Non ama parlare del suo privato, tiene alla riservatezza come un magistrato di altri tempi anche se difende con forza le novità di una professione che si è profondamente rinnovata. E soprattutto, da procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, insiste nell’usare il noi al posto dell’io per sottolineare il valore del lavoro di gruppo. Finta modestia? Non si direbbe, perché Mario Spagnuolo, cosentino doc, pesa le parole e sa quanto male un loro abuso o uso scorretto possa provocare. Non è di quelli, dice fuori verbale, che arrivano in una perquisizione con le telecamere al seguito. Anzi si arrabbia fino ad infiammarsi con i giornalisti se raccontano in anticipo qualcosa, specie se questo può compromettere un’indagine o, peggio ancora, l’incolumità delle persone, ma sa anche bene che i giornalisti pubblicano quello che passano gli inquirenti. Per lui parlano le inchieste, tantissime negli ultimi due anni, che reggono solidamente al riscontro processuale.
Ci vogliono gli eroi per condurre la lotta alla delinquenza organizzata?
«Per combattere la mafia occorre un gruppo di persone che dialogano, vanno d’accordo tra di loro, si scambiano le informazioni, che non ci sia chi addossa su di sé tutte le responsabilità. Questo vale per la magistratura inquirente e vale per la polizia giudiziaria. Il compito di chi deve dirigere gli uffici giudiziari è soprattutto quello di favorire la crescita professionale dei giovani».
Lei non è poi così vecchio.
«Sono del 1954 e soprattutto sono entrato molto presto in magistratura, tra poco saranno trent’anni. Ritengo di essere un non più giovane magistrato già da parecchio tempo, lo vedo dalla stanchezza fisica che si sente molto di più rispetto al passato, dal lavoro notturno che una volta si faceva con grande piacere e adesso diventa un momento di sofferenza anche di tenuta fisica».
Perché decise di fare il magistrato?
«Sono entrato in magistratura che avevo ventiquattro anni ed ero in quel momento funzionario della Banca d’Italia. Però il mio obiettivo era fare il magistrato. C’è un personale tutto mio che è legato all’esperienza mia e della mia famiglia, di mio padre che è morto quando io avevo quattordici anni, un funzionario dello Stato scomparso nell’adempimento del suo dovere».
Dove lavorava?
«Dirigeva la ragioneria del comune di Cosenza. Fu vittima di un incidente stradale mentre andava ad una riunione di lavoro. Una morte traumatica. Di mio padre mi è rimasto molto forte il concetto di etica della responsabilità, del dovere, di qui l’idea di fare il magistrato. Poi ha influito anche la mia formazione culturale».
Sfiorò il Sessantotto.
«Ero molto giovane a quell’epoca, ho vissuto il periodo immediatamente successivo. C’era una forte carica ideale nella mia generazione. Al concorso di giovani funzionari di Banca d’Italia eravamo una ventina, lo vincemmo in otto, ebbene tutti e otto lasciammo la Banca d’Italia. In quel momento significava avere una retribuzione che era circa il triplo di quella di un magistrato».
Lei era il primo figlio?
«No, ho un fratello più grande e altri più piccoli».
L’assenza paterna vi caricò di una maggiore responsabilità?
«Certamente. Ma ho avuto una mamma di quelle meridionali, importanti».
Che non è una novità in questo nostro Sud.
«La società calabrese tradizionale è di tipo matriarcale nonostante le apparenze. Quello che adesso è la società calabrese Dio solo lo sa, ma la donna ha un ruolo assolutamente da protagonista. Nel mio ufficio ci sono moltissimi magistrati donne, in Procura distrettuale su sei sostituti tre sono donne».
In quale liceo ha studiato?
«Al Telesio. Sono stato allievo di Scalercio, del preside Gianlombardo. Un’esperienza meravigliosa, io sono orgoglioso del fatto che mio figlio sia studente del liceo Telesio».
L’università a Cosenza?
«No, alla statale di Pisa. A Cosenza nasceva da poco l’università. Dopo la laurea sono stato un po’ al ministero degli interni, poi la Banca d’Italia e infine la magistratura. La mia – e lo constato dai miei ex compagni di classe del liceo che vedo spesso – è una generazione che ha avuto il senso della responsabilità nei confronti di sé stessi e dello Stato».
