il barattolo, con amorevole affetto non disgiunto da erotico desiderio, poi chiudeva gli occhi e immaginava le molli ogive che a ritmo industriale penetravano dentro di lui. Appagato dalle sette cucchiaiate e mezza, se ne tornava a letto. Fesso e contento.

Ora capite quale sconvolgimento quando, negli Anni Ottanta, sfogliando come ogni mese la più importante rivista italiana di cucina, lesse un articolo a più pagine e con molte illustrazioni in cui si spiegava come fare le uova di cioccolata in casa. Oggi viene da sorridere se si pensa alla valanga di consigli e ricette di cui, giorno e notte, siamo sazi anche senza toccare cibo, ma quel tempo, poco più di un trentennio fa, sembra preistoria. Chiusa parentesi.

Prima tappa. Casolaro a calata Capodichino. Il paradiso dei cuochi e pasticcieri. Le forme c’erano, professionali, e di varie misure, grandi per metà uovo, anche piccole con due metà da modellare in contemporanea. Seconda tappa, via Morghen al Vomero in un antico negozio noto per la qualità dei prodotti: le medaglie di cioccolato fondente finissimo promettevano risultati eccellenti. E non mentivano.

Che fallimento il primo uovo. Fuso in un pentolino a bagnomaria, il cioccolato finì nella mezza forma. L’attesa che indurisse fu lunga e inutile perché il materiale non si staccava dalla forma. E per due giorni non ci fu nulla da fare. Telefonata a Milano, alla redazione della rivista. Sorpresa non dopo aver dubitato delle capacità del lettore. Che non mollò per cui una gentile redattrice chiese tempo per informarsi presso “la migliore pasticceria meneghina”. Lo fece e richiamò: “Vede, deve provare e riprovare”, manco fosse stato Amanda Sandrelli che giocava a palla con Massimo Troisi.

Poiché la cuccia era tosta, effettivamente provò e riprovò per giorni e fino a notte inoltrata mentre l’intera famiglia seguiva le vicissitudini con sconcerto se non con preoccupazione. Infine, la scoperta dell’acqua calda: la temperatura. La cioccolata andava messa nella forma ad un grado di temperatura preciso, vale a dire quando era prossima a ridiventare dura: in tal modo si creava con relativa rapidità una “camera d’aria” necessaria per far staccare il prodotto dal contenitore. Poi fu facile e divertente ottenere in casa risultati soddisfacenti anche senza gli strumenti di un laboratorio.

Questa è la parte più affascinante. Il cioccolato nerissimo – parliamo di fondente, naturalmente – diventa chiarissimo quando è completamente fuso, poi raffreddandosi man mano cambia colore fino a riprendere la sua cromaticità di partenza. E quale peccaminosa goduria controllare le trasformazioni mescolando e intuendo dalla consistenza e dal colore che mutano a che punto di questo viaggio di andata e ritorno ci si trova. Il resto è un dettaglio. La sorpresa, le due parti da sigillare, decori e dediche con altro cioccolato, la base per tenerli in piedi, la confezione di plastica trasparente (perché nascondere l’oscuro splendore del contenuto?), una bella ed elegante coccarda, e voilà!

Anno dopo anno la piccola “azienda” familiare crebbe. Per una Pasqua di quel tempo le uova furono sessantasette. Con altrettante sorprese: quella volta un libro in miniatura, grande quanto una scatola di fiammiferi, un altro anno furono farfalle colorate in ferro battuto realizzate appositamente da un fabbro abruzzese che stava producendo anche scatole di metallo per la “Perugina”. Furono tante perché molte finirono nelle mani dei colleghi di lavoro, una anche al direttore del giornale, Pasquale Nonno, che, stranamente, non ringraziò. Dopo un paio di settimane si capì. Lui non comprendeva perché un redattore avesse deciso di regalargli un uovo di Pasqua. E pensava a male. Piaggeria? Che altro? Poi per caso manifestò il suo sconcerto al segretario di redazione che gli rispose: “Direttore, ma che dici? Le uova le fa lui”. E così, con ritardo, ringraziò complimentandosi anche per la qualità del cioccolato. Quelle uova raggiunsero anche la pubblica opinione avendo, una rivista, dedicato un servizio a più pagine al “produttore”. E poi venne il gran giorno.

