Padre Pio, il libro secondo Roberto Losso

di Roberto Losso

È difficile da manegggiare l’ultimo libro di Matteo Cosenza («Padre Pio, il vero miracolo», Rogiosi Editore). Leggerlo non basta. Bisogna viverlo. Quasi fosse la rappresentazione riflessa di emozioni e sensazioni che, nel tempo, hanno attraversato anche la nostra esistenza. E bisogna, poi, inserirlo nel contesto più ampio di quello che normalmente si esplora scrivendo una recensione. Perché è la prosecuzione di un cammino di memoria e identità che affonda le proprie radici nelle vicende umane e politiche che l’Autore ha attraversato da protagonista. Ogni scritto, ogni articolo, ogni editoriale è un tassello di questo suo complicato percorso di vita e di pensiero. È necessario, quindi, mettere in fila tutti i suoi lavori, il suo impegno politico, la sua leadership nella gestione delle notizie. Avendo, peraltro, cura di soffermarsi sulla sua innata tendenza ad interpretare in maniera globale il ruolo di direttore inquieto e curioso. Ne ha dato testimonianza in una terra difficile come la Calabria, assolvendo alla triplice responsabilità di (1) raccontarla così com’era, (2) aiutarla a far crescere al proprio interno la speranza di un futuro migliore e (3) dare fiducia ad una “covata” di giovani giornalisti che, oggi, interpretano al meglio questa passione civile.
Da dove partire, allora? Dalla «dedica». A chi poteva pensare nella delicatezza e nell’emozione di ritrovare e mettere insieme tanti «ritagli» della meglio gioventù, nel mentre la pandemia si portava via una generazione di persone che hanno trasformato le macerie del dopoguerra in cattedrali di operoso benessere e pacifica convivenza? «A mia madre che avidamente leggeva i miei articoli, sperando, invano, che mi convertissi». Riecheggia pudica la compostezza dei sentimenti che il nostro Matteo conserva, sia pure nascondendoli, nel tramestio dei tempi che cambiano e che, spesso, ci spingono oltre i confini dell’umano divenire. Un percorso faticoso, quest’ultimo, che, comunque, arricchisce qualcosa che già c’è e che ha difficoltà a dispiegarsi compiutamente nella sua armonia spirituale. Perché, nel frattempo, le ingiustizie del mondo ci spingono a sporcarci le mani. Perché intorno a noi c’è tanto altro da fare. E perché, innanzi tutto, avvertiamo il peso della responsabilità sociale che appartiene agli uomini di buona volontà. Eppure, anche questo diverso approccio altro non è che una continua ricerca interiore di quel «soffio d’infinito» che è dentro di noi. E che può essere diversamente declinato e vissuto, esercitando la facoltà del libero arbitrio.

Fino a qualche tempo fa, ciò era motivo di solitudine. Non è più così. Dice, infatti, Papa Francesco nella sua conversazione con Austen Ivereigh («Ritorniamo a sognare – La strada verso un futuro migliore»): «Quello che vede le contrapposizioni come contraddizioni è un pensiero mediocre che si allontana dalla realtà. Lo spirito cattivo – lo spirito di conflitto, che compromette il dialogo e la fraternità – cerca sempre di trasformare le contrapposizioni in contraddizioni, pretendendo che scegliamo e riducendo la realtà in semplice coppia di alternative. È questo che fanno le ideologie e i politici senza scrupoli. Dunque, quando ci imbattiamo in una contraddizione che non ci consente di avanzare verso una soluzione, sappiamo di trovarci di fronte a uno schema mentale riduttivo e parziale che dobbiamo cercare di superare». Il «compito del conciliato- re», invece, è quello di «sopportare il conflitto e, attraverso il discernimento, guardare oltre le ragioni del disaccordo, aprire chi è implicato alla possibilità di una nuova sintesi, che non distrugga nessuno dei due poli, ma conservi in una nuova prospettiva ciò che è buono e valido di entrambi».

Eccolo, dunque il «vero miracolo». Gioioso e fraterno. La comprensione, l’incontro, la contaminazione. Sono questi, appunto, i sentimenti che ritroviamo nel libro di Matteo Cosenza. Sentimenti, peraltro, che non nascono da una circostanza o da un momento di personale sconforto. Gli articoli che lo compongono, infatti, sono frutto e conseguenza del suo essere giornalista. Non dipendono, pertanto, dallo smarrimento che può nascere dentro di noi, quando affrontiamo questioni che diventano ferite. Matteo Cosenza era lì, perché il direttore de “Il Mattino” decise che fosse proprio lui a raccontare Padre Pio nel trentennale della scomparsa. Era un lavoro come un altro. Poteva scadere nel folklore, ove gli fosse mancato il senso dell’equilibrio o l’umanità necessaria per rendersi conto che tanta gente avvertiva come un valore profondo la beatitudine del Frate e dei luoghi che lo circondavano. Anche lui l’ha respirata, quella bellezza spirituale. Ed è riuscito a trasmetterla ai suoi lettori. Così com’era. Sottraendosi alla tentazione di metterci del suo, d’inventarsi suggestioni, di manipolare i ragionamenti di persone come Renzo Piano. Osservava la realtà e ne scriveva. Laicamente. Non senza emozione, però. Ce ne accorgiamo, leggendolo. C’è, infatti, una metrica nel suo racconto che va oltre il mestiere e le capacità personali. Così, spesso diventa poesia alta e solenne.

È lo stesso modo di scrivere che ho avuto modo di apprezzare in un altro suo libro, il “Compagno Saul” (Rubbettino Editore, 2013), «con la “ù” rigorosamente accentata», scrive il giornalista e scrittore Luigi Vicinanza nella prefazione. Perché anche lì Matteo Cosenza commuove e si commuove, pur nel rigore della ricostruzione storica e politica che, a volte, diventa anch’essa preghiera laica davanti alla complessità di un personaggio che ha riempito di sé la storia sociale del suo tempo. Anzi. Sembra quasi che ci sia una continuità umana e morale tra il libro che racconta la vita di un comunista all’antica, il compagno Saùl di Castellammare di Stabia, e quello che vaga alla ricerca del «miracolo vero» di Padre Pio di Pietrelcina. C’è, in entrambi, un lungo gravoso viaggio nei luoghi inesplorati delle grandi scelte di vita e delle capacità di viverle con coerenza e fino in fondo.

Ma chi era Saùl? Ne parla in terza persona, Matteo Cosenza: «Più volte il Pci nazionale gli chiese di candidarsi al parlamento o, quanto meno, di trasferirsi a Napoli per assumere un ruolo di primo piano nella segreteria del partito. Rifiutò. Pensava, infatti, di essere più utile nella “sua” fabbrica e nella “sua” città. Il suo rifiuto fu categorico anche quando, nel 1976, il segretario della federazione di Napoli, Andrea Geremicca, si recò personalmente a Castellamare per convincerlo a lasciare i cantieri. Erano preoccupati per il suo stato di salute. Un medico anch’egli comun sta, il cardiologo Remo Raddi, li aveva informati riservatamente che il compagno Saul aveva il cuore malandato. Niente da fare. Restò al suo posto. Fino al momento dell’ultimo saluto, che gli rivolse Giorgio Napolitano, il 12 gennaio del 1981, in Piazza Spartaco “davanti ad una folla straripante – oltre diecimila persone – che non riusciva a ripararsi da una pioggia inclemente che accompagnò l’intera cerimonia». Quel Saùl era suo padre. Eppure, nel libro, e solo sul finire del racconto, si lascia andare ad un momento di intimità chiamandolo “papà”. Liberandosi di una commozione così intensa da richiamare quella ugualmente penetrante che traspare dal suo incontro con Padre Pio e con il suo popolo. Ne scrive estasiato Monsignor Giancarlo Bregantini nella prefazione. Un motivo in più per leggere l’ultimo libro di Matteo Cosenza con il necessario «stupore» del cuore e della mente.