Com’era Cosenza in quegli anni?
«Era una città, come lo è anche adesso, molto vivace. Giro, viaggio in tutta la Calabria e vedo che Cosenza è un discorso a parte. Adesso come all’epoca. C’era un grande fermento. Grandi scontri e però vitali come insegna la dialettica marxista».
In quegli anni ha fatto esperienze politiche?
«Il Sessantotto e il Settanta più che politici sono stati movimenti di tipo esistenziale, di crescita generazionale. Le mie idee me le sono coltivate da me, specie poi da quando sono magistrato. Intendiamoci, il magistrato fa politica, con i suoi provvedimenti, con le sentenze, con la testimonianza del suo lavoro, fuori da una logica di schieramenti».
Lei è di quelli che dicono che i magistrati parlano con i loro atti?
«Sì, però attenzione, quello della società attuale non è il magistrato dello stato liberale, bouche du roi, ma è un magistrato che è espressione della società dove vive e dove lavora non sotto una campana di vetro, determinando con i suoi provvedimenti in molti casi delle positività particolari. Non sta a me ricordare che alcuni diritti importanti, che noi oggi riteniamo come acquisiti (il diritto alla salute, il diritto all’ambiente, il diritto del lavoro) in Italia nascono per opera di alcuni magistrati che all’epoca venivano tacciati di sinistrismo, di estremismo e di altro».
Dove ha cominciato la sua attività?
«A Catanzaro, poi ho lavorato per nove-dieci anni al tribunale di Cosenza come giudice, e dopo sono passato alla procura di Cosenza come sostituto».
Quindi, ha avuto un’esperienza di magistrato giudicante.
«Ho avuto questa fortuna. Concordo pienamente con la riforma ultima Mastella che sostiene che l’uditore giudiziario debba fare un’esperienza collegiale. Ho lavorato in un collegio dove le responsabilità erano ripartite e dove ho avuto la possibilità di fare una crescita importante con magistrati di assoluto rilievo. Ho fatto sempre penale pur avendo una tradizione di studio civilistica. C’era un confronto fecondo con giovani e anziani, mi ricordo del foro, di Giuseppe Mazzotta, di Franco Sammarco, di quelli della mia generazione e di tanti altri, e c’erano i mostri sacri sia come magistrati sia come avvocati, personaggi quasi ottocenteschi nei cui confronti eravamo per la verità abbastanza critici».
Di quali anni parliamo?
«Della fine degli anni Settanta. Noi giovani non accettavamo l’idea del magistrato molto lontano dalle problematiche sociali. A Cosenza c’era la via dei magistrati, che passeggiavano insieme su via Alimena mentre noi invece andavamo ai convegni. Quando la Cgil organizzò quello sulle problematiche della criminalità a Cosenza noi andammo suscitando scandalo».
Dopo le sentenze ha dormito sempre tranquillo?
«Tuttora non dormo mai tranquillo perché il pericolo dell’errore accompagna sempre il magistrato. Il rischio che ci si innamori di una tesi e si forzi la realtà a favore di quella tesi è sempre presente. La prima volta che facevo parte di un collegio giudicante d’assise fu decisa la pena dell’ergastolo, che a Cosenza non si applicava da quarant’anni, però era un caso che non consentiva altro spiraglio dal punto di vista normativo: un’ipotesi di sequestro di persona a scopo di estorsione con omicidio della vittima, omicidio tra l’altro premeditato nel momento in cui si programmava il sequestro. Quindi, un fatto, una volta provata la responsabilità, con tutti i parametri normativi per applicare quella pena. Ebbene, io la notte prima non ho dormito. Quel giorno mi tremavano gambe, mani e tutto quanto, e come me, devo dire, anche l’anziano presidente visse la mia stessa angoscia. Il magistrato che ritiene di dover dormire il sonno dei giusti non è un buon magistrato».
Eppure ci sono suoi colleghi anche anziani che sostengono il contrario.
«Il dubbio e l’errore fanno parte del magistrato. E d’altro canto se noi non sbagliassimo non ci sarebbero tanti gradi di giurisdizione e di controllo».
Un magistrato deve decidere se una cosa è nera o bianca, le zone grigie possono rischiare di sparire. È d’accordo?
