A quei tempi le industrie erano considerate il toccasana per una regione dolente e arretrata. Qualcosa è rimasto in alcune aree, qualche ciminiera, capannoni abbandonati, di fabbriche in attività poco o niente, e le nuove industrie spesso non sono altro che involucri vuoti che sono serviti a strappare lauti finanziamenti pubblici. Di agricoltura si è parlato sempre poco, e chi lo faceva veniva zittito con l’argomento che non c’era molto da ricavare da una lunga sequenza di montagne che finiscono nel mare. Giuseppe Nola la pensava diversamente, anzi ad un certo punto, muovendosi nella scia dell’azienda paterna e dell’attività del fratello maggiore, ha pensato che meglio delle parole servissero i fatti. Attraversare oggi la Piana di Sibari è uno spettacolo che fa bene al cuore: agrumeti, frutteti, oliveti a perdita di vista, ordinati, curati in ogni angolo, neanche un centimetro quadrato di terra risparmiata, e dove serve, anche lungo i primi pendii delle montagne. Gli incendi non toccano le terre coltivate perché la prima difesa è la cura del territorio. Migliaia di famiglie vivono di questo lavoro, la loro Fiat si chiama clementina, pesca, uva, albicocca. E questo sarebbe già tanto, ma un particolare fa pensare di essere in Emilia Romagna perché in una terra dominata dall’individualismo come la Calabria c’è un esempio di cooperazione, ed il bello è che funziona magnificamente.

Come avviene questo miracolo, signor… clementina?

«Buona questa! Dunque, a metà degli anni Sessanta un gruppo di imprenditori operava nella Piana di Sibari, c’erano solamente delle colture estensive, grano e altro, di pregiato nulla. Prima della guerra c’era stata la bonifica, perché Sibari era acquitrinosa: ne aveva beneficiato anche mio padre Camillo. Di fatto, anche se c’erano imprenditori, come le aziende Toscano, che esportavano le lattughe in Svizzera, le attività erano limitate, ad un certo punto quasi ferme, fino a quando non sono subentrati quelli della mia generazione, i figli di quegli imprenditori».

Nel 1964 lei aveva vent’anni.

«Mio fratello che era più grande di me di dodici anni, aveva uno studio tecnico. Studiavamo tutti e due in Toscana».

Dove?

«A Viareggio il liceo in un collegio per figli di italiani all’estero dove c’erano anche molti figli di ambasciatori. La struttura infatti dipendeva dal ministero degli esteri».

Come mai suo padre scelse questo collegio?

«Perché avevamo uno zio che insegnava a Pisa Infatti mio fratello ha fatto l’università a Pisa, mentre io l’ho fatta a Roma».

Lei si è laureato in che cosa?

«In economia, mio fratello in agraria. Siamo partiti con questa azienda da giovanissimi anche perché nel frattempo papà era morto in un incidente stradale. Mio fratello incominciò ad interessarsi dell’azienda e un po’ tralasciò lo studio tecnico che aveva avviato a Cosenza. All’inizio frequentò lo studio di agronomi di Cecchino Principe, poi si mise per conto suo. Io mi laureai a Roma, nel ’68, l’anno delle prime rivoluzioni. E devo dire che ho fatto anche un po’ di politica universitaria».

Ricorda gli scontri all’università di Valle Giulia che diedero il via a quel movimento?

«Certamente. Ero a Fontanella Borghese, proprio al centro di Roma. L’esperienza universitaria è stata importante anche per i professori».

Ne ricordi qualcuno?

«Si, Fanfani, Caffè…».

Ha fatto un esame con Amintore Fanfani?

«Quello in storia economica. Era puntualissimo nonostante avesse impegni a non finire. Purtroppo faceva le lezioni e gli esami alle sette e mezza di mattina. Era molto sensibile ai calabresi perché credo che aveva la mamma o un altro parente in Calabria. In particolare quando c’era qualche calabrese o meridionale a cui dava trenta e lode, che era molto difficile, addirittura se lo abbracciava».

Che voto le diede?

«Non so se ho preso ventisette. Era molto duro. Poi la sua storia economica era un volumaccio di cui voleva approfondire i particolari, per esempio chiedeva delle monete e se sfuggiva qualcosa erano guai».

Federico Caffè?