*Rcensione pubblicata sul “Quotidiano del Sud” il 29 novembre 2022

Che fatica vivere a Napoli

Napoli è di chi se la prende. Correggo: Napoli è di chi se la prende? Dove il punto interrogativo è speculare alla speranza che non sia così e che la tanto decantata bellezza materiale e immateriale della città non sia un comodo slogan per nascondere la bruttezza altrettanto materiale e immateriale. Troppo facile e scontato evocare a sostegno di questo pensiero la guerra di camorra che imperversa notte e giorno nelle periferie, che poi non è una novità se si ricordano tante guerre del passato che hanno seminato dolori e lutti, salvo poi a prendersela con lo scrittore diventato troppo noto nel mondo per averle raccontate. Napoli non è Gomorra, o, quando il giudizio è più articolato, Napoli non è solo Gomorra, e via con l’elenco degli innumerevoli racconti di segno contrario e la conclusione che se un po’ di Gomorra c’è lo si deve alla responsabilità di chi ne ha scritto e scrive e soprattutto alla corrispondente serie tv che, con immagini cult, ha  diffuso modelli comportamentali negativi. Intanto le stese, e non solo, anche in aree non periferiche davano conto di nuove generazioni di delinquenti che venivano affermandosi spavaldamente. E soprattutto si è un po’ alla volta capito che il contesto urbano era, è diventato, in una sorta di assuefazione, più malleabile e sempre meno ostile alla diffusione di abusi e prepotenze.

La pandemia ha fatto il resto, dovevamo diventare migliori e ci ritroviamo in mezzo ai guai. Per esempio: l’immagine dell’occupazione sfrenata di spazi pubblici per attività private è impressionante. Non più solo quella permanente di posti per parcheggiare in strisce blu assimilate alle bianche (a una certa ora della mattina e a una della sera è facile vedere come tra alcuni residenti e negozianti ci sia lo scambio di posto, praticamente una proprietà privata), ma una vera e propria invasione di tavoli e sedie con strutture che spesso da provvisorie sono diventate definitive. Di questo si poteva fino a qualche mese fa dare la responsabilità al precedente sindaco ma come mai adesso nulla è cambiato e tutto va peggiorando? Al punto che nelle strade più accorsate del civile Vomero si sono sradicate da terra le panchine e si voleva fare lo stesso per quelle rimaste per far spazio a nuovi tavoli e sedie a pagamento: la protesta una volta tanto ha impedito lo scempio e si spera che le panchine divelte dal suolo vengano rimesse al loro posto. Un pedone, specie una mamma con carrozzino, che voglia vivere la città deve attrezzarsi per una corsa a ostacoli tra marciapiedi sconnessi e in via di scomparsa, isole pedonali che si assottigliano inesorabilmente, piazze più anguste e, se malauguratamente deve anche attraversare, scopre che le strisce pedonali sono state cancellate, praticamente abolite.

Ora, mettere insieme la deriva criminale e la miriade di abusi della nostra vita quotidiana può sembrare un’esagerazione, ma il tema è come una grande città, straordinaria per tanti versi, debba essere governata per affermare la legalità, il rispetto e, non sembri un pensiero da benpensante, l’educazione. Certo la camorra non si combatte con le buone maniere ma con armi adeguate, con prevenzione e repressione, lo Stato deve fare la sua parte, poi ovviamente c’è il lavoro indispensabile della società nelle sue varie declinazioni per diffondere la cultura della legalità. Ma è proprio su questo punto che si gioca una partita decisiva che si vince se non viene lasciata alla meritoria iniziativa di volontari che, anche per il deserto che li circonda, rischiano di essere ingessati in una popolarità da star del cinema.

Parliamoci chiaro, ci inalberiamo se qualcuno da fuori si permette di criticare la città, di rappresentarla sottolineando i luoghi comuni più ricorrenti e fastidiosi, anche per il vilipendio di un cibo sacro come la pizza, ma non lo facciamo per la Ferrovia e dintorni che sono una casbah degradata e pericolosa nonostante restyling ambiziosi o per i quartieri della collina e del centro buono dove regnano disordine e disorganizzazione, e ci volgiamo dall’altra parte se tanti nostri concittadini vivono in quartieri dove anche entrare in casa propria è una sfida western alla napoletana o imbiancare le pareti di un alloggio non ti ripara dal fuoco di un camorrista che bussa alla porta o ancora puoi rischiare la vita per un’autobomba che esplode nottetempo davanti al tuo palazzo. Poi naturalmente ci sono il San Carlo, il Cristo Velato, il panorama da sballo, il cinema da Oscar e tutto il bendidio di cui legittimamente siamo orgogliosi. Ma quanta fatica vivere la quotidianità! Una fatica di cui tutti o quasi siamo vittime e carnefici, al punto da non saper più distinguere tra diritti e doveri, se mai ne siamo stati capaci.

*Editoriale pubblicato il 27 luglio 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

 

 

 

