Trentino di Denno, è un simbolo della Calabria. Non ha perso l’accento della sua terra e, a sentirlo parlare così pacatamente e con tanta dolcezza, non sembra possibile che dalla sua bocca siano potute uscire invettive durissime contro la mafia. Giancarlo Bregantini, 58 anni, è il vescovo di Locri-Gerace, dice cose importanti come le sa dire un pastore della chiesa che è passato per esperienze esemplari fin da anni ormai lontanissimi. Sentiamolo.
Don Luigi Ciotti non è un calabrese, eppure sta facendo tanto per la Calabria. E lei non è nato qui ma si dà da fare per questa terra. La Calabria è una terra di missione?
«Sono da trent’anni in Calabria. La mia grande fortuna è di esservi arrivato giovanissimo perché il mio superiore disse una frase importantissima: se uno dal Nord va a Sud da giovane si innesta con facilità, se ci va da vecchio fa molta fatica: noi eravamo in tre a finire gli studi, tutti e tre siamo andati al Sud, a Napoli, a Catania e io a Crotone. È stata un’intuizione felice».
E il Sud la ha accolta bene da subito?
«Mi ha aperto le porte con una frase che ho imparato in treno. Il viaggio era lungo, non avevamo portato quasi niente e la signora che aveva un bambino vicino tirò fuori le cose buone della Calabria (veniva da una visita medica a Bologna, come spesso accade anche oggi). Prima di dare il panino al suo ragazzino, quindi non quello che le era avanzato, preparò per me e il mio compagno di cammino questo dono e disse: favorite. È la parola chiave che mi ha aiutato e che ho risentito qui anche da vescovo».
Una volta lei ha scritto che per capire la Calabria si può partire dal libro biblico dei proverbi laddove si parla degli esseri più piccoli e più saggi come le formiche previdenti, i conigli selvatici capaci di nascondersi sulle rupi, delle cavallette che marciano insieme schierate e delle lucertole che penetrano nei palazzi dei re. Che cos’è la Calabria?
«Credo che nemmeno chi ci viva la conosca. Me la immagino così: un mare i cui movimenti superficiali non rivelano i movimenti sotterranei. È più facile cogliere i primi, molto difficile i secondi. Serve pazienza, umiltà e qualche volta la complessità. Mi aiutano molto i preti giovani che essendo locali e essendo giovani colgono certe dinamiche meglio di me. Però io da esterno capisco certi aspetti meglio di loro perché venendo da fuori e girando molto l’Italia ho la possibilità di fare confronti».
C’è chi ha detto che è più facile notare le foglie secche cadute ai piedi dell’albero piuttosto che i germogli nascenti sui rami apparentemente secchi. Ci crede?
«Tantissimo. Per esempio, certi magistrati – non faccio i nomi ma si può intuire – descrivono con puntigliosità i lati critici e negativi, però certi libri quando li hai letti ti tolgono il respiro e ti senti affondare in una logica sempre più negativa. Bisognerebbe che i libri tecnici di poliziotti e magistrati fossero accompagnati da una postfazione che dicesse anche che cosa deve derivare da una realtà così descritta».
Per dire che cosa?
«Una serie di messaggi: reagire al male; secondo: non fare più male di quello che ho, quindi guardare avanti con speranza; terzo: capire, proprio come dice il Vangelo, che se il fuoco è più intenso l’oro è più raffinato. Voglio dire che non devo far vedere alla gente solo il fuoco, che tra l’altro lo conosce meglio di me perché ne vive i drammi, ma devo cercare di far vedere che il fuoco nel crogiuolo produce l’oro».
Ci sono i mafiosi, ci sono le vittime di mafia, ma ci sono anche le gerbere gialle. Questo sta dicendo?
«Esatto. Per esempio, nel raccontare un omicidio un giornale deve fornire a chi legge anche strumenti di ricezione positiva o di reazione. Mi è piaciuto tanto il pezzo sull’omicidio di Bruzzano dove quella vedova non poteva raggiungere il figlio, quelle parole accorate che diceva, quella tenerezza struggente con cui guardava. Quel modo di raccontare ti faceva cogliere un lato densissimo, femminile e anche commovente. Ci sono modi e modi di descrivere le cose, i fenomeni, le situazioni».
Il lavoro è un tema costante delle sue riflessioni e della sua opera. Penso alla cooperativa di giovani che produce lamponi. Questa è la strada da seguire?
«No, è un segno. Come il bergamotto che è un segno per dire: se c’è crisi agrumicola, tentiamo di percorrere strade nuove che richiedono non investimenti immensi a livello finanziario ma un intervento qualitativo e intelligente. Il nostro slogan è trasformare la marginalità di questa terra, specie della Locride, in tipicità che è sempre capace di promozione, che diventa vera quando poi si innesta con tipicità di altre zone e diventa il gioco della reciprocità. Dunque, conoscere la marginalità, trasformarla in tipicità, intrecciarla nella reciprocità. Così Nord e Sud non si contendono primati, non si elidono, ma si intrecciano».
Non è un’impresa facile. Non le pare?
«Lo so bene. Guardi che trasformare la marginalità in tipicità è un lavoro immenso che richiede un diverso approccio nelle scuole, un modo diverso di insegnare la storia e la geografia, imparare le lingue, capire la propria cultura ma anche uscire e farsi vedere e stimare».
La tipicità richiama un altro tema: il recupero della tradizione.
«In realtà sono importanti anche le feste popolari, le feste religiose, anche la Tarantella di Polsi, i pellegrinaggi a piedi ai santuari, i profumi, i colori. Ma occorrono anche spiagge pulite, case finite, chiese belle, parroci inventivi e fantasiosi, frati capaci di far rivalutare gli eremi spariti non alla marina ma nelle zone interne».