«Era molto affascinante, un professore difficile. Innanzitutto faceva vita universitaria. Pensi che all’università di Roma c’erano molti docenti impelagati in politica o in attività pubbliche, pochissimi erano i veri professori, e tra questi c’era Caffè. Era veramente un mito, tra l’altro molto vicino ai giovani mentre gli altri erano cattedratici un po’ all’antica. L’esame con lui era più che nozionistico, lui ti faceva ragionare, un altro poco ti diceva il fatterello e voleva sapere perché avveniva questo e perché avveniva quest’altro».

Il voto?

«Ventisei o ventisette. La mia media».

Quando più tardi ha saputo che era scomparso – e finora nessuno sa che fine abbia fatto – che cosa pensò?

«È difficile farsi un’idea. Viveva solo, purtroppo la mente umana è imprevedibile. È un mistero. Ci sono allievi come Draghi, il governatore della Banca d’Italia, un suo pupillo, che non riescono a dare una spiegazione».

Un’esperienza universitaria, quindi, più che stimolante?

«Assolutamente. Avevo anche come professore Giuseppe Petrilli, presidente dell’Iri, con cui ho fatto la tesina in tecnica delle assicurazioni. A me è servita molto per entrare nel mondo del centro studi dell’Iri, dove avevo un amico. Mi disse che per entrare era importantissimo girare nei centri operativi dell’Iri. In quel periodo era appena aperto il centro Italsider di Taranto, nuovissimo, una delle più grosse acciaierie d’Europa, con uno dei primi calcolatori, sicuramente il più grande d’Europa. Anche quella fu un’esperienza molto interessante. Ad un annetto dalla laurea, dopo una esperienza nello studio di un commercialista a Brescia e sei mesi a Roma, sono passato all’Italsider rimanendoci un anno e mezzo».

Alla sua azienda non pensava affatto?

«Stando a Taranto speravo di guardare anche alla mia azienda, che si trova verso Sibari. Speravo di andare a dare una mano a mio fratello il sabato e la domenica, in effetti mi ero così inserito nel lavoro dell’Italsider che il sabato e la domenica andavo spesso a lavorare con il direttore. Mio fratello ad un certo punto mi ha detto: ti devi decidere se rimanere all’Italsider – e allora io non conto proprio su di te – o venire qua».

E lei passò dall’acciaio all’agricoltura. Con quali propositi?

«Nostro padre ci aveva lasciato una bella azienda anche in termini di superficie, ora è sette volte più grande. In realtà pensammo subito di allargarci. Qui a Cosenza, per esempio, c’era la Centrale del Latte che andava molto male. Mio fratello se ne interessò perché la nostra azienda era anche zootecnica. Non ci interessava il prodotto di nicchia, abbiamo sempre cercato di vendere quello che producevamo e di allargarci con altri produttori. Ci siamo detti: per quanto possiamo diventare grossi saremo sempre piccolissimi nei confronti della controparte che stava nascendo, che era la grande distribuzione. Non solo. In frutticoltura – allora si faceva in Emilia Romagna in dimensioni notevoli – noi abbiamo subito puntato al mercato estero». 

Una sfida ardita? 

«In Europa si stava formando la grande distribuzione, che in Italia è arrivata con un ritardo di vent’anni. Vendevamo un po’ in Francia, molto in Germania, un po’ in Inghilterra, conoscevamo mercati e situazioni. In Germania, quando abbiamo incominciato, la società a cui vendevamo i prodotti aveva sedicimila miliardi di vecchie lire di fatturato, oggi forse le Coop hanno raggiunto questo traguardo mentre in Germania si parla di centocinquantamila miliardi di fatturato di vecchie lire. Quattro-cinque grosse catene rappresentano l’ottanta per cento del mercato tedesco». 

Avete rapporti con queste catene?

«Due o tre le stiamo rifornendo da vent’anni, diciamo da sempre, da quando siamo nati. E abbiamo maturato una mentalità un po’ tedesca perché loro sono precisi, cioè non sono pignoli ma gli standard che impongono vanno rispettati, altrimenti fanno una croce sopra il fornitore. È successo così che loro diventavano sempre più grossi e ti chiedevano di fare altrettanto. Da qui è nata l’esigenza di allargarci».

… e della cooperazione?

«Si, perché ci siamo resi conto che da soli non ce l’avremmo fatta. Questo è stato il discorso vincente. Ci siamo messi insieme stabilendo delle condizioni rigide: il socio non può lasciare la cooperativa quando vuole, se lo fa deve pagare il danno a quelli che rimangono».

Perché questa rigidità?

«Non poteva essere diversamente con l’individualismo che c’era nel mondo agricolo e più in generale nella nostra terra».