Un pomeriggio di aprile, complice un amico che era ed è il commercialista dell’azienda, ebbe luogo la funzione solenne nel tempio del cioccolato. Vico Vetreria a Chiaia, Gay Odin, la fabbrica del cioccolato. Il profumo: inebriante. Il colore: prima quello risplendente dei pentoloni ramati, poi quello eccitante del cacao nelle varie fasi di lavorazione. La storia: allora quasi un secolo da quando Isidoro Odin e Onorina Gay sbarcarono a Napoli per realizzare la fabbrica. La guida: Giuseppe Maglietta, che aveva acquisito l’azienda nel 1960, rispondeva a tutte le domande, anche quelle che non venivano fatte. E sentirsi piccoli piccoli in quel luogo di meraviglie e comunque con l’ardita ambizione di considerarsene parte.

Gay Odin, e poi Galluccio in via Cisterna dell’Olio ma anche tanti nuovi produttori di leccornie di cioccolato che si sono fatti avanti negli ultimi anni. Il fatto è che in questo settore e più in generale nella pasticceria e poi nella gastronomia Napoli ha tanto da dire. Le eccellenze sono certe, le varietà sterminate, la fantasia garantita, la qualità elevata. Lo sanno gli abitanti, lo scoprono i turisti che poi ritornano. Ci si può chiedere perché c’è carenza di grandi marchi industriali. Il tema di sempre. Chissà, forse l’individualismo. Non sembri una bestemmia tra un uovo di Pasqua e l’altro rigorosamente fatti in casa. Si, corriamo pure al supermercato ma, se vi capita, una sosta a vico Vetreria e a via Cisterna dell’Olio. Peccherete e non ve ne pentirete. E sarete pure perdonati.

 

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Parricidio in salsa politica

In politica ci sono parole che generalmente si evitano trattandosi di “una scienza e tecnica, come teoria e prassi, che ha per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica”. Con ciò non si nega il valore degli ideali, della passione, dei rapporti sociali e tra le persone, ma lo scopo, come il celebre fiorentino di qualche secolo fa ci ha insegnato, è preminente. Dunque, in questa interminabile e ormai stucchevole vicenda napoletana fa impressione sentir parlare di sentimenti, di ingratitudine, di intemperanze giovanili quasi come se l’amministrazione della città si confondesse con la vita e le tensioni di una famiglia. E allora si può serenamente riflettere su questo finale tormentato e anche penoso di una stagione lunga ormai un decennio e che vede la città piegata dall’incuria a cui si è aggiunta da ultima la tormenta interminabile della pandemia.

L’epilogo ha tratti psicanalitici e non suoni offensivo questo riferimento perché nelle dimissioni dell’assessore alla cultura, Eleonora De Majo, si può intravedere un parricidio, politico s’intende. C’è da dire che il sindaco in questi anni è inciampato in più di una lacerazione come risulta dalla scia di sostituzioni e abbandoni il cui elenco è davvero copioso, ma quest’ultima è probabilmente la più illuminante per la storia di chi ha sbattuto la porta e per l’investimento che rappresentava per chi la scelse: rafforzare l’alleanza con “Insurgencia” e il mondo dei centri sociali ad essa collegati. De Magistris mise alla porta uno dei suoi migliori assessori, Nino Daniele, peraltro uscito da Palazzo San Giacomo con notevole eleganza, per un evidente calcolo politico che ha ribadito in questi giorni: «Non mi pento della scelta, una scelta, tra l’altro, anche criticata in città. Rifarei la stessa cosa; tra i giovani c’è chi ha colto e ha saputo ben utilizzare questa opportunità che nessun altro mai gli avrebbe potuto dare». Un affondo impietoso, da padre adirato, che con quel “nessun altro mai” abbandona al suo destino la figlia. E che siamo nel pieno di un dramma quasi familiare è spiegato con chiarezza: «Dai giovani si possono accettare anche intemperanze ed assenze di gratitudine». A seguire la sentenza, «noi guardiamo al futuro», con la quale sancisce che l’ex assessore evidentemente guarda altrove.

Lei controbatte: «Gli sono invece molto grata – dice a Luigi Roano del Mattino – per avermi dato l’opportunità di ricoprire un ruolo così prestigioso durante questo anno e mezzo. Sbaglia il Sindaco a confondere la rivendicazione di autonomia rispetto a scelte e modalità che non si condividono più con la mancanza di riconoscenza. Sorprende soprattutto che lo faccia chi ha fatto del “non sono in vendita” uno dei mantra della sua storia politica».