Ugo Piscopo, dalla scuola a Marx

Con Ugo Piscopo potevi conversare su qualsiasi argomento, anche quelli per te semisconosciuti o appresi superficialmente, e ascoltarlo con ammirazione senza che ti facesse sentire un ignorante, e non perché non lo fossi ma perché lui socraticamente ti sollecitava, e non te lo dava a vedere, a trovare la verità dentro te stesso e a rendertene conto. Nella penultima chiacchierata alla sua domanda “che stai facendo?” colsi l’occasione per fargli dire qualcosa sulla Bibbia, a cui, dopo averne leggiucchiato qua e là per una vita, avevo deciso di dedicare uno studio approfondito: con pacatezza mi fece ragionare sulla necessità di storicizzare il tempo del Vecchio Testamento piuttosto che rilevarne, come io facevo, soprattutto il messaggio devastante che scaturiva da stragi, eccidi e sacrifici nel nome di Dio. Cambiando argomento, esattamente nell’ultima telefonata, mi “educò” con il solito tratto pacato, direi più che signorile, su una mia a suo parere eccessiva infatuazione per la “Recherche” di Proust, lettura che finalmente, avendola sempre rinviata, avevo fatto con piacere immenso non so se più per gli argomenti, la memoria soprattutto, o per la scrittura fatta di periodi sterminati esattamente all’opposto di quanto mi avevano insegnato per fare il mio mestiere che preferisce se non pretende frasi non lunghe, bensì asciutte e concentrate. La prese alla larga e mi raccontò di gruppi napoletani intitolati a lui che si riunivano quasi in una setta (in senso buono) per leggere e commentare lo scrittore. In parole povere raffreddò il mio entusiasmo benché io continui a ritenere quella lettura una delle più interessanti della mia vita.
Che cosa è stato Piscopo? Si fa prima a dire che cosa non è stato. Ha suonato per l’intera vita tutti, o quasi, i tasti del piano e lo ha fatto continuando a svolgere in maniera professionale la funzione pedagogica nella scuola e dintorni, forse il centro vero della sua missione esistenziale. La scuola in primo luogo dove il suo passaggio in molteplici vesti, anche quattro anni di insegnamento al liceo italiano di Tripoli, ha lasciato tracce importanti. Una missione che ha attraversato la sua vita fino agli ultimi giorni. Poco prima della sua scomparsa in un articolo su “Repubblica” sottolineò ancora una volta la centralità della scuola per Napoli e il Mezzogiorno: «Tutta la società meridionale, non soltanto la scuola, deve essere chiamata in causa per innalzare il livello culturale dei giovani del Mezzogiorno sapendo che dove la società è in via di imbarbarimento non vi può essere una scuola viva e costruttiva».
Insegnare, organizzare la scuola per farla funzionare al meglio, approfondire tutte le materie per cui aveva interesse, produrre libri e saggi, scrivere per i giornali, tradurre, scrivere testi teatrali, critico d’arte, consulente editoriale e poi la poesia, l’università, i convegni. Come facesse è difficile capire anche perché in ognuno dei campi in cui si dava da fare primeggiava con la parola e con i documenti – i suoi libri costituiscono da soli una biblioteca – si può dire definitivi su tanti argomenti e personalità. Una personalità, come altre venute dall’aree interne delle regioni meridionali, che ha pesato in vita e il cui valore è ancora più rilevante dopo la morte visto che non ha ricevuto i riconoscimenti che avrebbe meritato in vita.
Tanti anni fa portava i suoi articoli alla redazione napoletana di “Paese Sera” nell’Angiporto Galleria di fronte al San Carlo. La sua firma già allora dava lustro al giornale. Spaziava in mondi vari, da quelli noti delle sue attività ma anche su altri sui quali stava lavorando e di cui dava anticipazioni. Ci si poteva anche sorprendere nel constatare che una persona così mite e dolce fosse tanto ferma, precisa e non indulgente nel trattare temi anche spinosi. Poi si capì che non poteva essere diversamente se era capace da preside di far funzionare perfettamente scuole spesso difficili da governare. Diventammo amici e lui scherzava anche sulle nostre troppo differenti sagome specie quando stavamo in piedi uno di fronte all’altro.
Quanto alla sua immensa produzione non mi avventuro in giudizi critici, perché non è il mio mestiere, ma da osservatore diligente posso tranquillamente ricordare che in determinate materie i suoi lavori sono stati fondamentali, valga per tutti la sua ricostruzione del futurismo e del peso che ha avuto nella cultura italiana. E poi straordinario fu il suo rapporto con i territori, la natia Irpinia, Napoli che lo adottò, la Calabria… «che per me – scrisse nella prefazione, perfino profetica, del libro dal titolo felicemente virgiliano “Calabri me rapuere” – è una monumentale enciclopedia della complessità e della latenza della storia, scritta a più mani in prevalenza con la collaborazione anche di chi non sapeva né scrivere né leggere nel senso suggerito da queste due parole oggi. Scrivere e leggere, nel caso dell’enciclopedia Calabria, invece, come mi hanno insegnato coi fatti i miei nonni materni, presso cui sono nato e cresciuto nella prima e nella seconda infanzia in Irpinia, vuol dire entrare attivamente nella costruzione dell’esistente, cercare di interpretarlo e di viverlo in proprio, modificandolo, se possibile, lasciandovi il segno della partecipazione e della variazione anche di aspetti minori o giudicati minori. Continuare ad esserci, anche quando materialmente la nostra piccola fragile vicenda personale fisicamente si è spenta».
Su un punto voglio soffermarmi: la sua visione politica. «Caro Karl, complimenti e auguri. Quanti mai possono vantare una tale longevità, esclusi i patriarchi della Bibbia?». È l’incipit dell’epistola a Marx, “un antenato fra noi”, che scrisse quattro anni fa in occasione dei duecento anni dalla nascita. Un documento straordinario (la bibliografia occupa quasi metà del testo… così lavorava il Nostro) in cui ci sono analisi critica, visione storica, passione politica. Scrive: «Quante volte è stata diffusa e celebrata enfaticamente la tua scomparsa, puntualmente smentita poi dai fatti… Ogni volta, però, quesiti e contatti vengono cercati per aspetti e problemi non ripetitivi di quelli che hanno tenuto banco nel periodo precedente, ma per raccogliere suggerimenti a spiegarsi le distonie scottanti proprie delle situazioni in svolgimento sul terreno dell’attualità. Questa volta, ad esempio, oggi, la tua presenza, anche d’impulso della ricorrenza dei tuoi duecento anni dalla nascita, ma non solo, è inquisita per riscontrare conferme sulla tenuta dell’utopia, sulla irrinunciabile necessità di prendere posizione a favore della salvaguardia dell’ambiente e del riscatto dei marginali e dei dannati della Terra, il cui numero è in continua crescita».
Da qui Piscopo muove la sua indagine che passa al setaccio in poche ma dense pagine l’immensa produzione scientifica dando conto di tutte le posizioni sui temi posti da Marx in un mondo nel quale è perfino in discussione l’esistenza di una classe operaia, caposaldo dell’analisi del filosofo di Treviri. Si parte da un dato attuale: «il 99 per cento della popolazione mondiale possiede appena l’1 per cento dei beni disponibili, contro una nettissima minoranza di plutocrati, che dispone del restante 99 per cento dei beni del pianeta». Comunismo, anticomunismo, crollo del Muro di Berlino connotano la storia del Novecento, poi una navigazione a vista «fino al successo di un pervasivo potere globale, che, come osserva Bauman, dopo aver spodestato ed esposto a ludibrio la Politica, è venuto manipolando l’individuo per farne un soggetto appagato, anzi felice della sua schiavitù, svuotandolo di ogni pulsione vitale, di ogni proiezione verso l’appropriazione critica di sé e della relazionalità col mondo».
Piscopo fa i conti con il presupposto dell’analisi marxiana, la “scientificità”, su cui basa la scommessa profetica sul futuro, «una certezza, che certezza non è, in quanto ciò che è scientifico non può essere una certezza scientifica mai». Marx «chiude le porte agli svolgimenti preterintenzionali o intenzionali del reale, che, talora in maniera devastante, intervengono puntualmente a tradurre le intenzionalità in accadimenti di altro profilo» senza dare ascolto a Hegel, Kant, Vico e prima ancora ad Aristotele e ai filosofi greci, lui «ha puntato sulla funzione della classe operaia come una clava o machete per abbattere il muro delle ingiustizie e della disumanità e ha disegnato per sé e per tutti un avvenire senza più contraddizioni». La conclusione di questo saggio, qui solo sintetizzato, parte dall’ieri, si ancora all’oggi e guarda al domani: «Così non è stato, così non sarà, anche perché la nostra realtà ha avuto e continua ad avere cambiamenti e trasformazioni travolgenti. Ad esempio, la classe operaia è venuta sempre più riducendosi, mentre grossi e inaspettati problemi stanno investendo ad ampie latitudini un’umanità sempre più in sofferenza. È a questa crisi che bisogna rispondere in collaborazione fra tutti, nel segno della laicità, della libertà, del pluralismo, ma anche con la determinazione che tu proponi nel tuo sogno utopico di palingenesi. Ecco perché tu sei ancora con noi».
Torno al privato perché questo documento mi coglie negli affetti. Cinque anni prima gli chiesi di leggere il manoscritto del mio libro, “Il compagno Saul”, sulla vita di mio padre, un operaio del cantiere navale di Castellammare divenuto un’icona del Pci. Non so se il mio genitore avrebbe apprezzato le conclusioni della “lettera”, ma sta di fatto che Piscopo, con la sua amichevole disponibilità, fu felice di questa richiesta e, in tempi piuttosto brevi, mi fece riavere il testo con correzioni sulla forma e nessuna sulla sostanza. Quando me lo consegnò si complimentò anche e soprattutto, accompagnandolo con un sorriso indimenticabile, sottolineò il valore di mio padre: «Matteone, hai fatto bene a scriverlo». Frase che, con il senno di poi, mi piace associare a quel commiato con l’autore de “Il capitale”: «…tu sei ancora con noi».
Si è capito che questo mio è un tributo prima all’amico e dopo all’immenso studioso, uomo di cultura, operatore culturale, educatore, poeta e tanto altro ancora della cui amicizia, ripeto, e, spesso, collaborazione, ho goduto per oltre mezzo secolo. Un’amicizia cementata anche da episodi che sono incisi nella storia della mia famiglia. Quarantasette anni fa, nei primi giorni di maggio, mia moglie, insegnante precaria, era supplente all’Ottavo Liceo Scientifico di Napoli il cui preside era Piscopo. Lei era ormai agli ultimi giorni di gravidanza e continuava ogni giorno a recarsi con treni, bus e piedi da Castellammare al Parco San Paolo, anche perché a quel tempo non esistevano paracaduti. Lui un giorno le disse: «Vada a casa altrimenti lo chiamiamo Ottavino». Sorrisero tutt’e due. Due giorni dopo nacque Valentina.
*Articolo pubblicato sul numero 1/2022 della “Rivista calabrese di storia del ‘900” diretta da Vittorio Cappelli