«Mi è capitato alcune volte che sentenze importanti sono state stravolte a distanza di decenni con revisione dei processi. Però, questo fa parte del sistema giudiziario. Noi privilegiamo la giustizia rispetto alla celerità, molto spesso un processo troppo celere si trasforma in un processo ingiusto. Purtroppo un processo troppo lento può anche essere ingiusto. Il discorso è molto complicato».
Quanto pesa la magistratura nella rappresentazione della società calabrese?
«In una democrazia compiuta, come è la nostra, il ruolo della magistratura dovrebbe essere marginale, nel senso che noi dovremmo essere esclusivamente lo strumento delle istituzioni attraverso il quale si tende a marginalizzare l’emergenza criminale».
Perché il potere mafioso è così forte?
«La società calabrese sta cambiando in modo estremamente veloce In vent’anni si sono probabilmente modificati gli assi portanti di questa società: la grande famiglia che qui nel Cosentino era uno strumento di controllo sociale alto, non esiste più. Il modo che ha la criminalità organizzata di interagire con la società è profondamente mutato. Il capitale accumulato con i sequestri di persona è stato investito nella droga. In una prima fase le enormi disponibilità finanziarie realizzate con la droga non hanno consentito al potere mafioso di legittimarsi nel suo rapporto con la società. Adesso vedo segnali di significato opposto».
Per esempio?
«Abbiamo segnalato come Procura distrettuale il fatto che è quasi esclusivamente calabrese la gestione del mercato illegale degli extracomunitari, che significa legittimarsi davanti a chi chiede manodopera che altrimenti non ha. Ancora: l’usura. L’ultima operazione di poco prima dell’estate, l’Omnia fatta dal collega Luberto, fa emergere che una delle zone più ricche della Calabria, quella di Corigliano, veniva dal punto di vista economico gestita dal potere mafioso. Che significa questo? Che se la mafia si sostituisce allo Stato e all’intermediazione creditizia, il potere mafioso viene legittimato».
Dove inizia e finisce il vostro rapporto con le altre istituzioni?
«Noi abbiamo un’ottima collaborazione con gli organi statali, con le prefetture».
E con le altre istituzioni locali, quelle non statali, come Regione, Province e Comuni?
«Noi, e uso il noi non come plurale maiestatis ma perché penso di rappresentare il pensiero di tanti colleghi che la pensano come me, di un gruppo che continuerà a lavorare nello stesso modo, mi auguro, nel momento in cui mi dovessi trasferire ad altro incarico… ecco, dicevo che noi abbiamo molto apprezzato la costituzione di parte civile degli enti locali nei processi di mafia. Che è un dato acquisito della giurisprudenza solo negli ultimi tempi. E abbiamo anche molto apprezzato la sensibilità istituzionale dell’organo giudicante perché c’è una sentenza del tribunale di Paola che ha statuito un risarcimento del danno concretizzandolo a favore dell’ente locale per effetto dell’azione negativa del gruppo mafioso. Una sentenza assolutamente rivoluzionaria rispetto alle assoluzioni per insufficienza di prove del passato».
Lei parla molto di gruppo, di squadra, che nella Procura di Catanzaro è sicuramente un fatto che colpisce se si pensa alle turbolenze che da tempo l’attraversano. Qualche mese fa, in uno dei momenti più duri dello scontro tra giustizia e politica, lei ha sottoscritto con altri magistrati un documento che difendeva il lavoro dei suoi colleghi. Insomma la sua Dda…
«Intanto la responsabilità della Dda è del procuratore della repubblica, io sono un aggiunto che ha avuto la possibilità di portare avanti le sue idee e ha avuto la fortuna di lavorare con colleghi validissimi, alcuni dei quali operano in condizioni estremamente difficili».
Ha più volte denunciato che manca pure la carta.
«Ma ormai di questo non parlo più perché è diventato un fatto scontato, ma lei pensi che in un circondario difficilissimo come Vibo Valentia noi abbiamo un solo sostituto, una collega bravissima che nell’arco di appena tre anni ha portato avanti qualcosa come dieci-dodici grandissime indagini nei confronti di quella che nel distretto è probabilmente la criminalità organizzata più pericolosa».
