Se non ci fosse stato Il Covid 19 l’Italia probabilmente avrebbe pianto lutti di numero incalcolabile per una strage assurda quasi come quella del ponte di Genova. È vero, con le ipotesi non si va da nessuna parte, ma i fatti sono chiari. Il tetto della sala Calipari, l’auditorium del palazzo della Regione di Reggio Calabria, è crollato di venerdì, vale a dire in un giorno che normalmente poteva contenere centinaia di persone: potevano esserci anche gli studenti che in tempi normali visitano con assiduità la struttura. La sala ha seicento posti a sedere, in un incontro abbastanza recente ha ospitato più di mille persone. Se, ci risiamo, non ci fosse stata l’emergenza che ha bloccato tante attività e reso deserto quell’immenso e simbolico spazio…
Abbandoniamo questo scenario ipotetico non prima di un’osservazione a suo modo significativa: senza morti quel crollo è diventato una pseudo notizia, se poi esso è avvenuto in una regione ritenuta residuale come la Calabria la notizia non esiste. Un motivo per riflettere sulla percezione che si ha di questa regione, sulla sua marginalità e sullo stato di assuefazione dei suoi abitanti a permanere in questa condizione di ultimi della classe.
In realtà quel crollo è davvero esemplare, una metafora della Calabria come il ponte Morandi lo è stato per l’Italia, ma qui, in questo lembo estremo del paese, si misura la distanza tra le due Italie, il Sud e il Nord, e quella tra il Sud e un Sud che è ancora più Sud. Tutto questo avviene nel palazzo per antonomasia della massima istituzione e, guardate un po’, nei giorni in cui si celebra il cinquantesimo anniversario della Rivolta di Reggio. La storia, perché di questo si tratta, sembra divertirsi con le date e lo fa mentre si svolgono incontri che ancora dividono e si prestano a letture opposte quasi che il tempo non aiuti a diradare le ombre, a ammorbidire le polemiche e far risaltare i dati essenziali di una analisi più aderente alla verità. Ancora si discute se quella tragica vicenda sia stata una rivolta popolare, ancora si nega la strumentalizzazione politica che ad essa impresse un segno netto di destra, ancora si tenta di minimizzare il ruolo eversivo dei Servizi e del mondo oscuro che ruotava attorno ad essi e la strategia della tensione che funestò la vita italiana, ancora i sindacati devono rivendicare le ragioni che li portarono a andare controcorrente e a sfidare bombe e attentati per rivendicare il diritto all’agibilità democratica, e si potrebbe continuare a lungo. E però il tempo non può cancellare l’immagine delle barricate, dei mesi di guerriglia, di un corto circuito generalizzato della città dello Stretto e, soprattutto, quei carri armati che dopo sette mesi chiusero la partita militare come un Libano qualsiasi.
Cinquant’anni dopo è tempo di bilanci. Ed il primo bilancio è quello dei risultati. Probabilmente di quel Pacchetto Colombo, un compromesso che fornì una via d’uscita allo scontro, è rimasta soltanto l’istituzione dell’Università della Calabria sulla collina di Arcavacata in una delle Calabrie, la cosentina. Su quanto accadde nella piana di Gioia Tauro è meglio stendere un velo pietoso, del quinto centro siderurgico e dei trentamila posti annunciati non è rimasto nulla, salvo il porto, la distruzione di aree sterminate coltivate a aranceti e gli affari della ‘ndrangheta. Ma il prodotto più indigesto è stato quello che scaturì dall’origine della rivolta che fu, come è noto, la rivendicazione del capoluogo rispetto alla decisione di volerlo a Catanzaro. Si spacchettò l’architettura naturale della nuova istituzione in cui tante attese erano riposte: a Reggio il Consiglio regionale, a Catanzaro la Giunta regionale. Se c’era un modo per tarpare le ali alla nascente istituzione quello era ed è stato il più perfido e irreparabile.
Come poteva funzionare bene una Regione che teneva a distanza di 180 chilometri le due gambe su cui doveva essere costruita? Due grandi palazzi, modernissimi, uno nella parte alta di Reggio e l’altro a Germaneto, periferia desolata di Catanzaro, immagine materiale di cemento e cristalli, di separazione, di divisione, di lontananza. E non è neanche necessario ricordare che per decenni quella calabrese è stata la Regione in crisi quasi permanente tant’è che facevano più notizia i periodi di breve e apparente stabilità. La rivolta non poteva non avere risposte, la lacerazione era stata troppo vasta, profonda e lunga per poterla archiviare solo con i carri armati. Al punto in cui le cose erano arrivate probabilmente era difficile trovare altre strategie, ma indubbiamente all’ennesima rivolta meridionale, questa volta con connotazione divenuta rapidamente eversiva a differenza delle rivolte contadine del passato anche esse risolte con sangue e violenza, lo Stato, in un’accezione molto larga, mise una pezza che, ripeto a parte il frutto validissimo dell’ateneo, ha alimentato sul nascere il fallimento dell’istituzione che avrebbe dovuto ridurre le distanze dall’altro Sud e dal Nord.
Quel tetto che crolla sembra il suggello di questi cinquant’anni di speranze deluse, di dialettica politica fatta di un consociativismo alternato, di mancata programmazione, di spreco e di distruzione di risorse, di improbabile governo del territorio, di una burocrazia spesso famelica e di altre ancora più gravi pecche. Sarà, ripeto anche io il solito ritornello, l’inchiesta della magistratura ad accertare i motivi del crollo di quella suggestiva copertura del luogo più alto della democrazia in Calabria, ma, avrebbe ricordato Pasolini ai calabresi, che pure aveva in grande simpatia, sarebbe troppo comodo fare come gli struzzi e nascondere la verità sotto la sabbia. Per ora essa riposa sotto le macerie di quel tetto.
Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 25 agosto 2020