Ed è al calore bianco lo scambio di messaggi a proposito dell’inchiesta giudiziaria sulla commissione per la statua di Maradona. De Magistris non era stato tenero: «Mi auguro che non sia mai venuto meno, per lei come per altri, quel vincolo di onestà avendo fatto della questione morale la ragione del mio impegno in politica pubblica». Pronta la risposta di De Majo: nelle mie dimissioni «la poca vicinanza del sindaco e della giunta ha pesato sicuramente» dal momento che «la scelta di aprire la commissione ad una rappresentanza del tifo popolare è stata da subito condivisa con il sindaco».

In realtà la “lontananza”, ora diventata incolmabile, non era di questi giorni ed era stata avviata con la candidatura di Alessandra Clemente a sindaco (“scelta non condivisa e calata dall’alto”) e ancora prima con la decisione di non partecipare alle elezioni europee del 2019.

E così anche l’ultima bandiera che il sindaco aveva fatto sventolare nel finale della sua navigazione amministrativa è stata ammainata con strappi non rammendabili mentre si scappa dall’imbarcazione. La sopravvivenza del consiglio comunale è speculare alla sua sofferta agibilità dal momento che prioritaria è diventata la presenza del numero legale dei consiglieri per poterne garantire i lavori e l’esistenza. Le condizioni della città sono note, mentre sulle spalle di Alessandra Clemente è stato caricato il peso del passato, del presente e del futuro di Napoli e sul capo di de Magistris aleggia un altro scenario, la Calabria e le sue elezioni regionali. Nel parricidio e nel suo rovescio la De Majo si riserva, con lo stesso schema lessicale del sindaco, il colpo di teatro finale quando ammette di condividere la scelta della candidatura in Calabria: «Mi auguro però che il sindaco non commetta gli stessi errori che sta commettendo a Napoli». Insomma, i napoletani hanno dato, ora tocca ai calabresi.

*Editoriale pubblicato l’11 marzo 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

 

 

 

Padre Pio, un miracolo della fede e degli affari

di PIERO ANTONIO TOMA
La bufala sulla cultura che non paga potrebbe essere assimilata a quella sulla fede. Matteo Cosenza, giornalista di lungo e autorevole corso, ce lo conferma nel corso di un ampio reportage pubblicato la prima volta sul ” Mattino” e cadenzato in 18 tappe dal 23 settembre 1998 al 2 luglio 2004: qui si snocciolano nascita, vita e morte di Padre Pio e soprattutto ciò che è successo fino agli onori degli altari. Lungo questo straordinario viaggio nello spazio e nel tempo ci sono vicende umane che ci toccano nel profondo. Non è solo uno scandaglio nelle certezze della fede, ma anche nei dubbi che essa alimenta.
Fra i tanti pellegrini ( in questi anni più di Lourdes e di Loreto), che a San Giovanni Rotondo vengono anche a piedi, e col desiderio di sapere che muove anche da paesi lontanissimi, si aggiungono non credenti e agnostici ( a farne parte è lo stesso autore che non va alla ricerca della verità ma della conoscenza e delle ” storie di sofferenza e di ansia”).
Perché? «La chiesa è l’unica istituzione che dà speranza alla gente», spiega un vecchio ateo. Ed è proprio questo un altro miracolo della fede che non solo paga con ospedali, chiese (specialmente quella di Renzo Piano, la prima della sua carriera), volontari, pellegrini (otto milioni all’anno) e commercianti di oggetti, rosari, statuine, olio, vino, eccetera; ma anche con i suoi eccessi: cementificatori con duecento alberghi e interi quartieri, finanziatori senza scrupolo, e col rischio di un “Padre Pio fenomeno da baraccone”.
Oltre ai tantissimi miracoli in vita (nonostante l’ostracismo del Sant’Uffizio) e da morto, egli paga anche con la sua statua che suona le campane e soprattutto con “la fede (che) dilaga come un fiume in piena”. Interessanti poi le differenze fra San Giovanni Rotondo arricchitasi “esageratamente” e Pietrelcina, dove egli nasce, rimasta più povera e che ogni tanto raccoglie le suppliche e le affida a un “portavoce” perché le porti a Padre Pio.
Esemplari, tra i tanti, due miracoli. Il primo ci racconta di un ragazzo di sette anni guarito all’istante da una meningite fulminante. Il secondo riguarda il cardinale Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, che nel 1962 gli invia una lettera affinché preghi per una donna affetta da un irredimibile cancro alla gola. “Il frate dei miracoli e delle stimmate”, diventato ” un mito planetario”, risponde di sì. All’improvviso il cancro sparisce “misteriosamente. E quindi per una dovuta coerenza, è lo stesso cardinale, una volta eletto papa, a beatificarlo e a santificarlo nel 2002. Qui a San Giovanni ” i miracoli se non li cerchi, sono loro a inseguirti”, commenta l’autore .
°Articolo pubblicato su “Repubblica” il 15 febbraio 2021