Perché a Vibo c’è la situazione più preoccupante?
«Forse in questo momento non c’è una zona tranquilla nel nostro distretto, e noi corriamo anche il rischio della sottovalutazione o, meglio, di essere l’ultima ruotina rispetto all’emergenza di Reggio Calabria dove vanno prima le risorse. La situazione di Vibo è oggettivamente grave. Quest’estate la collega ha operato dei fermi perché un gruppo mafioso si era impossessato delle case popolari prima che venissero assegnate secondo i criteri legalmente previsti, dopo di che si divertiva a piazzare ordigni esplosivi ai danni degli operatori commerciali. Ma è altrettanto grave la situazione del Crotonese, quella del Lametino e quella della provincia di Cosenza».
Che non è una provincia addormentata.
«Assolutamente no».
Anche anni fa a Cosenza si pose un problema del genere. Allora c’era un poliziotto come Nicola Calipari. Come lo ricorda?
«Ho lavorato con lui. Nicola era un poliziotto con la P maiuscola, un segugio. Vivemmo insieme il periodo della guerra di mafia cosentina, Nicola aveva creato una bellissima squadra di investigatori».
Che provò quando seppe della sua morte?
«Io non c’avevo creduto. Sono pezzi del proprio passato che spariscono».
A proposito di passato, lei di recente ha fatto riaprire tanti casi di quella fase difficile di Cosenza, a cominciare dall’uccisione di Cosmai, direttore del carcere. Quanto c’è di sentimento personale in questo lavoro?
«Intanto quel lavoro non l’ho fatto io o soltanto io, cominciamo dal collega Tocci, il giovanissimo sostituto che ha istruito il processo, per proseguire fino a me. Era una delle cose che dovevamo fare. L’omicidio non si può depenalizzare. L’omicidio di un servitore dello Stato è una ferita doppiamente aperta. Lo abbiamo fatto, insieme alla dottoressa Sforza, al procuratore Lombardi, al dottor Luberto, ma faremo anche altro, non ci fermiamo a questo».
Che ha provato nei confronti dei familiari delle vittime?
«Penso che fin quando c’è un processo il magistrato non debba avere alcun tipo di rapporto con i protagonisti se non di tipo processuale. Quando alla fine il processo si concluderà, potrà uscire il personale, perché è vero che è giusto far luce su certi fatti ma bisogna anche pensare che dall’altra parte c’è una persona che ha un’aspettativa di innocenza e di libertà e, quindi, bisogna garantire il giusto processo ad entrambi, all’imputato e, soprattutto, alla parte offesa. Bisogna essere asettici, poi ognuno nel suo intimo ha una serie di sensazioni e di impressioni».
Lei non si innamora mai di una tesi?
«Ci provo. Penso a Umberto Eco a proposito di prendere un’ipotesi, andarla a verificare sui dati e poi avere la consapevolezza che va abbandonata quando la realtà la rifiuta».
Lei è un giocatore di tennis?
«Quando posso».
Da teorico del gioco di squadra, preferirà il doppio al singolo?
«Assolutamente. Anche perché le mie forze fisiche non mi consentono di reggere un singolo. Ho la partita a tennis con dei vecchi amici, e la parte sportiva cede sempre di più a quella parlata, ludica, della chiacchiera e dello sfottò».
La musica?
«Mi piace lavorare sentendo musica classica».
In particolare?
«Mozart e Bach».
Beethoven?
«No, è un romantico. Ci sono delle cose di Bach in cui l’uomo si è veramente avvicinato a Dio. E Mozart, la “Messa da requiem” è qualcosa di favoloso».
Letture?
«Purtroppo sempre di meno. Ho letto un po’ di tutto, la mia generazione è di quelle che leggevano, i ragazzi di oggi poco. Ho cominciato a sedici anni con i grandi romanzieri russi, Dostoevskij, Tolstoi, per arrivare poi a Kafka».
Dostoevskij fa pensare a “Memorie del sottosuolo”.
«È il suo libro che preferisco, ma quando leggevo Dostoevskij non pensavo di fare il magistrato».
Kafka, “Il processo”, siamo in tema.
