Quando sono stato invitato a presentare questo libro di Mimmo Gangemi, non lo avevo ancora letto. Ho dato la mia disponibilità per stima e amicizia verso l’autore e anche per ricambiare la sua partecipazione alla presentazione di un mio libro a Gioiosa Ionica. Confesso che un po’ mi pesava il dover affrontare un viaggio da Napoli. Poi ho iniziato a leggere “Un acre odore di aglio” (Editore Bompiani) e man mano che andavo avanti ho quasi dimenticato il mio impegno a venire qui. Poteva essere, questo voglio dire, una lettura per così dire professionale, come le tante che capita di fare, ma così non è stato. Perché di libri se ne scrivono e se ne pubblicano tanti, direi troppi, che durano spesso il tempo necessario per leggerli e di cui presto si perdono traccia e memoria. Questo libro no, questo è un libro – ed è facile profezia – che resterà. Mi auguro che resti anche nelle future edizioni l’immagine di copertina, una mirabile foto in cui la cara Adriana Sapone ha messo tutto il suo mestiere e anche la sua passione civile, è l’opera di una grande artista della fotografia: nel volto, nelle rughe, nei capelli, nelle orecchie, nella mano, c’è la storia della Calabria, c’è il senso del libro, e la scelta del grigio è perfetta perché la Calabria ha tanti colori ma, se si osserva in profondità, il grigio è quello che prevale, che la tiene sospesa, quasi in bilico.
So, e ho letto, che sono molteplici i richiami che si sono fatti a scrittori e opere che hanno un posto di riguardo nella letteratura. Un po’ mi ci sono ritrovato, un po’ no. Ho pensato subito anche io a “Cento anni di solitudine” di Marquez (cent’anni di aglitudine?), dove si narra l’epopea straordinaria di una famiglia, che diventa speculare a quella di un popolo, meridionale anch’esso per quanto di un altro continente, con una lingua fresca e scorrevole, articolata magistralmente e che segue i canoni classici della grande letteratura. Se dovessi pensare a qualche scrittore che, al di là degli esiti, si sia richiamato didascalicamente a questo modello penso soprattutto al lucano Raffaele Nigro, che con “I fuochi del Basento” vinse anche il Premio Campiello nel 1987. E ho pensato naturalmente alla roba, ai lupini, al verismo di Giovanni Verga, e all’altra roba, quella calabrese, vale a dire l’ulivo e l’olio di Gangemi, sacri e non sempre affidabili regolatori dell’esistenza dei protagonisti del suo romanzo.
Potrei anche dire che sull’opera aleggia la lezione sempre attuale del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: cambia tutto, poi non cambia nulla. E, volendo, non mancherebbero altri possibili riferimenti. Ne faccio ancora uno, che mi sembra più vicino a noi. Penso, infatti, a Saverio Strati, alla sua scrittura senza fronzoli e al suo guardare severo nell’animo dei suoi conterranei. Ma dopo averli fatti abbondantemente anche io, dico subito che qui siamo di fronte a un’opera originale, con una sua cifra non riconducibile a modelli per quanto di rango elevatissimo. Oso dire che una lettura comparata sarebbe sbagliata. Chi legge “Un acre odore di aglio” legge questo romanzo, legge un’opera che è il punto di maturità di Gangemi, colto in un periodo di fertile attività, ma anche la promessa di altri gioielli.
Partirei dalla scrittura. Gangemi ha scarnificato la lingua, lavorando di cesello, parola su parola, aggettivi quelli che servono, periodi asciutti come le vite dei protagonisti, verbi che inchiodano i concetti. Mi permetto di dire, considerata la sua professione, che la sua è stata anche un’opera di alta ingegneria, una costruzione in cui risaltano la purezza delle linee, la solidità delle strutture, i collegamenti tra i piani, il rapporto con il contesto. Il risultato è impressionante. Se davvero si volessero fare confronti, direi che in duecento pagine a corpo grande ha raccontato i cento anni di una famiglia come altri hanno fatto, altrettanto mirabilmente, in lunghezze più che triple.
