di RAFFAELE SCHETTINO
Dicono che c’è sempre una correlazione tra la data di nascita e il nostro destino. Scorriamo il ‘49, anno di Matteo Cosenza, giornalista e scrittore: la Nato, Superga, il Sant’Uffizio e il divieto di assoluzione per comunisti e atei. Ecco, direttore, forse un indizio l’abbiamo trovato.
(Sorride). «E pensare che il mio prossimo libro s’intitola Padre Pio, il miracolo vero».
Cosa c’entra un ateo con il frate santo?
«Era il ’79, l’anniversario della morte. Fui inviato a San Giovanni Rotondo e m’interrogai sul taglio da dare al racconto della veglia. Non potevo leggerla da fedele e non potevo considerarla un fenomeno da baraccone. Restai sulla soglia e i pezzi funzionarono. Piacquero a mia madre e al direttore: diventai l’esperto di Padre Pio».
Allora, qual è il miracolo vero del frate?
«La potenza del suo messaggio sta nella sua stessa vita. Ha incontrato Cristo, ha sfidato la Chiesa, ha lasciato in eredità la fede che è una forza straordinaria da contrapporre alla sofferenza. Un dono immenso che però io non ho».
Fosse stato il ’49 avrebbe rischiato la scomunica.
«Non sono ateo per moda. Ho letto la Bibbia e il Corano. Dell’Islam m’è rimasto poco, della Bibbia invece tutte le gemme che contiene. L’Ecclesiaste, il Libro di Giobbe. Dio mette tutti alla prova e alla fine persino i lutti sono accettati come atto di fede. Ho riflettuto ma non ho cambiato il mio agnosticismo. Però ne è valsa la pena leggere quei testi».
Leggere vale sempre la pena, anche perché è un verbo in disuso.
«Già. Più che leggere ora preferiamo guardare o sentire. Che poi non sempre significa ascoltare».
Questo ha impoverito anche il giornalismo.
«L’informazione ci scivola addosso. Il cronista è superficiale e il lettore, che ha la percezione di sapere tutto, alla fine non s’interessa di niente. Prima le notizie arrivavano lente, si vivevano. Leggendo del Vietnam immaginavamo di costruire una scritta gigante sul castello che domina Fincantieri: “No war” oppure “Pace”. Pensavamo di incendiarla per farla leggere da Napoli. No, oggi non c’è più trasporto, tutto è piatto».
Piatto come lo schermo di uno smartphone.
«Esatto. Basta entrare in un ristorante per capire dove siamo finiti. Tra un piatto e l’altro solo il telefonino. Poche conversazioni, zero emozioni. Un disastro».
Si vive più nei social che nella vita reale.
«Il problema è l’uso che facciamo dell’innovazione. Anche l’energia nucleare aveva finalità benevole eppure ci costruirono le bombe sganciate sul Giappone. I social accorciano le distanze, restituiscono familiari e vecchi amici, ma diffondono anche odio, celebrano il qualunquismo, mettono a rischio la sicurezza dei bambini. Forse abbiamo perso la misura».
Oppure il popolo della rete non è maturo abbastanza per apprezzare i valori della democrazia e della libertà?
«Questo è un quesito perenne però la democrazia è sempre il modello migliore dello stare insieme, sebbene imperfetto. Certo, sarebbe meglio avere più rispetto, meno slogan e meno volgarità».
Ce l’ha coi politici?
«Ce l’ho con chi ha interesse a veicolare messaggi deviati e orientamenti politici o commerciali. Noi utenti dobbiamo essere più critici ma per esserlo dobbiamo leggere e approfondire per avere gli anticorpi giusti. Lo dico sempre ai giovani».
Per fortuna i ragazzi hanno più anticorpi degli adulti.
«Loro sono il futuro al quale aggrapparci. Hanno una marcia in più e sono pure più rispettosi dell’ambiente che noi invece abbiamo consumato avidamente».
A proposito di futuro e di giovani: che fine farà il giornalismo?
«Serve una svolta. Questo mestiere straordinario ha perso appeal. Il giornalismo da scrivania ha sostituito quello che consumava le suole, il dogma non è più la verifica delle notizie ma la velocità di pubblicazione. C’è troppa superficialità».
E c’è poca qualità.
«Il giornalismo d’inchiesta costa ma editori e direttori devono crederci, rispettando i contratti e recuperando l’autonomia di pensiero. Servono cronisti che sanno raccontare i particolari, che sanno leggere nelle pieghe delle storie. Il giornalismo scadente allontana i lettori e mina anche la democrazia e la libertà».
Nel suo libro «Casomai avessi dimenticato» ha dedicato un intero capitolo a Giancarlo Siani.
«È una storia tormentata da tante ombre. Sull’inchiesta è come se dopo 10 anni qualcuno avesse detto: “fermiamoci qui”. Sul resto dico che Siani non fu tutelato dal suo giornale. Ma da allora non è cambiato nulla: anche oggi i cronisti sono soli».
E la solitudine è una condanna.
«Soprattutto per i corrispondenti che vivono la realtà che raccontano».
Nel libro racconta anche di una società che non c’è più. Quella della Castellammare coi ragazzini in bermuda.
«Il declino è iniziato con la crisi della classe operaia che esercitava anche una funzione etica e sociale. Poi il terremoto e la guerra di camorra hanno generato sguaiatezza, invivibilità e crisi culturale».
Ma c’è la sfida di Stabia Capitale della Cultura.
«Grande iniziativa ma partecipare a una competizione prestigiosa non basta. Bisogna recuperare il centro antico, ricostruire la vivibilità, far tornare a pulsare i rioni-cuore della città. Qui servirebbe una visione grandiosa».
Intervista-recensione realizzata dal direttore Raffaele Schettino sul quotidiano Metropolis e pubblicata domenica 4 ottobre 2020