Il coraggio di dire “no” nella città delle sagre

Che scandalo quell’albero di Natale di ferro! Che guaio aver scherzato con la sorte impedendo la realizzazione del “corno” più grande del Colosso di Rodi! Ci consoliamo con una pizza da quattro euro, dopo aver fatto una scorpacciata di baccalà che, se abusato, può anche disturbare, e in attesa di addentare bocconi di mozzarella di bufala incuranti del latte che cola dal mento. A seguire si spera in una rivincita in grande stile del per e ‘o musso con succo di limoni di Sorrento e sale abbondante o in una colata di soffritto statutariamente piccante semmai con versione di spaghetti conditi con il medesimo sugo. Poi ci sarà tempo per prendere in considerazione la cucina di mare e, con il dovuto riguardo, Sua Maestà il Sartù.
La città dei tavolini, selvaggi e autorizzati, brinda al turismo ritrovato non solo nell’accorsato lungomare, dimenticando spazi deputati alla bisogna come la Mostra, ma anche in ogni piazza, strada e vicolo dalla pianura alla collina perché la Napoli obliqua ha trovato una comune identità nel rendere privati gli spazi comuni, grandi o piccoli che siano, in virtù del bene primario del commercio e incurante del diritto alla quiete dei residenti e delle pesanti ricadute sul traffico già congestionato di suo.
Il “nocchiero” Manfredi, che inaugura la qualsiasi, lascia correre non si sa se per bypassare le decisioni, permissive o proibitive non fa differenza, che sono sempre impopolari per una parte o per l’altra, o perché convinto che la fiera di sagre, friggitorie e movide sia un fattore decisivo della ripresa economica e sociale della città dopo anni difficili. Governare è un mestiere complicato. Il valore spesso risiede nei no piuttosto che nei sì o peggio nei silenzi. Sarebbe impietoso ricordare che il sindaco del Rinascimento per prima cosa chiuse piazza Plebiscito nonostante una folla di automobilisti infuriati perché impediti di attraversarla o per collaudata prassi di deporvi in sosta la propria appendice veicolare. Altri tempi, altre storie e, va detto, anche altri errori.
I confronti servono a poco, ogni sindaco ha la sua cifra, poi contano i fatti che devono seguire alla speranza del cambiamento, dopo che su chi ha preceduto si è detto peste e corna. Qualche dubbio sorge spontaneo se l’alternativa alla linea del lasciar correre di passata memoria è quella del numero chiuso nelle striminzite spiagge libere e controllato dagli esercenti balneari che è come – letta su un social – affidare a Dracula la gestione dell’Avis, o di fare la parata dei vigili se è di passaggio qualche ministro. E lasciamo stare i nodi da sciogliere nella distribuzione di incarichi quando la morsa del caleidoscopio di liste e interessi, decisivo per la vittoria plebiscitaria, si trasforma in una invalicabile linea Maginot.
Allo stato delle cose un cittadino che legge annunci di grandi e affascinanti programmi e che nel frattempo soffre di tutti i disagi di una città disorganizzata mentre sul lungomare si banchetta con primo, secondo, contorno e cocomero, può solo dire al suo sindaco, che l’abbia votato o meno, di amministrare con coraggio anche a costo di scontentare qualcuno. La sindacatura è ancora lunga e c’è il tempo per ridare vento alle vele prima che mestamente si affloscino. E servono anche esempi che diano concretamente il senso del cambiamento tanto atteso. Però senza cialtronerie – mi perdoni d’Errico se gli rubo il termine – come quella di consolare Daniel Auteuil scippato di un Patek Philippe di 39 mila euro con un orologio di un centinaio d’euro con l’efffiige di Pulcinella accompagnato da una plateale risata dell’assessore che avrebbe fatto piangere la nostra maschera più famosa.

*Articolo pubblicato il 30 giugno 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

Restanza, il coraggio di chi rimane

Scruta il mondo da San Nicola da Crissa da quando è nato settantadue anni fa: «Vivo nella casa in cui sono nato, l’unica che possiedo grazie a mio padre che è stato più bravo di me a ipotecare il futuro… dormo nella stanza in cui sono nato e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore… Le strade sono vacanti, assenti i rumori… Il paese che ho visto pieno adesso è vuoto. I compagni che partivano pensando a un ritorno poi non sono più tornati… Il luogo che volevo cambiare mi ha, forse, cambiato. L’esilio non l’ho scelto io, mi è arrivato a casa».

Poco più di un migliaio di abitanti, il piccolo paese è nel cuore della Calabria, sulle Serre Vibonesi, quasi a metà strada tra la tirrenica Vibo Valentia e la ionica Soverato. L’antropologia di Vito Teti nasce lì, nella stradina in cui è nata la sua famiglia poi disgregata dall’emigrazione con il padre andato in Canada e cementata da una madre, come nella tradizione di quella terra, forte e dolce, rigorosa e protettiva. San Nicola da Crissa diventa così l’ombelico del mondo, dove tutto e nulla cambia, da dove fare i conti con la cultura, i grandi “viaggiatori”, gli antropologi, gli umili, gli scrittori a partire da Corrado Alvaro, il più grande, del cui lascito culturale diventa il tutore. Intanto insegna, scrive, partecipa agli incontri da un capo all’altro della sua regione, del paese, del mondo, e giorno dopo giorno non molla la presa sui temi che dominano il suo orizzonte vasto per quanto scrutato dal finestrone del suo studio. E apprende rapidamente, senza allontanarsi da casa, che la storia entra dappertutto senza bussare: glielo ricordano la teca conservata nel municipio con un’aorta di Carlo Poerio e il Risorgimento che ritorna in primo piano con la storia di amore e di modernità del patriota Antonio Garcèa (rinchiuso più volte in carcere per la sua lotta contro i Borbone) e Giovanna Bertòla, giovane maestra piemontese e femminista ante litteram con il suo giornale «La voce delle donne».

Ecco, non si capirebbe Vito Teti, il maggiore intellettuale della Calabria, cresciuto alla scuola di Luigi Lombardi Satriani scomparso in questi giorni, se lo si estrapolasse da questo mondo di cui è diventato voce, interprete e protagonista. Ma poi si legge il suo ultimo libro, “La restanza” (Einaudi, pagine 160, euro 13) e si mette in fila, in una sintesi prodigiosa e stupefacente, il lavoro intenso di una vita, la vita stessa. Appena di qualche mese precedente la pubblicazione per i tipi di Rubbettino di “Homeland”, un grande volume fotografico (anche immagini di Salvatore Piermarini), quasi cinquecento pagine sulla “Little Italy” di Toronto dove nel ‘900 gran parte di San Nicola da Crissa si trasferisce, ricreando altrove la comunità, la nuova patria: «Mi sento “mio padre” – scrive – e penso a quanto sia stupefacente dover compiere un viaggio oltreoceano per tentare di ricomporre frammenti di un’identità spezzata, per potermi riconoscere meglio».