L’arroganza di far tacere le ambulanze

Chi scrive convive da tempo con la dolente sinfonia delle sirene. Affacciandosi su una strada che collega i maggiori ospedali di Napoli e del Sud il noto e ormai familiare suono segnala il passaggio, spesso faticoso, delle ambulanze con il loro carico di sofferenza e di speranza. In tempi normali. Da un anno, capirete, la musica è cambiata, naturalmente d’intensità e durata. L’orecchio vigile si è abituato a intuire l’andamento della pandemia. In certi giorni e in certe ore non occorrono le statistiche per capire che non va bene. La pena è grande soprattutto quando, ancora nel buio che non cede alla luce, il suono fa pensare a chi è dentro quel veicolo, in primo luogo il paziente, che forse sta per intraprendere l’ultimo doloroso viaggio e, con la fame di aria che lo angustia, ipotizza questo lugubre scenario senza neanche il conforto di una moglie o di un figlio, ma anche agli altri viaggiatori che, per quanto allenati per professione, faticano a nascondere la solidarietà e anche la preoccupazione per il contagio.

Chi scrive farebbe a meno di questa colonna sonora e potrebbe tranquillamente trasferirsi in quartieri e strade meno… rumorose. Ma sa che si è parte di una comunità, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore. Ed è grato a un paese che ha tra i suoi comandamenti lo stato sociale, la cura della salute, l’assistenza ai più fragili e deboli, ai malati di ogni ceto e condizione, e la prevenzione delle malattie. Pur con tutti gli errori, i ritardi, le storture, le intromissioni affaristiche, deprecabili e intollerabili ma che non ledono il principio su cui si fonda la sanità pubblica. E quelle sirene suonano le note di questa religione civile. Meglio non sentirle, soprattutto perché si spera che non ce ne sia la necessità, ma ci sono e siano benedette.

Ora, come si fa a digerire l’oscena provocazione di quegli scooter che minacciosamente gironzolano, come sentinelle della quiete camorristica, attorno alle ambulanze! Questo cancro che vive intorno e insieme a noi, con la sua metastasi devastante, ce ne fa vedere di tutti i colori. L’elenco è lungo ed è a tutti noto. Spazi pubblici occupati e inviolabili, stese, spaccio, pizzo, guerre tra i clan e tutto il vocabolario della sopraffazione spicciola e organizzata. L’ostentazione del potere è emblematica in murales e altarini che, trasformando giovani delinquenti in eroi, condannano questi per la seconda volta: non solo per essere stati allevati, incolpevoli, in un ambiente che non gli offriva molte scelte, ma anche per assegnargli da morti un marchio atroce e indelebile. E tralasciamo l’altra faccia della medaglia: lo stucchevole spettacolo delle autorità, dal ministro al magistrato e al prefetto, impotenti a imporre il ripristino del decoro prima ancora che della legalità a un Comune che scarica sui condomini il cerino acceso della responsabilità di rimuoverli. Tralasciamo? Si fa per dire.

Ma questa contro le sirene è una performance che va oltre. Perfino peggio delle violenze ricorrenti negli ospedali da parte di parenti contro medici, infermieri e dipendenti sanitari, perché queste, pur nella loro odiosa manifestazione, potrebbero… ripetiamo, potrebbero avere una spiegazione vuoi per una malintesa cattiva assistenza vuoi per comportamenti ritenuti inadeguati. Le sirene che danno fastidio sono un gradino in più in questa escalation. E, mentre rappresentano l’ostentazione di un potere supremo, sono anche autolesioniste perché un intralcio, che sia quello di strade invase da auto selvaggiamente parcheggiate o di un’azione per silenziare le ambulanze, potrebbe eventualmente ritardare l’assistenza anche alle famiglie dei camorristi. O in quel caso si puniranno gli autisti delle ambulanze perché non si sono fatti sentire a sufficienza? Si sa, prepotenza e stupidità vanno a nozze.