Gli altri produttori hanno creduto subito all’idea di cooperare?

«Qui sono tutti san Tommaso, se non toccano con mano non ci credono. Quindi, anche tutti i nostri vicini, vedendo la nuova frutticoltura in espansione, hanno sentito la necessità di entrare nella cooperativa perché non sapevano come emularci. La cooperativa gli dava assistenza tecnica, il capocoltivatore, il know how. Questo ci ha legato molto, e ancora oggi è così perché molti nostri agricoltori non è che conoscono bene i processi tecnici. Tenga presente che il nostro sistema tecnico è molto rigido».

In che senso?

«Forse abbiamo la cooperativa più controllata in Italia. Tutto passa attraverso un sistema informatico. Ogni trattamento è comunicato, abbiamo nel computer centralizzato la storia di tutto. Le conseguenze sono state importanti sia in termini di qualità sia occupazionali».

Quanti dipendenti?

«Solo in quella frutticola ci saranno almeno tremilacinquecento persone impegnate tra le aziende e lo stabilimento di lavorazione della frutta, praticamente tutto l’anno perché dopo l’iniziale impegno nella frutta ci siamo estesi agli agrumi. D’estate da noi partono diciassette bilici per l’estero, quasi quattro milioni di tedeschi mangiano una pesca nostra ogni giorno per quattro-cinque mesi all’anno. Forse la nostra è la più grossa società da Napoli in giù».

Con gli agrumeti la Piana di Sibari ha cambiato fisionomia. È stato difficile?

«Molto. I proprietari si sentivano sicuri delle loro conoscenze, erano convinti di saper fare, il che non era vero perché da quando è incominciata l’assistenza tecnica il prodotto è cambiato da un anno all’altro. Alcuni produttori, quando hanno visto i risultati sia in termini di quantità sia di qualità, sono rimasti strabiliati. Purtroppo i nostri agricoltori ritengono di essere padroni della loro materia. Pensi all’ulivo, con questa mentalità non riusciamo a sfondare nei mercati perché siamo molto indietro».

Un cambio di mentalità che però può essere favorito dai risultati di una cooperativa come la vostra.

«Sicuramente. In effetti credo che il nostro sia un esempio unico di agricoltura in Calabria. I nostri dipendenti hanno una stabilità tale da poter accendere mutui sulla casa».

Voi, intendo la famiglia Nola, quanto contate nella cooperativa?

«Il venti per cento, gli altri l’ottanta per cento. Copriamo una superficie di 3200 ettari (agrumeti e frutteti vincolati alla cooperativa). Siamo stati pionieri. Purtroppo siamo rimasti un’isola felice perché il contesto è quello che si vede. Speravamo che il nostro esempio venisse seguito a Corigliano, che si creassero altre cooperative. Pensavamo che qui potesse avvenire quello che è accaduto in Emilia Romagna, che ci si mettesse insieme per creare un consorzio con finalità precise, dalla commercializzazione al know how». 

Avete tentato di convincere altri?

«Nel 1986 abbiamo proposto il piano Damon, una sorta di piano territoriale da presentare alla Regione che prevedesse un paniere di prodotti. Dopo le pesche, le nettarine, le albicocche, pensavamo che si potesse sviluppare anche l’industria della frutta, in particolare quella sciroppata, come hanno fatto in greci che oggi sono i primi in questo campo. Ma erano anni in cui non si credeva all’agricoltura».

A quell’epoca era più facile parlare di industria.

«Esattamente. Mancini ma anche tutti gli altri lo facevano. Si sosteneva che l’agricoltura era roba vecchia, ormai superata. Io invece ricordavo che all’università ci insegnavano che se non c’è un’agricoltura sviluppata è difficile passare all’industria da un giorno all’altro».

Dalla politica non avete avuto alcun aiuto?
«Più volte inutilmente abbiamo chiesto alla Regione incentivi alla concentrazione, un modo che non avrebbe imposto agli agricoltori di mettersi insieme ma che sicuramente li avrebbe tentati. Davano lo stesso contributo a tutti senza alcun obiettivo. A un funzionario regionale consigliai, all’epoca dell’introduzione del clementino, ora in crisi per sovrapproduzione, di condizionare i contributi alla produzione solo se fosse stata garantita la commercializzazione».

Col vostro modello di cooperativa rappresentate un’anomalia non solo per il Sud. In una regione come la Calabria dove tutto sembra dipendere dalla politica, come ve la cavate?