La restanza, dunque, è l’approdo di chi ha dedicato studi e ricerche ai luoghi e al loro senso, la restanza come un altro modo di viaggiare. Perché, ha scritto Mario La Cava, «non è necessario lasciare la propria terra per affermare il valore della propria creatività. In fondo chi decide di viaggiare, il mondo può solo guardarlo, mentre chi mette radici può capire di più il significato della realtà che lo circonda, può interpretarlo. Sono le idee che devono viaggiare, più delle gambe degli uomini».

In realtà gli uomini viaggiano per tanti motivi e, quando il viaggio diventa abbandono dei luoghi natii diventati troppo periferici e scarsamente serviti, la desertificazione dei piccoli centri diventa inevitabile. Gli emigranti, per esempio, partivano perseguendo “inconsapevoli strategie di non ritorno”. Cosicché a loro, “uomini senza donne” che hanno popolato le mille città del mondo, hanno dato un senso le “donne senza uomini” rimaste nei paesi e nelle campagne. L’emorragia, per motivi diversi e via via sempre più rapportati non solo al bisogno primario del lavoro ma anche ai modelli di vita della modernità, ha svuotato i piccoli centri di persone, di relazioni, di senso.

E quando il processo è quasi arrivato a un punto di non ritorno e mentre sul nostro percorso incombono i grandi mali del pianeta, ecco che si avvia un viaggio all’incontrario, non affollatissimo come quello della fuga ma significativo, di un bisogno di ritorno che sembra fondarsi sul sentimento della nostalgia.

Teti si e ci pone domande “fecondamente inquiete”: «Forse la nostalgia è davvero la natura dell’uomo che è condannato ad essa sia quando parte sia quando resta… perché l’uomo è un animale nostalgico sia che viaggi sia che resti fermo? Non sarà la nostalgia la condizione naturale e culturale del “sapiens”?». Pavese ci ricorda che “un paese ci vuole”, ma Teti avverte che “al paese non si torna”. E se prevalesse la “nostalgia restaurativa in cerca di un passato esemplare e ripulito da ogni contraddizione,” si seppellirebbe “quel poco che, del paese, resta”. E allora? «Se la nostalgia diventa una strategia per inventare il paese, se lo stesso ritorno è il paese da inventare, allora quel che resta è un universo mobile. Dinamico, che può essere riscritto nella sua feconda inquietudine “mitica”. Serve ascoltarlo. Riguardarlo, prendersene cura, nominarlo».

Restare oggi presuppone che i paesi possano diventare “luogo di un possibile futuro” a condizione che siano pensati in maniera nuova, che si affermino diversi modelli di sviluppo, mutamenti di stile di vita, usi adeguati delle risorse, un rinnovato rispetto del territorio. «Non si prospetta – avverte l’antropologo – un improponibile ritorno al passato mitizzato del paese, ma si esprime la consapevolezza che le zone interne hanno un enorme capitale di risorse ambientali, paesaggistiche, culturali. Il paese potrebbe ripresentarsi come un corpo aperto, dinamico, capace di accogliere, meta per chi cerca “altro” quando la metropoli degenera in un’omologante monotonia».

Restare, partire, tornare, viaggiare. E forse con tutti i viaggi e i ritorni che compiamo, non si fa altro che restare. Con Teti lasciamo la parola a Giorgio Caproni: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato un restare / qua, dove non fui mai».

*Recensione pubblicata su foglieviaggi.com il 10 giugno 2022

https://www.foglieviaggi.com/_/pagine/mother/rubriche/recensioni/articoli/012_recensione_restanza_10_06_2022.html

«L’estasi di Chiara» passa anche per la Campania

Che la scelta del ricco Francesco di spogliarsi di tutti i beni e le vesti e vivere da povero al servizio dei poveri fosse clamorosa, quella dell’agiata Chiara di seguirne le orme fu a dir poco rivoluzionaria. Tanto da interrogarci ancora sulla genesi di quella rottura per quel tempo assolutamente incomprensibile ai più e intollerabile per la sua più che benestante famiglia, che visse un trauma sicuramente più doloroso e insopportabile della famiglia di Francesco esattamente per il fatto che la protagonista di tanto sconquasso fosse una donna. «Una donna che ha anticipato i tempi… la grandezza del gesto vale sia per l’uomo che per la donna… sull’esempio di Francesco ha dimostrato che la stessa strada, tra l’incredulità generale, poteva essere percorsa anche da una donna». Indipendenza, autonomia, emancipazione rivendicate con scelte difficili e sacrifici immensi di fronte a una società rigida e a famiglie possessive.

Dunque, ci si interroga e lo si farà chissà per quanto ancora, mentre quei luoghi, Assisi, Spoleto, le terre umbre, grazie ai due santi e al loro messaggio sempre vivo, sono diventati simbolo di dialogo, unione, fraternità, solidarietà, pace e quest’anno, con una guerra nel cuore d’Europa, ancora di più. E, dopo tanta letteratura e cinema, lo fa con un romanzo Raffaele Bussi, “L’estasi di Chiara” (Marcianum Press, pagine 160, euro 16), che in un gioco di rimandi, quasi una matrioska che, una dentro l’altra, svela tante storie e luoghi, da una panchina del lungomare stabiese al chiostro napoletano di Santa Chiara alla chiesa di San Damiano di Assisi. Uno sforzo ardito, non temerario però, sollecitato dal desiderio di capire, ancora dopo otto secoli, se ci sia «qualcosa di misterioso nella scelta della figlia di Favarone».

Quando lei «ha sei anni, vede Francesco, che ne ha diciotto, in tutto il suo fascino giovanile”. Lo amerà? Di sicuro la scelta di vita di Francesco non potrà non illuminare l’itinerario della ragazza che sarà una delle grandi sante, tra le più amate della storia di sempre. La tesi, non nuova, attorno a cui ruota il libro è che quando Chiara capisce che il suo sentimento non potrà mai essere quello che potrebbe intercorrere tra un uomo e una donna, “pur di non perderlo” decide di seguirlo sulla strada tracciata dal Vangelo. «Proprio per questo quella tra Chiara e Francesco – sostiene Bussi – è la più grande storia d’amore di tutti i tempi», una storia che mescola canoni di modernità sorprendenti e che non finirà mai di affascinare credenti e non.

*Recensione pubblicata il 7 giugno 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

La violenza resa banale

È di una banalità sconcertante la deriva delinquenziale, soprattutto giovanile, che attraversa da un capo all’altro Napoli e spesso, anche con più virulenza, ampie aree della sua provincia. Banalità, sia chiaro, non per gli effetti che sono gravi e inquietanti bensì per le cause, che per tappe sono state analizzate e approfondite. Ora è colpa dello Stato troppo assente o distratto, ora della scuola che limita prevalentemente al suo spazio fisico e temporale la funzione educativa, ora della famiglia distratta o troppo permissiva, ora naturalmente dei media di vario genere che diffondono modelli suggestivi, non solo quelli di Gomorra, tali da alimentare una devastante emulazione. Poi ovviamente c’è il lavoro che manca e che fa da sfondo al malessere di generazioni di ieri e di oggi, ma bisogna mettere nel conto anche la lezioncina di chi obietta che un lavoro retribuito in maniera non sempre dignitosa non sarebbe preferibile non dico al reddito di cittadinanza ma ai guadagni facili delle occupazioni illegali che per di più, a parte i rischi di finire in carcere o al cimitero, garantiscono il “rispetto”. Sia come sia, sui rimedi, sul che fare il dibattito, per quanto ripetitivo, si ripropone con una banalità, ripeto, avvilente.