*Articolo pubblicato il 3 febbraio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

Don Mimmo, benvenuto a Napoli

Matteo caro, don Mimmo Battaglia, te lo affido. E tu, affidati a lui. È una gran bella persona. Vallo a trovare, lui ti conosce già. È un uomo ispirato. Ricco di sensibilità. E di visione. Ha quegli occhi…Quegli occhi da cui scende amore come se piovessero le lacrime di Dio o di tutti gli uomini, dinanzi alla meravigliosa bellezza dell’uomo. E della vita che intorno a lui, e dentro di lui, si muove. Come nuvole nel cielo, ora bianche, ore diversamente grigie, ora scure. La vita, che è il cielo. Il cielo che resta. Sempre uguale. Sempre bello. Anche quando minaccia e fa tempesta. Anche quando scatena il vento che sembra voler distruggere tutto e invece ci scompiglia solo i capelli. O ci vola via i cappelli e qualche lenzuolo distratto dai balconi. Sempre se stesso, il cielo. Anche quando si fa scuro scuro e trasforma il giorno in notte e i lampioni si risvegliano anzitempo. La bellezza del cielo, la bellezza che è il cielo, è nella sua capacità di riflettere ogni altra bellezza. Di ispirarla. E poi di riflettersi in quelle bellezze che hanno dimenticato di esserlo, e vagano perdendosi lunghe le strade della sofferenza e della solitudine.
Franco Cimino

Franco, amico mio, sono emozionato e commosso. La tua lettera pubblica mi fa felice. C’è un filo che lega le nostre terre e le nostre vite. La tua terra, la nostra Calabria, dona alla mia terra un uomo e i suoi occhi, il suo cuore, la sua bontà, la sua intelligenza. Ha dietro di sé una scia di amore e di buone opere che ha attraversato la Calabria e da ultimo un pezzo di Campania, quasi un prologo della missione che lo attende a Napoli. Parlerà alla città e i napoletani lo accoglieranno. Soprattutto gli “scarti” avranno una spalla su cui appoggiarsi, una mano che stringerà le loro, un sorriso che lenirà la solitudine e lo smarrimento, un aiuto spirituale e materiale. Sono sicuro, ne verrà bene per tutti. Soprattutto in un tempo così complicato e confuso. Don Mimmo, benvenuto tra noi.

‘Padre Pio: il vero miracolo, un laico che s’accosta al sacro

di RAFFAELE BUSSI

“Padre Pio: il vero miracolo” è il titolo del recente saggio di Matteo Cosenza, giornalista di lungo corso, saggista e critico, che l’editore Rogiosi ha di recente mandato in libreria. L’Autore, inviato de “Il Mattino” a San Giovanni Rotondo (in Puglia, provincia di Foggia), ripristinando numerosi articoli che ricoprono l’arco di tempo dal 1998 al 2004 ed un saggio finale Io e la fede, narra la sua lunga esperienza maturata nella terra del frate di Pietrelcina. E lo fa in modo autentico, da inviato di razza, senza pregiudizi, essendo la sua persona intrisa di una laicità che si coniuga con la non credenza. Si attesta sull’uscio, osserva il contesto ambientale, appropriandosi delle testimonianze di chi è stato folgorato dal fenomeno Padre Pio. Alla fine del viaggio tira le somme. A trent’anni dalla morte del frate, all’arrivo a San Giovanni Rotondo, lo scenario di varia umanità che si presenta alla vista di Cosenza è da record: migliaia di pellegrini sui luoghi del taumaturgo in trepida attesa con occhi velati dalla fede nel loro santo, pronti ad ignorare e a non interrogarsi di fronte a spettacoli anche poco edificanti.

Con felice penna, Cosenza passa in rassegna il lunario dei meno abbienti, gli ultimi della terra che, non trovando molte volte risposte in chi è deputato a darle, si affida alla fede nel santo nella speranza di ottenerle. Una folla oceanica che nell’arco della settimana sull’arida montagna del Gargano va alla ricerca di aiuto per lenire le sofferenze che la quotidianità riserva all’indifeso umano.