La narrazione. Poteva scrivere molto di più, avrebbe potuto, per esempio, riempire gli intervalli con altre storie e vicende. Ma cosa sono quei vuoti? Piuttosto, ci sono vuoti nel romanzo? Me lo sono chiesto immaginando che cosa uno di noi, persona normale e non dall’esistenza leggendaria, che volesse raccontare la propria vita, potrebbe scrivere di così originale. Sebbene la normalità della vita non sia mai banalità poiché anche una giornata ordinaria, come Joyce ci ha insegnato, può diventare memorabile. Ma la scelta di Gangemi, immagino, è stata quella del ritmo, di un ritmo incalzante, fulminante, che desse un senso all’inizio e un senso alla fine, che fosse coerente con la storia, in qualche modo esso stesso ritmo la storia. Il ritmo dà la sensazione che questo romanzo sia a tratti una costruzione in versi. Sentite: «Lei non rispondeva, se non con un sorriso lieve e la mano a carezzarlo». Leggiamo: «Si diressero verso la montagna, carovana appresso ai due muli condotti da Turuzzo e dal figlio quindicenne. Percorsero una ripida mulattiera, costeggiando dirupi da cui distogliere gli occhi e puntando la dorsale, dove ciuffi di alberi si opponevano, ombre più scure, al cielo che già aveva liquefatto la notte e si colorava di violaceo». E ancora: «L’orto davanti alla macchina induceva tristezza, incupito com’era da un cielo grigio e chiuso su ogni lato, indeciso di pioggia. I rami degli alberi da frutto vestivano poche foglie ingiallite, restie a lasciarsi cadere. I rugosi tralci di vite somigliavano a serpi scure attorcigliate ai pali di sostegno. Il pino verdeggiava solitario e stendeva al suolo un’ombra tenue. Dalle colline gli spari dei cacciatori rintronavano cupi».
Ora, per quanto oggi la Calabria possa essere diversa da quella che Gangemi ci lascia nell’ultima pagina, sospesa nei “ragionamenti” di Peppe che non riconosce più i suoi luoghi di fatica e di vita devastati dall’alluvione, il suo romanzo è un affresco, duro e impietoso, dolente e amorevole, disperato e disperante, di una Calabria immobile nel suo essere eternamente piegata sotto il peso insopportabile di ricorrenti disgrazie. E’ anche la storia della fatica, della resistenza, della voglia di risalire la china, ma è altro a prevalere. Odore acre di disgrazia e di morte. I calabresi che Gangemi racconta, sono quelli da lui ben conosciuti, quelli della sua terra, del suo Aspromonte. Duri e determinati, perennemente vinti. C’è sempre un Generale che gli mette i piedi sul capo. E loro come reagiscono? Aggrappandosi a quello che hanno fino a farlo diventare fonte di vita, a trasformare un terreno irrecuperabile in un fertile campo, per poi perderlo per una fiumara che si incattivisce. Crescendo figli che si spera possano diventare quello che i loro padri mai hanno potuto essere e che poi guerre incomprensibili ti strappano come brandelli di carne dalla tua famiglia. Onorando le donne, madri e mogli, purché culture ancestrali e relativi pregiudizi siano rispettati, pena l’impossibilità di vivere al punto da insinuare il velenoso sospetto che sia meglio farsi da parte per sempre. Cercando giustizia laddove è possibile e non rendendosi conto che quella giustizia produce altra ingiustizia.
I calabresi vinti ma presenti, vivi ma impotenti. E lo sono anche i personaggi del romanzo benché essi, pur isolati e deboli, siano portatori di modernità di pensiero politico. Sullo sfondo c’è un’assenza pesante, il silenzio assordante dello Stato. Che si mostra solo quando, vestendosi di Patria, chiama gli uomini per immolarli nelle guerre. La descrizione è inappuntabile. La natura ciclicamente ostile e lo Stato lontano e distratto stringono un’alleanza perversa che punisce una terra separata dall’Italia dalla barriera fisica e simbolica del Pollino. Ma gli uomini dovrebbero sapere difendersi dalla prima, la natura, e costringere il secondo, lo Stato, a fare la sua parte. Ciò non accade – e questa mi sembra la Calabria che Gangemi ci consegna al di là delle sue intenzioni – perché questi uomini sono prigionieri di una società chiusa, dallo scarso dinamismo, senza ricambi di qualità, incardinata in un modello di famiglia che è al tempo stesso protettiva e asfissiante. La resa di Cola, che dopo aver voluto per una vita il diritto al voto non lo esercita quando finalmente è stato conquistato, è la rappresentazione delle speranze e delle aspirazioni che si perdono nell’aria come il fiato che precede la morte e che, al pari dell’aglio, pervade le pagine del romanzo. Di questo romanzo che non si dimentica, che è un pugno nello stomaco e la carezza di un figlio alla propria terra, sovente più matrigna che madre.
24 aprile 2015