Il sindaco Manfredi avverte che non intende militarizzare la città. Gli diamo torto? No, perché la città-caserma sarebbe la sconfitta della società, della politica, delle istituzioni, dei cittadini. Dopo di che torna la domanda: che si fa? Azioni sociali, promozioni positive, mobilitazione di parrocchie e centri di aggregazione, iniziative nelle scuole e quanto è possibile escogitare di buono? Certo, l’azione dal basso è indispensabile, ma non basta. Intanto perché questa è una strada lunga e prima che sortisca risultati tangibili e generali ce ne vuole e non è neanche scontato che tutti siano intenzionati a percorrerla. Ma intanto persiste, sempre più granitico, lo scoglio dell’illegalità diffusa a tutti i livelli, dai piccoli gesti di egoismo o strafottenza alle grandi prepotenze. Soffermiamoci su uno dei tanti modelli comportamentali acclarati e accettati ormai supinamente da tutti o quasi. Non parliamo ovviamente di coltelli, acidi e pistole ma di un elementare fattore di convivenza civile: il rispetto delle regole, per esempio del codice della strada da parte dell’esercito crescente (per necessità visto il disordine e la conseguente immobilità della mobilità urbana): i mezzi su due ruote.

Si fa più presto a contare i “centauri” corretti, basterebbero le dita di una mano. Chiunque vive a Napoli sa di che parlo. Sbucano dappertutto perfino con arroganza, spesso con una mano sullo sterzo e un’altra all’orecchio con annesso telefonino, da soli o in compagnia, anche bambini, apparentemente indifferenti alla sicurezza perché sicuri che gli altri (automobilisti e pedoni) devono pensare non solo alla propria ma anche alla loro. Naturalmente i divieti di accesso o i sensi contrari per loro non sono neanche raccomandazioni ma amenità di buontemponi. E non fanno differenza tra strade e marciapiedi tanto per loro sono la stessa cosa sia per transitare sia per parcheggiare. Delle strisce pedonali se ne fregano e chi attraversa (a proposito, in un mondo rovesciato a Napoli i pedoni ringraziano gli automobilisti che li lasciano transitare) pensa di avercela fatta avendo superato l’auto quando si si vede sbucare uno scooter davanti ai piedi. Un viaggiatore del Grand Tour che ritornasse oggi dalle nostre parti ne scriverebbe come in tempi lontani fece sugli scugnizzi a piedi scalzi.

Tutto questo, si sa, non è folclore ma la constatazione che un fattore di semplificazione degli spostamenti in una città così congestionata si è trasformato in un elemento di ulteriore aggravamento del disordine generale (ovviamente meno per i protagonisti). Credo che lo stesso malcapitato “viaggiatore” non mancherebbe di notare che nessun uomo in divisa (sempre che se ne veda qualcuno in giro) agisca, anche quando si ritrovi di fronte a uno scooterista in una strada a senso unico, per ricordargli, non dico punire, che sta commettendo così platealmente un’infrazione davanti a lui. Di sicuro Manfredi non si riferisce a questo quando parla di militarizzazione, perché vada pure che non si debba far intervenire l’esercito ma almeno qualche vigile urbano sì.

Questa “banale” descrizione di vita quotidiana consente di sottolineare da un altro versante un motivo della deriva di cui si diceva all’inizio. La domanda: ma qualcuno ha ricordato a questi innocenti e costanti trasgressori delle regole che ci sono le regole? E prima ancora di chiederlo a scuola, società e Stato bisognerebbe parlarne con le famiglie, in primis i genitori. A quali valori hanno educato i loro figli? Il rispetto delle leggi e prima di tutto degli altri, che è la condizione decisiva per una convivenza civile tale da non ledere gli interessi di nessuno, ha fatto parte del bagaglio educativo fatto di consigli e di esempi? O talvolta hanno dato anche loro il cattivo esempio?

Naturalmente qui non si intende criminalizzare il più “innocente” dei trasgressori in servizio permanente effettivo e dargli la colpa dei mali della città, ma solo ricordare come tutto si tenga dal momento che quando i freni spariscono anche chi ne sia provvisto può finire con l’ignorarli per semplice bisogno di sopravvivenza. Insomma, uno strappo oggi, uno domani e via via il salto è compiuto.

Che fare, dunque? Tante, troppe cose. Ma in tutte le direzioni perché i guasti di questa città, che non è ingovernabile per fattori naturali, sono troppi, hanno cause maturate in tempi lunghi e sono note e studiate. Non vorrei caricare sulle spalle, non so quanto robuste, del sindaco Manfredi compiti così gravosi ma credo che in una scala di responsabilità a lui spetti il compito di sollecitare un “rinascimento” prima di tutto morale e poi fattivo dei soggetti fondamentali del governo reale di una città così complicata: Stato, scuola, famiglia, giovani, cittadini, associazioni, parrocchie. Una volta, di tanto in tanto, c’era la Politica, certo con limiti ed errori, ma capace di parlare ed essere ascoltata. Ora bisogna far leva su quello che passa il convento. Senza militarizzare ma anche senza compiacenze e dimenticanze (famiglie) che alla lunga diventano complicità.

*Editoriale pubblicato il 4 giugno 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

Il mio Berlinguer

Ho avuto tre segretari della Fgci, Achille Occhetto, Claudio Petruccioli e Gianfranco Borghini, e quattro segretari del Pci, Luigi Longo, Enrico Berlinguer, Alessandro Natta e Achille Occhetto, e tutti, senza che lo sapessero, hanno segnato gran parte della mia esistenza. Di alcuni ho anche ricordi personali ma, come è capitato a tanti, chi è entrato davvero nella mia vita è stato Berlinguer. Milioni di italiani lo piansero quando finì su quel palco di Padova, milioni di italiani lo ricordano in questi giorni. E tanti si interrogano, ognuno dando una sua risposta, sui motivi della popolarità di quest’uomo. Lo faranno ancora, spero anche i giovani che verranno, perché la sua fine ha creato un vuoto incolmabile e la sua vita così piena, ricca e coerente è entrata nella migliore storia d’Italia.
Fare confronti con l’oggi non ha senso, di sicuro però sappiamo che quella politica, di cui Berlinguer è stato un protagonista assoluto, non c’è più traccia. E sarebbe più che azzardato un po’ bizzarro immaginare che cosa avrebbe fatto uno come lui nei nostri amari tempi. Meglio accontentarsi dei ricordi sapendo che abbiamo avuto il privilegio di vivere per tanti anni in sintonia con lui.
I suoi comizi, i suoi articoli, le sue interviste, le relazioni negli organi del partito, le sue scelte hanno riempito l’agenda di molte nostre vite. La mia di militante del partito che, anche quando per l’attività professionale dovevo tenere ben distinta dal lavoro, trovava un ascolto attento nel segretario generale. Qualche lettera, di una su “Paese Sera” ho scritto in un libro, è tra i documenti più preziosi che serbo nella cassaforte della memoria. Questo Berlinguer era mio come lo era dei militanti e degli elettori, in un rapporto di fiducia, se si può dire, totale, come il padre buono, severo, responsabile e previdente di un’immensa famiglia.
La famiglia, poi, nel caso mio c’è entrata dalla porta principale e non in senso metaforico. Quando mio padre tornò da Roma dove era stato invitato da Rinascita ad una tavola rotonda del vicesegretario del partito, Berlinguer in quel momento, con gli operai delle grandi fabbriche, era così felice e fiero da impegnare le discussioni di pranzo e cena per giorni. E qualche giorno dopo da Botteghe Oscure arrivò la comunicazione a via dei Fiorentini che il compagno Saul era stato cooptato nel comitato centrale delpartito, un incarico che valeva per lui più di qualsiasi carica pubblica.
Fu tra i due un incontro felice, la rappresentazione concreta del partito della classe operaia. Papà era fisicamente il doppio di Berlinguer, faceva impressione vederli insieme. E se era scontata la stima di mio padre per il segretario, quella che manifestava quest’ultimo era davvero sorprendente. Antonio Bassolino, che ha frequentato i due come pochi altri, mi ha raccontato di un pranzo a Castellammare da “Ciccio di Pozzano” tra loro tre. In quei giorni si dovevano decidere incarichi di primo piano nel partito della Campania e Berlinguer voleva consigli da Saul, il quale non solo glieli dava (per esempio: “Antonio serve a Napoli, lo si deve fare segretario”) ma lo faceva con una perentorietà che “solo lui – mi ricordava sempre Bassolino – poteva permettersi con il segretario generale”. E c’era anche tanto affetto tra loro. Quando con il terremoto crollò la nostra casa, Berlinguer venne appositamente a Castellammare per fargli sentire la sua vicinanza. L’ultima foto del “compagno Saul” lo ritrae insieme a lui. E quando papà qualche settimana dopo morì, il segretario lo ricordò con parole che mettevano insieme un giudizio politico e un sentimento profondo che non nascondeva la commozione.
Capite ora perché parlo di un Berlinguer di famiglia. E, per quanto cerchi di distinguere tra il Berlinguer di tutti e, quindi, anche mio, e il Berlinguer che ha attraversato come un vento fresco, pulito, amichevole, fraterno, l’esistenza di mio padre, non riesco a fare una sintesi più politica e una valutazione storica. Ma forse la grandezza di Berlinguer è proprio questa: lo spessore politico e culturale, una forza ideale immensa e una profonda umanità.
25 maggio 2022