È il popolo di Padre Pio.Il popolo dei deboli. Anziani in cerca di certezze, ammalati, persone preoccupate per la salute di qualche caro, portatori di handicap, tanti esclusi che in una società che alle soglie del Duemila trasmette messaggi di opulenza, avvertono tutta la fragilità della vita, si sentono minacciati dalla violenza, dal dolore, dalle ristrettezze, e vedono una salvezza nell’umile fraticello.

E il vero miracolo? La risposta dell’Autore non si fa attendere. Il vero miracolo risiede nella fede! Quella che accompagna folle immense sui luoghi del santo, tra il “ciclopico” ospedale voluto fortemente da Padre Pio, un’eccellenza nella sanità del Mezzogiorno, la sua tomba, la cella, la grotta fino alla nuova chiesa il cui progetto è stato affidato a Renzo Piano. Ecco il miracolo che ha consentito a un piccolo e sconosciuto borgo dell’arida montagna appenninica di assurgere a importante sito del turismo religioso.

Le storie dei singoli accompagnate dalle guarigioni hanno accelerato il passaggio dalla beatificazione alla canonizzazione, attraverso un racconto dove spicca la testimonianza di Karol Wojtyla, futuro Giovanni Paolo II, che chiedeva attraverso una lettera, al frate cappuccino di pregare per una sua amica Wanda Poltawska, affetta dal male inguaribile alla gola. Una successiva lettera informava Padre Pio che la donna prima di entrare in sala operatoria risultava misteriosamente guarita. La donna, in visita alla tomba del santo, annotò che Papa Wojtyla pregava per la canonizzazione di Padre Pio, una preghiera che si univa a quelle dei tanti fedeli nel mondo che trovavano ristoro nella fede attraverso l’invocazione al loro protettore. La riconferma che la santità è di questa terra.

Ma cosa assillava Cosenza? È lui stesso a darci la spiegazione.
«Durante il viaggio pensai a lungo come comportarmi. Il mestiere ti aiuta sempre, ma in quel caso non era proprio semplicissimo. Potevo scegliere sicuramente tra due strade. Fare quello che tanti facevano: mischiavano fede e professione, ma, soprattutto privilegiando la prima, trasmettere al lettore resoconti per così dire ‘inginocchiati’, più da fedeli che da giornalisti. La via più facile, ma ovviamente non era nelle mie corde, e pensai che era esattamente quello che Paolo Graldi non voleva. L’altra soluzione era quella di operare come gli inviati di tanti giornali nazionali, qualcuno lo vidi all’opera, che arrivavano in quella rocciosa e arida montagna rossa del Gargano, con quattro pennellate descrivevano quello che vedevano come un fenomeno da baraccone e se ne tornavano nel loro civilissimo mondo di persone colte e moderne. Soluzione scartata, e non ho neanche bisogno di spiegarne il motivo.»

Una lezione di giornalismo, questa di Cosenza, la lezione di un corrispondente dalla schiena dritta, dalla professione non approssimativa e raccogliticcia e che riporta la mente al comune amico e Maestro Michele Tito e alle sue innumerevoli corrispondenze da ogni angolo del mondo. Un’esperienza, quella di Tito, dalla quale abbiamo attinto la lezione dell’approccio corretto alla notizia, dalla cronaca della notizia fino all’introspezione intimista dei personaggi del contesto narrativo.

Questo insegnamento gli consente di andare alla ricerca, per poi trovarlo, del vero miracolo, quello che sicuramente voleva il direttore Graldi. La fede! Quella fede che pur trascina con sé, lungo l’arco dell’umana esistenza, dubbi e interrogativi i quali, prima che l’ultimo granello di sabbia abbia attraversato la clessidra, assillano il povero mortale, senza riceverne a volte risposta. Il dubbio! È anch’esso preludio alla fede, come riferiva Agostino d’Ippona?