«Anche noi dipendiamo perché in agricoltura ci sono a livello europeo degli aiuti che oggi passano attraverso le Regioni. Molto spesso saltiamo il livello regionale perché su tutti i fondi comunitari il ministero si riserva un dieci per cento per grandi iniziative. Infatti abbiamo costituito una società che coinvolge altre regioni per poter accedere ai fondi ministeriali che sono interregionali. Questo ci consente anche di arricchire il nostro paniere: stanno con noi, per esempio, i commercianti delle migliori uve delle Puglie, dell’agrume rosso di Sicilia, delle ciliegie del Barese».

Come nacque l’idea di puntare sulle clementine?

«Il clementino è un ottimo prodotto, senza semi e adatto al consumatore di oggi che non vuole “lavorare”. Il nostro di Corigliano è buonissimo dal punto di vista organolettico. Siamo stati i primi, e forse siamo ancora gli unici, a esportarlo in Germania perché gli altri commercializzano sul mercato nazionale. All’estero imperversa la Spagna che ha fatto un ottimo lavoro di marketing, ma gli spagnoli rimangono imbarazzati quando assaggiano il nostro clementino».

Questa qualità dipende dalle tecniche produttive?

«No, dal padreterno. Pensi, se va in Sicilia non riesce a fare il clementino senza semi».

Il frutto senza semi è anche il risultato di una ricerca?

«Certamente, un lavoro effettuato in un centro a Acireale. Noi abbiamo anche l’uva senza semi, un brevetto americano che per primi abbiamo preso».

Non vorrete fare anche i fichidindia senza semi?

«Qualcosa è stato fatto, almeno per diminuirli».

E snaturarli. A che doveva servire il distretto di qualità?

«Due-tre anni fa abbiamo raccolto ottomila firme per far deliberare a ventotto comuni, da Corigliano a Rossano, da Castrovillari a Firmo, la richiesta di una legge regionale sui distretti di qualità. La nostra proposta prevedeva una società privatistica di gestione e un comitato pubblico di indirizzo. La Regione avrebbe fatto un figurone in Comunità Europea. Il ministro De Castro aveva apprezzato il nostro lavoro. Però, la politica quando vede aggregazioni o ci mette le mani o è difficile che te ne dia una».

Lei è stato sottosegretario al porto di Gioia Tauro nel primo governo Loiero. Un fallimento?

«Ottimi rapporti con gli altri e con il presidente, ma i tempi e le possibilità di decisione erano lontanissimi dalla mia mentalità. Con Mimmo Cersosimo, che aveva scritto il programma e che non entrò in giunta, avevamo sperato di portare qualche segno di cambiamento».

Perché non le diedero l’agricoltura?

«Fui io a dire che non me la sentivo temendo che si potesse parlare anche per me come per Berlusconi di conflitto di interessi. Il discorso di Gioia Tauro era ed è importantissimo, è ancora la carta che possiamo giocarci in Calabria».

Ma la vostra cooperativa non utilizza Gioia Tauro.

«Ci serviamo di più del porto di Salerno perché funziona molto bene ed è più vicino a noi. Tornando a Gioia Tauro, col rigassificatore potevano crearsi le condizioni per realizzare la piastra del freddo che avrebbe potuto sviluppare i rapporti con paesi come Algeria, Tunisia, Marocco. In tal modo il flusso dei prodotti da quei paesi sarebbe passato per Gioia Tauro grazie alla possibilità di avere il freddo gratis, e si sarebbe potuto associare a quello dei nostri prodotti».

Discorsi abbandonati?

«Dopo quell’esperienza ho fatto dei viaggetti in quei paesi. Oggi abbiamo in itinere un progetto che riguarda la Tunisia dove potremmo applicare lo stesso sistema dell’Osas, la nostra cooperativa. Ci chiedono assistenza e know how. Con le società miste la Calabria potrebbe svolgere un ruolo da protagonista».

Per la Regione questo è parlare arabo?

«Sì. Ed invece bisognerebbe volare in alto. Pensi al mercato cinese: il consumo di latte pro capite è passato in cinque anni da nove a diciotto litri, e in Europa, dove la Comunità Europea addirittura ci avevano detto di non produrre più latte, il prezzo sta crescendo vertiginosamente perché la Cina ne fa incetta. A una delegazione cinese ho detto che entro dicembre gli mando cento container di latte, non so se ci riusciremo. Con il rettore dell’Unical, Latorre, mi sono incontrato per discutere dei rapporti con gli studenti cinesi».