Speranza e coraggio civile nella regione dei diavoli

Sull’Aspromonte sono andato più volte salendo dalla piana di Gioia Tauro, dalla Locride, da Reggio Calabria. E sempre sull’animo insisteva inconsapevolmente la sensazione di avvicinarmi a una terra difficile e insidiosa. Talvolta quasi sorpreso, sempre irrazionalmente, di non essere incorso in un pericolo, in un incidente, in brutti incontri. E mentre dietro di me scompariva l’immagine del mare, di uno dei tanti mari su cui la montagna precipita imperiosamente o dolcemente, rimanevo affascinato e intimorito quando all’improvviso il mezzogiorno diventava mezzanotte e un tetto altissimo di rami e foglie non si lasciava attraversare neanche da un filo di luce.
Mi ci ha fatto pensare Simona, la protagonista in forma di io narrante di “Terra santissima” (Laruffa editore, pagine 178, euro 16), un romanzo di Giusi Staropoli Calafati. Lei è una giovane calabrese emigrata con i genitori a Milano e fa la giornalista. Il direttore la manda nella sua terra natia, appunto l’Aspromonte, con il compito di fare un affresco, come è d’uopo, a tinte fosche di quella terra maledetta notoriamente abitata da diavoli e per antonomasia sotto il tallone della ‘ndrangheta. Lei in verità ha ben altre intenzioni perché ha pochi ma indelebili ricordi della primissima infanzia, addirittura cerca, e lo trova pure, un sacchettino di nocciole nascoste in una fessura della casa quando partì per il Nord.
Incontra anche l’amore, un pastore che vive nella sua “casella” in solitudine. Lei si inoltra nella montagna aspra e oscura, bella e inquietante, si sofferma affascinata davanti al macigno di Pietra Cappa, un monolite alto centoquaranta metri circondato da una foresta che ancora lascia intuire i lamenti dei sequestrati, mentre rimbombano l’ululato dei lupi e il calpestio dei pastori e delle loro capre. Il suo è lo sguardo dell’innamorata che vede bellezza in ogni angolo e non riesce a trattenere la rabbia per come viene rappresentato quel luogo e per estensione la regione che lo contiene, la Calabria.
Il suo reportage, pubblicato senza che sia stato letto dal direttore, la fa licenziare su due piedi. Ma tempo dopo torna giù come inviata di un altro giornale. E questa volta il viaggio non è più a mezza strada tra la nostalgia, che rischia di falsare la realtà, e il lavoro giornalistico. Ritrova anche il suo uomo ma via via scopre che nel frattempo non ha retto alle lusinghe e, poi, alle “proposte che non si possono rifiutare” del capo locale della ‘ndrangheta ed ormai è finito, con soddisfazione, nel meccanismo infernale. Il racconto è denso e pieno di colpi di scena, gli articoli che vengono pubblicati lo sono anch’essi e, naturalmente, sono apprezzati dal giornale. In questa terra raccontata, senza blandizie, da Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava, Francesco Perri, lei vuole cocciutamente muoversi nella loro scia, che poi è il messaggio che l’autrice vuole lanciare con il suo romanzo che, quasi con una frattura, si conclude trasformandosi in un manifesto per il riscatto “culturale” di quella regione.
Appena qualche mese fa ho letto un altro libro, questa volta non di fantasia, sul profondo Sud della Calabria nella sua versione più drammatica e al tempo stesso coraggiosa. Il protagonista fu, tra l’altro, la mia guida in più di un attraversamento dell’Aspromonte. Si tratta di un libro-intervista scritto da Gabriella D’Atri, “La ribellione di Michele Albanese” (Castelvecchi editore, pagine 97, euro 13,50). Albanese vive dal 2014 sotto scorta. Corrispondente del “Quotidiano della Calabria” dalla Piana di Gioia Tauro, cronista puntuale di ogni fatto di quell’area martoriata, non solo di violenze e uccisioni, di politica e del porto. Nel suo cursus honorum l’articolo con il quale raccontò l’inchino della statua della Madonna davanti alla casa del capo della ‘ndrangheta a Oppido Mamertina che gli fece guadagnare l’odio del prete, della gente e naturalmente della ‘ndrangheta.Un giorno, poco prima di mezzogiorno, si trovava a Sinopoli nella Piana per raccogliere le notizie di un omicidio. Aveva appena disegnato la sagoma del cadavere tratteggiando anche i fori dei proiettili quando ricevette una telefonata dalla polizia che lo “invitava” a farsi accompagnare alla Questura di Reggio Calabria. Lui pensava di rinviare al giorno dopo ma l’invito divenne ordine e così scoprì che la ‘ndrangheta aveva deciso di ammazzarlo, si erano già procurati il tritolo per farlo saltare in aria. Le notizie, fresche di qualche ora, venivano da una cimice posta sull’auto di due ‘ndranghetisti sicuri di non essere intercettati: “U vogghju mortu. Forsi non capisciu cu cui si misi… Nc’è tritolu ammuncciatu nt ana cascina non tantu luntanu i ca’. Usamu chidu. Vogghiu nu lavuru pulitu. A bum andavi e siri mentuta sutta a macchina, sutta u latu da guida. Non avi aviri scampu du ‘mpamu. Apoi cu nu radiucumandu…buum”.
Michele pensò che stava accadendo ciò che temeva da anni, sicuramente da quando sua figlia appena uscita dalla scuola elementare gli chiese: «Papà, che significa ‘mpamu? Sai, un mio compagno di classe mi ha detto che non vuole giocare con me perché sono figlia di ‘mpamu». Tramortito, aveva risposto: «’Mpamu in dialetto calabrese vuol dire infame».
Da otto anni la sua vita è cambiata, quasi una prigione in cui, però, non è stato mai sfiorato dall’idea di un cedimento, di una resa tant’è che ha continuato, nelle condizioni che si possono immaginare, a fare il giornalista e a scrivere di quella zona e di tutto, fatti di ‘ndrangheta compresi.
Eroe suo malgrado, Michele è più precisamente, come dal titolo del libro, un ribelle civile che non ha pentimenti, ripete che farebbe esattamente le stesse cose che continua a fare e che lo hanno portato alla condanna a morte. Ci riesce anche perché la famiglia gli si è stretta ancor di più accanto e patisce le stesse sue restrizioni e paure.
Un’altra Calabria? Non esattamente. Quando mi accompagnava sull’Aspromonte aveva gli occhi lucidi per la gioia di raccontare la sua terra che conosce a menadito, non nascondendone i pericoli e le ingiustizie ma al tempo stesso vantandone pregi e potenzialità. Stavamo per arrivare a Polsi, mi avvertì: “Ora vedrai un altro mondo, scenderemo e in basso, proprio alla punta di un cono rovesciato, vedrai l’inferno e il paradiso”. Arrivammo a piedi fino al Santuario dove fede e mistero convivevano e un’umanità variegata si muoveva come un fiume in un solco tracciato. Il prete ci accolse e pranzammo con le nostre mogli (un’eccezione riservata a lui) nel refettorio con pasta con sugo di capra e capra. Dopo, su una panca, uno strano signore di una certa età, che subito vantò sue strane esperienze napoletane, ci fece dolcemente un terzo grado mentre i fedeli in fila entravano per inchinarsi davanti alla Madonna. Non saprei dire ma quello mi sembrò un sito che non poteva trovarsi altrove se non in quella vasta montagna.
Il romanzo e la realtà, la Calabria raccontata di Simona e quella vissuta di Michele. Il romanzo che diventa un manifesto: la cultura ci salverà; la vita che ci ammonisce: non mi arrendo. La prima è un auspicio, la seconda è sofferenza, dolore, impegno. Il pastore nella solitudine della sua “casella” non trova la forza di resistere e precipita nel vortice criminale, il giornalista che si è formato nel mondo del volontariato cattolico dice no e sacrifica la vita sua e dei suoi cari, ma lui e loro non mollano. E non è letteratura.