Non saprei rispondere, caro Matteo. Al di là di tutti i dubbi, e dell’accorato appello di Renzo Piano, progettista della nuova chiesa a non fare cattivo uso dell’opera, una certezza resta. L’aver offerto, attraverso il tuo racconto, una testimonianza unica sul personaggio Padre Pio, ma soprattutto per aver mostrato, al contrario di altri, rispetto per uomini e donne, protagonisti di un dramma nel quale navigherà nel tempo una umanità sempre più povera di valori. E’ quanto conferma Padre Gian Carlo Bregantini, Arcivescovo di Campobasso-Boiano, nella sua prefazione di grande profondità di pensiero, per sdoganare l’Uomo dal male endemico di sempre: la maldicenza, che consente a chi giudica di guardare alla pagliuzza negli occhi altrui, e non alla trave che alberga nei propri.

*Articolo pubblicato il 26 gennaio 20121 su “Altritaliani.net”

«Mia madre leggeva sperando che mi convertissi»

di ROBERTO LOSSO
È difficile da maneggiare, l’ultimo libro di Matteo Cosenza («Padre Pio, il vero miracolo», Rogiosi Editore). Leggerlo non basta. Bisogna viverlo. Quasi fosse la rappresentazione riflessa di emozioni e sensazioni che, nel tempo, hanno attraversato anche la nostra esistenza. E bisogna, poi, inserirlo nel contesto più ampio di quello che normalmente si esplora scrivendo una recensione. Perché è la prosecuzione di un cammino di memoria e identità che affonda le proprie radici nelle vicende umane e politiche che l’Autore ha attraversato da protagonista. Ogni articolo, ogni inchiesta, ogni editoriale è un tassello di questo suo complicato percorso di vita e di pensiero. È necessario, quindi, mettere in fila tutti i suoi lavori, il suo impegno politico, la sua leadership nella gestione delle notizie. Avendo, peraltro, cura di soffermarsi sulla sua innata tendenza ad interpretare in maniera globale il ruolo di direttore inquieto e curioso. Ne ha dato testimonianza in una terra difficile come la Calabria, assolvendo alla triplice responsabilità di (1) raccontarla così com’era, (2) aiutarla a far crescere al proprio interno la speranza di un futuro migliore e (3) dare fiducia ad una “covata” di giovani giornalisti che, oggi, interpretano al meglio questa passione civile.
Da dove partire, allora? Dalla «dedica». A chi poteva pensare nella delicatezza e nell’emozione di ritrovare e mettere insieme tanti «ritagli» della meglio gioventù, nel mentre la pandemia si porta via una generazione di persone che hanno trasformato le macerie del dopoguerra in cattedrali di operoso benessere e pacifica convivenza? «A mia madre che avidamente leggeva i miei articoli, sperando, invano, che mi convertissi». Riecheggia pudica la compostezza dei sentimenti che il nostro Matteo conserva, sia pure nascondendoli, nel tramestio dei tempi che cambiano e che, spesso, ci spingono oltre i confini dell’umano divenire. Un percorso faticoso, quest’ultimo, che, comunque, arricchisce qualcosa che già c’è e che ha difficoltà a dispiegarsi compiutamente nella sua armonia spirituale. Perché, nel frattempo, le ingiustizie del mondo ci spingono a sporcarci le mani. Perché intorno a noi c’è tanto altro da fare. E perché, innanzi tutto, avvertiamo il peso della responsabilità sociale che appartiene agli uomini di buona volontà. Eppure, anche questo diverso approccio altro non è che una continua ricerca di quel «soffio d’infinito» che è dentro di noi. E che può essere diversamente declinato e vissuto, esercitando la facoltà del libero arbitrio.
Fino a qualche tempo fa, ciò era motivo di solitudine. Non è più così. Dice, infatti, Papa Francesco nella sua conversazione con Austen Ivereigh («Ritorniamo a sognare – La strada verso un futuro migliore»): «Quello che vede le contrapposizioni come contraddizioni è un pensiero mediocre che si allontana dalla realtà. Lo spirito cattivo – lo spirito di conflitto, che compromette il dialogo e la fraternità – cerca sempre di trasformare le contrapposizioni in contraddizioni, pretendendo che scegliamo e riducendo la realtà in semplice coppia di alternative. È questo che fanno le ideologie e i politici senza scrupoli. Dunque, quando ci imbattiamo in una contraddizione che non ci consente di avanzare verso una soluzione, sappiamo di trovarci di fronte a uno schema mentale riduttivo e parziale che dobbiamo cercare di superare». Il «compito del conciliatore», invece, è quello di «sopportare il conflitto e, attraverso il discernimento, guardare oltre le ragioni del disaccordo, aprire chi è implicato alla possibilità di una nuova sintesi, che non distrugga nessuno dei due poli, ma conservi in una nuova prospettiva ciò che è buono e valido di entrambi».