Lei va spesso a trovare i calabresi all’estero che guardano la luna pensando che quella che vedono dall’Australia o dal Canada è la stessa che si vede dalla Calabria. Lì a modo loro conservano ancora le tradizioni…
«Al punto che ci insegnano qualcosa con le feste popolari. Le loro producono case di riposo, iniziative sociali bellissime, mentre da noi si sprecano soldi in fuochi di artificio e cantanti. Loro no, la zeppola la vendono per fare qualcosa di buono».
Una volta anche un crocifisso sull’Aspromonte poteva servire come luogo dove depositare il riscatto di un sequestro. Quanto è cambiato l’Aspromonte?
«Moltissimo. Penso al simbolo di Polsi. Un mondo diverso, la strada asfaltata, non è più il regno dei latitanti. Oggi si può occupare l’Aspromonte e non farlo occupare».
Un pastore della chiesa deve scendere e salire tante scale. Vale la pena?
«Ci sono giorni avari, giorni di solitudine, di attacchi pungenti anche da una certa stampa. Abbiamo avuto amarezze interne, ogni vescovo le ha, qualche incomprensione, fatiche, non condivisione. Ma ci sono anche giorni in cui magari dopo mesi di silenzio vedi che esplode un grido positivo. Il limite è l’inadeguatezza delle risposte rispetto ai bisogni».
La Calabria sembra un’opera incompiuta.
«È così. Fai tanto ma non basta mai».
Tanti colori: un mosaico o un puzzle?
«Un puzzle da costruire insieme».
Nel puzzle, però, c’è anche la cultura mafiosa. Sta cambiando qualcosa?
«C’è una consapevolezza crescente del male, quindi non lo si nega più, lo si accetta, lo si analizza. E ci sono segni di reazione, come i ragazzi di Locri, la giornata di Polistena. Noi vescovi stiamo preparando una lettera specifica sul tema della mafia. Dall’altra parte ci sono segni preoccupanti di una mafia che è meno violenta ma più suadente, più criptica. Servono due cose: un maggior controllo sugli appalti e una maggiore determinazione nella lotta all’usura. Per gli appalti ci vogliono precisi interventi, non basta il certificato antimafia. Per l’usura bisogna renderla perseguibile d’ufficio e non solo su denuncia diretta».
Come credente si chiede perché Dio non ferma la mano dell’assassino?
«Moltissimo. L’elenco delle vittime è enorme, enorme. Sarebbe interessante che dove c’è stato un omicidio di mafia, chiunque sia caduto, ci fosse una croce, un modo per non dimenticare».
Lei è un figlio del ’68. Prete operaio, la grande lezione di don Milani, la scelta di stare dalla parte dei poveri e con la gente. Rimpianti?
«Un pochino sì. Soprattutto la libertà con cui si discuteva allora non c’è oggi. Non c’è più la possibilità di dire “non sono d’accordo”. Oggi è molto facile l’ossequio non sincero o talvolta il tacere per paura. Indubbiamente il ’68 ci ha dato un’ebbrezza eccessiva, però anche liberante. Oggi c’è il rischio, ripeto, di un ossequio quasi ipocrita. Dove abbiamo maturato? Nel rispetto degli altri. Abbiamo imparato a non farci travolgere dai limiti oggettivi e la mitezza, cioè la pazienza perché le cose non si cambiano in pochi giorni. Rispetto alla novità del ’68 non cambiano gli obiettivi, cambia il ritmo del cambiamento, il passo si è fatto più lento, la salita più ardua, la meta è sempre quella: amare questa terra, questo mondo, servire i poveri. Gli ideali sono rimasti gli stessi, ma ci vuole molta pazienza, capire gli errori, perdonare, consolare, capire, farsi insegnare dai piccoli come diceva don Milani».
Cosa sogna per la Locride?
«Che la Locride, che è nata come giardino nelle mani di Dio sia un giardino per tutti, dia un lavoro a tutti, abbia case curate, non belle ma curate, che il bello della natura sia salvato, che non siano incendiati i boschi, i colori diventino veri e non oleografici, che ci sia una chiesa sempre più profetica e coraggiosa, che gli amministratori pongano i giochi del partito dopo l’interesse del bene comune, che i giovani siano qualificati e non vadano a scuola con un quadernino sotto il braccio mentre i bambini a sette anni portano uno zaino pesante, che non ci sia un diploma senza cultura ma cultura con diploma, che ci siano intrecci sempre più vivi tra Nord e Sud, che ci sia il perdono dove c’è la faida, che ci siano i valori della vita e della morte, che la domenica i centri commerciali chiudano perché sono il disastro più grande che rovina la famiglia, più dei Dico, che pure distruggono la famiglia ma tutto sommato riguardano poche persone».
Come sta il suo cuore?
«Con le pilloline che mi consiglia il medico sta bene».
Padre, immagini di avere davanti uno che non crede, per esempio chi le parla, cosa sente di dirgli?
«Il mio ’68 mi ha abituato ad avere un grande rispetto di due temi difficili da coniugare ma affascinanti: libertà e verità. Ciò che dico ai giovani è questo: cercate con libertà ma cercate sempre la verità. Ma mai una verità senza libertà che sarebbe il rogo, mai una libertà senza verità che sarebbe una banderuola. Occorre intrecciare costantemente nel cuore di tutti, del credente ma anche del non credente, la verità con la libertà. E la sintesi è Cristo che è libertà e verità insieme. Perché la verità vi farà liberi».