  • Articolo pubblicato su fogli&viaggi.com

La vita di Mancini, le spine e il fiore

Prima o poi Paride Leporace avrebbe dovuto scrivere un libro su Giacomo Mancini. Ha colto l’occasione dei vent’anni dalla morte per consegnarci questo “Giacomo Mancini, un avvocato del sud” (Luigi Pellegrini editore, pag. 110, euro 13). Perché “prima o poi”? Per tanti motivi che attengono alla sua direi filiale frequentazione e collaborazione con Mancini, all’interesse per il politico calabrese più celebre di un’abbondante metà del secolo scorso (non si adontino gli estimatori di altri, per esempio Riccardo Misasi), al suo essere calato non solo per natali nella regione e soprattutto a Cosenza, ma anche per il cognome. Ci ho pensato spesso da quando ho frequentato assiduamente la Calabria ricordando che Mancini mi disse nel mio libro-intervista un passaggio decisivo della sua biografia, vale a dire l’arrivo a Roma dopo l’8 settembre a conclusione di un lungo pellegrinaggio tra università di Torino e servizio militare nell’Aeronautica fino all’aeroporto militare di Novi Ligure: «Il mio primo incontro con l’antifascismo romano – mi raccontò – avvenne in un appartamento di Largo Argentina, occupato da Craveri, dove arrivai la prima volta con un mio caro amico cosentino, oggi affermato avvocato a Cosenza, Mauro Leporace, anche lui ex-ufficiale di commissariato aeronautico, simpatizzante del partito d’azione». Questi era lo zio di Paride.

Ciò detto, mi chiedo se ci fosse bisogno di un altro libro dopo quelli di Orazio Barresi (non amato da Mancini), di Enzo Paolini e Francesco Kostner sulle sue travagliate vicende giudiziarie, del figlio Pietro Mancini, soprattutto la puntuale biografia politica di Antonio Landolfi che con Mancini aveva avuto un legame amicale e politico ininterrotto, e senza voler ricordare ancora il mio? La risposta me la sono data alla fine della lettura, che è filata liscia in un sol colpo dall’inizio alla fine: merito del mestiere, della conoscenza e anche del taglio. Per quanto Leporace abbia seguito il filo del tempo la sua non è una biografia, piuttosto un ragionamento sul Sud come chiarisce il titolo dove per “avvocato del sud” sembra riferirsi a prima vista, grazie anche alla prima lettera minuscola, letteralmente a un avvocato delle nostre terre, e del resto Mancini non solo si era laureato in giurisprudenza a Torino con Florian, giurista di fama, ma esercitò anche la professione difendendo la parte civile per i fatti di Portella delle Ginestre. In realtà la definizione ha un valore più pregnante che vuole il Sud non solo come un’entità territoriale.

Va anche ricordato che nella vita ricca e tumultuosa di Mancini potrebbe risultare azzardato localizzare il suo impegno perché si trascurerebbero periodi ed eventi rilevanti quali le attività di ministro (si pensi solo alla vaccinazione antipolio, alla legge urbanistica, all’impegno dopo la frana di Agrigento, alle grandi opere dei lavori pubblici), di partito (segretario del Psi con annessi e connessi), di vigile guardia a difesa dei diritti civili e contro le deviazioni (il ruolo dei Servizi, il Sifar, gli ermellini), la navigazione perigliosa nei paraggi del terrorismo, ma la cifra è che la difesa del Sud maiuscolo è stata sangue e vene del suo lunghissimo itinerario pubblico.

Leporace mette a fuoco in maniera intrigante i periodi essenziali, scegliendo fior da fiore, e, pur in un contesto comprensibilmente partigiano, con parole e aggettivi fulminanti non elude aspetti criticati del politico, come, tra tutti, il suo ruolo nella tragica e cruciale vicenda della rivolta di Reggio o il rapporto tra consenso e voti che nel Mezzogiorno ha fatto non pochi guai o ancora l’aver privilegiato figli e nipoti e non aver lasciato eredi politici. Ma alla fine il bilancio non è in rosso. L’autostrada, l’università di Arcavacata, il porto di Gioia Tauro per quanto sorto sull’aborto del Quinto Centro Siderurgico e sulla distruzione abominevole di un patrimonio ambientale e produttivo di prima grandezza, sono titoli che resteranno nel tempo.

Il finale del libro e anche della vita di Mancini, un “socialista inquieto”, è fatto di spine e di un fiore. La spina politica che lo turberà nel profondo è l’emarginazione nel partito, il parricidio da parte di Craxi che al Midas proprio lui aveva portato al vertice e che fu ripagato con una clamorosa deposizione al tribunale di Milano in un processo di Mani Pulite. L’altra, dolorosissima ferita, fu quella che avvelenò i suoi ultimi anni quando dovette difendersi dall’accusa velenosa e vergognosa di contiguità con la ‘ndrangheta. La rosa – la capacità di politico di razza che risorge dalle ceneri ad ogni caduta – fu la totale, piena e definitiva riconciliazione con la sua Cosenza. Sindaco amato e venerato, ha lasciato i segni indelebili di una visione riformistica nell’amministrazione, nella cultura, nelle opere, nella promozione coraggiosa di uomini e donne anche scomodi. Leporace si commiata con un’immagine forte dei funerali in cui si evocano e rimpiangono i simboli di una tradizione politica unica, dai proletari del “Quarto Stato” al feretro accompagnato dalle bandiere rosse, e chiude con due righe dolenti: «…quel socialismo umano e garantista di cui in forme moderne sentiamo ancora il desiderio e il bisogno». Quella sua statua appena installata davanti al Palazzo dei Bruzi sta lì a ricordarcelo.

* Articolo pubblicato sul Quotidiano del Sud il 7 maggio 2022