Eccolo, dunque il «vero miracolo». Gioioso e fraterno. La comprensione, l’incontro, la contaminazione. Sono questi, appunto, i sentimenti che ritroviamo nel libro di Matteo Cosenza. Sentimenti, peraltro, che non nascono da una circostanza o da un momento di personale sconforto. Gli articoli che lo compongono, infatti, sono frutto e conseguenza del suo essere giornalista. Non dipendono, pertanto, dallo smarrimento che può nascere dentro di noi, quando affrontiamo questioni che diventano ferite. Matteo Cosenza era lì, perché il direttore de “Il Mattino”, Paolo Graldi, decise che fosse proprio lui a raccontare Padre Pio nel trentennale della scomparsa. Era un lavoro come un altro. Poteva scadere nel folklore, ove gli fosse mancato il senso dell’equilibrio o l’umanità necessaria per rendersi conto che tanta gente avvertiva come un valore profondo la beatitudine del Frate e dei luoghi che lo circondavano. L’ha respirata, quella bellezza spirituale. Ed è riuscito a trasmetterla ai suoi lettori. Così com’era. Sottraendosi alla tentazione di metterci del suo, d’inventarsi suggestioni, di manipolare i ragionamenti di persone come Renzo Piano. Osservava la realtà e ne scriveva. Laicamente. Non senza emozione, però. Ce ne accorgiamo, leggendolo. C’è una metrica nel suo racconto che va oltre il mestiere e le capacità personali. Così, il linguaggio del cronista spesso diventa poesia alta e solenne.
È lo stesso modo di scrivere che ho avuto modo di apprezzare in un altro suo libro (Il Compagno Saul, Rubbettino Editore, 2013), «con la “ù” rigorosamente accentata», sottolinea il giornalista e scrittore Luigi Vicinanza nella prefazione. Perché anche lì Matteo Cosenza commuove e si commuove, pur nel rigore della ricostruzione storica e politica che, a volte, assume anch’essa l’intensità della preghiera laica. Anzi. Sembra quasi che ci sia una continuità umana e morale tra il libro che racconta di un comunista all’antica, il compagno Saùl di Castellamare di Stabia, e quello che testimonia il suo vagare alla ricerca del «vero miracolo» di Padre Pio di Pietrelcina. C’è, in entrambi, un lungo gravoso viaggio nei luoghi inesplorati delle grandi scelte di vita e delle capacità di viverle con coerenza e fino in fondo.
Ma chi era Saùl? Ne parla in terza persona, Matteo Cosenza: «Più volte il Pci nazionale gli chiese di candidarsi al parlamento o, quanto meno, di trasferirsi a Napoli per assumere un ruolo di primo piano nella segreteria del partito. Rifiutò. Pensava, infatti, di essere più utile nella “sua” fabbrica e nella “sua” città. Il suo rifiuto fu categorico anche quando, nel 1976, il segretario della federazione di Napoli, Andrea Geremicca, si recò personalmente a Castellamare per convincerlo a lasciare i cantieri. Erano preoccupati per il suo stato di salute. Un medico anch’egli comunista, il cardiologo Remo Raddi, li aveva informati riservatamente che il compagno Saul aveva il cuore malandato. Niente da fare. Restò al suo posto. Fino al momento dell’ultimo saluto, che gli rivolse Giorgio Napolitano, il 12 gennaio del 1981, in Piazza Spartaco “davanti ad una folla straripante – oltre diecimila persone – che non riusciva a ripararsi da una pioggia inclemente che accompagnò l’intera cerimonia». Quel Saùl era suo padre. Eppure, nel libro, e solo sul finire del racconto, si lascia andare ad un momento di intimità chiamandolo “papà”. Liberandosi di una commozione così intensa da richiamare quella ugualmente penetrante che traspare dal suo incontro con Padre Pio e con il suo popolo. Ne scrive estasiato Monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo metropolita di Campobasso-Boiano, rimasto nel cuore dei calabresi per il suo impegno anti-‘ndrangheta. Un motivo in più per leggere l’ultimo libro di Matteo Cosenza con il necessario «stupore» del cuore e della mente.