«È il problema del rapporto dell’uomo con la società moderna, un giudice dovrebbe leggerlo centinaia di volte perché lì c’è il rapporto tra l’uomo e il potere e da lì esce fuori che alla fine il ruolo del giudice come mediatore si presta a tante di quelle interpretazioni. La storia della magistratura italiana non è una storia di grande indipendenza, lo è diventata nell’ultimo periodo. La magistratura italiana era espressione di un gruppo monolitico che aveva il controllo della società. Pensi che fino quasi alla fine della seconda guerra mondiale una persona di modeste origini non poteva fare il magistrato».
Suo figlio seguirà le sue orme?
«Spero non faccia il magistrato, Come tutti quelli che non vogliono che i propri figli facciano la stessa attività, probabilmente atterriti dalle difficoltà del proprio lavoro».
Che cos’è un uomo giusto?
«Non riesco a rispondere a questa domanda. Tenga presente che io sono anche cattolico, profondamente cattolico».
Cattolico progressista?
«Estremamente progressista».
C’è, quindi, anche il tema del perdono?
«E quello della giustizia perché Cristo caccia i mercanti dal tempio».
Perché la società calabrese è così periferica e marginale se non per i messaggi negativi?
«Ho passato i primissimi anni dell’infanzia nella casa dei miei nonni materni, in un paesino della Presila. Era la vecchia casa ottocentesca, con una grande cucina, la stanza da letto con la botola che dava sulla cantina, e sopra c’era la soffitta, che non aveva le finestre ma le feritoie perché là ci nascondevano i briganti. Noi abbiamo questa tradizione, che non è da buttare, e naturalmente non mi riferisco ai briganti. Veniamo da un tipo di cultura complessa che si è rapportata con lo Stato in un certo modo con momenti di grande sofferenza, e da una grande povertà. E quando la società moderna con la globalizzazzione doveva consentirci di fare il salto qualitativo, probabilmente gli unici che hanno capito la globalizzazione sono stati gli uomini della ‘ndrangheta. E adesso la gente ha compreso che la ‘ndrangheta non è soltanto un problema calabrese, anzi a questo punto, paradossalmente, possiamo dire che lo è in minima parte».
Ma che si deve fare? Lei è ottimista?
«Nel breve periodo non sono ottimista perché i segnali non sono particolarmente positivi. Lei pensi che ora per effetto della riforma Mastella, effetto non voluto dal legislatore, con il principio della rotazione degli incarichi direttivi avverrà che molte procure distrettuali si svuoteranno. Soffriremo ancora molto, però ho l’ottimismo marxista della storia che alla fine porta il progresso. È innaturale che una banda di criminali riesca a controllare la vita di milioni di persone».
C’è da sperare nelle nuove generazioni di calabresi?
«Intanto sono più mature, più presenti sui problemi e meno formaliste. Bisognerà vedere quante intelligenze riusciremo a trattenere in Calabria».
In realtà per ora molti vanno via.
«Manca la capacità di valorizzare le risorse. Ci sono realtà anche meridionali che si sono evolute positivamente, pensiamo alla Basilicata. Dipende dalla capacità di innescare un processo virtuoso, ma questo dovranno farlo altri, sicuramente non i magistrati».
I partiti, la politica?
«La gente, perché questi sono processi che partono dal basso. In una società democratica, la dialettica e lo scontro devono essere vissuti da tutta la popolazione. Ho creduto in queste cose. Io cerco di dare il mio contributo».
In questo modo il magistrato fa politica?
«La società perfetta è quella in cui si parla sempre di meno di magistrati».
Dovrebbero ricordarlo anche molti suoi colleghi?
«Certamente, ma mi trovo in difficoltà perché in questo momento le sto rilasciando quest’intervista. Mi si potrebbe dire: perché stai parlando se hai questa concezione?».
Una cosa di cui si è pentito nel suo lavoro.
«Più di una volta. Come giudicante di meno perché alla fine c’è il filtro delle carte: ho fatto il giudice con il vecchio codice. Come pubblico ministero, mi sono chiesto: se avessi fatto questo, se altri avessero fatto quest’altro, se…se… se… è un continuo dire se».
La soddisfazione più grande?
«I colleghi che si trasferiscono – la procura di Catanzaro, ahimè, è un porto di mare – e che a distanza di anni ti chiamano e ti salutano. È la cosa più bella».