Lei è di Cassano e vive a Rende?

«Sì, da sempre. Mia moglie è di Castrovillari».

Quindi, è stato “amministrato” del sindaco Cecchino Principe.

«Lo stimo tantissimo. Era molto amico anche di mio padre. Del resto Cecchino è agronomo. Di lui ho un ricordo meraviglioso. Era un periodo in cui ci sentivamo legati a Rende, a quello che stava facendo».

Rende di oggi?

«Sta un po’ cambiando, non è più quella di Cecchino. Se ne parla in modo polemico. Il pericolo che si guasti c’è. Un dirigente della Sme mi raccontava che Cecchino, quando era sottosegretario, lo andava a disturbare continuamente facendosi raccomandare per avere i pini da piantare a Rende».

Con Mancini che rapporto aveva?

«Buono. Ma non credeva pregiudizialmente all’agricoltura. La tesi di laurea la feci su agricoltura e industria nella Piana di Sibari: quando andavo all’Asi per avere del materiale, si esaltavano per le petroliere che arrivavano. Quella era la mentalità».

Voi la vostra sfida l’avete vinta. È un’agricoltura che si vede, che dà lavoro e produce profitto. Ma allora si può fare qualcosa di diverso in Calabria?

«In realtà siamo gli unici. Più giù non esiste questo tipo di agricoltura. La provincia di Cosenza fa il sessantacinque per cento dell’agricoltura di tutta la Calabria e lo fa prevalentemente nella piana di Sibari dove una volta c’era la malaria».

Lei come si considera? Un agricoltore, un imprenditore?

«Un imprenditore in senso tradizionale, condizionato dalla terra in cui si trova. Se fossi andato al nord avrei fatto tanti di quei soldi. Però ho avuto grandi soddisfazioni».

Quanto è valsa la scelta dei collaboratori, per esempio, Antonio Schiavelli? 

«Notevolmente a livello dirigenziale. Schiavelli ci è stato molto utile nelle relazioni col ministro De Castro, va sempre a Roma per i progetti, è un intellettuale che viene dal mondo editoriale con ottimi rapporti con Donzelli. Ai livelli più bassi sono un po’ deluso nel vedere maestranze che dopo quarant’anni non riescono a produrre come avviene in Emilia Romagna. Abbiamo ottimi rapporti con i sindacati che hanno una presenza fissa nella nostra azienda al contrario di quello che accade altrove».

Avete avuto mai problemi con la criminalità?

«No, perché il fatto di essere in tanti mette i delinquenti nella condizione di non sapere neanche a chi bussare».

I suoi figli seguiranno le orme paterne?

«Camilla, trent’anni, laureata in economia, sta in azienda; Luigi, 29 anni, ha preso in mano quasi tutto, mentre un suo cugino, figlio di mio fratello, è presidente dell’Assolac; Federico, 25 anni, sta facendo delle esperienze alla Price, una società di revisione».

A casa sua si mangia molta frutta.

«E molti latticini».

Lei assaggia la sua frutta?

«La mangio. Abbiamo un sistema di tracciabilità sofisticata. In ogni nostro contenitore c’è un chip che ha tutta la storia di quel prodotto, potremmo scriverla anche su una vaschetta da un chilo che va in supermercato. Poi con i tedeschi non si può sbagliare mai, basta una volta sola che si sgarra e il rapporto diventa pesante».

Fuori dal lavoro che le piace fare?

«Andare al mare, dove sto proprio bene forse grazie allo iodio. E amo moltissimo la musica classica, a partire da Mozart. Certe volte porto in giro mia moglie in Puglie in viaggi lunghissimi con la macchina che diventa una sala da concerto».

Fanfani le chiese se era calabrese. La Calabria non ha una bella immagine, lei, se glielo chiedono oggi, si sente orgoglioso di dire di essere calabrese?

«Noi siamo stati sempre orgogliosi. Abbiamo frequentato tantissimo l’Emilia Romagna, quando facemmo la fabbrica dello sciroppato; dopo aver discusso e concordato tutto, il problema era se noi calabresi fossimo in grado di pagare. Dovette garantire un amico bolognese per noi, perché allora quando sentivano Calabria si irrigidivano».

In Germania hanno parlato molto di Calabria dopo la strage di Duisburg. Complicazioni per voi?

«Un dirigente di una grande catena di supermercati, che abbiamo invitato tante volte da noi, ci ha risposto: no, io da Napoli in giù non scendo mai».