Alla sua età, 41 anni, sono in pochi a vantare un cursus honorum come il suo: consigliere comunale di Reggio Calabria, segretario nazionale dell’organizzazione giovanile di An, oltre trentamila voti alle Europee, presidente del consiglio regionale per cinque anni, assessore regionale al lavoro per due, sindaco di Reggio per cinque anni da poco riconfermato con un voto bulgaro. Volendo, può aspirare alla presidenza della Regione, in ogni caso al momento è con il suo 70 per cento il miglior candidato che possa mettere in campo il centrodestra. Uno scenario non lontano considerato che a fine anno Loiero potrebbe essere mandato a casa con uno scioglimento del consiglio regionale ritenuto indolore dai suoi componenti: a quella data avranno maturato il diritto alla pensione di legislatura. Ma di fare il Governatore lui, Giuseppe Scopelliti, non vuole neanche sentire parlare, dice che ora gli interessa solo amministrare la sua città. Semmai è altro che lo fa arrabbiare, ai limiti della patologia: chi lo accusa di essere un capopolo della destra e quella che ritiene essere una campagna premeditata di alcuni giornali nazionali contro di lui. In ogni caso, è possibile leggere il suo eccezionale risultato elettorale sostenendo o che hanno demeritato i suoi avversari o che tutti i suoi elettori sono stati abbindolati con posti, favori, appalti e promesse? A questo sarebbe ridotto il popolo di Reggio visto che tre elettori su quattro hanno votato il giovane esponente di An? Della serie: se vinco io gli elettori sono belli, onesti e buoni, se vinci tu gli elettori sono brutti, sporchi e cattivi. Forse il fenomeno Scopelliti è più complesso.

Il suo impegno politico nasce con il Fronte della Gioventù. A che età?

«Da ragazzino. Dicevo ai miei compagni: non è possibile che ci disinteressiamo, guardate che la città è a pezzi, crolla. Era il periodo in cui un padre diceva al figlio: vai a votare, devi farlo, per un posto di lavoro ti serve l’onorevole. In quella fase noi rappresentavamo un‘alternativa, ci chiamavamo Contropotere Studentesco. Dopo un paio di anni entrai nel Fronte della Gioventù».

La sua era una famiglia di destra?

«Mia madre, professoressa, è storicamente di destra, mio padre, dipendente Enel, un uomo di centro. Papà era di famiglia socialista, ma lui è stato sempre un moderato di centro che sulla spinta della famiglia votò spesso a destra».

La rivolta di Reggio del 1970 era sullo sfondo?

«Noi l’abbiamo vissuta come reggini consapevoli. Abbiamo riletto quelle pagine in senso positivo. Affascinati dall’idea di una comunità capace di ribellarsi. Se pensiamo al federalismo, ci rendiamo conto che era quello che oltre trent’anni fa reclamava la città». 

I giovani fascisti da poco avevano finito di impegnarsi per Trieste, voi pensavate a Reggio.

«Da segretario provinciale lavorai per “fare Fronte”, con i grandi cortei di millecinquecento giovani, le occupazioni scolastiche, la vittoria con il 56 per cento alle elezioni distrettuali».

Con la sinistra come andava?

«C’erano i giovani demoproletari, la sinistra era quasi inesistente». 

Botte?

«No, qualche volta con i demoproletari ma mai grandi cose. C’è stato rispetto reciproco. Un anno lanciai la battaglia sulla droga e ci ritrovammo insieme noi, i giovani repubblicani e i socialdemocratici con l’assessore provinciale Canale. Venne anche Cotroneo, il segretario dei socialisti. E c’era Ivan Tripodi dei comunisti che partecipò agli incontri ma senza condividere».

Faceste riunioni insieme?

«Sì, tre o quattro. Prevaleva la mia capacità di dire sempre: dobbiamo pensare alla soluzione dei problemi della collettività e non allo scontro. E mettemmo attorno al tavolo tutti. Inoltre facevamo spesso azione di volontariato: la pulizia delle aiuole del lungomare, l’idea di piantare alberelli di lantana, la verniciatura delle inferriate delle Mura Greche e delle Terme Romane. E la gente passava, dava dei contributi per comprare la pittura o le piante, raccogliemmo qualcosa come quattrocentomila lire. Nel 1992 entrai nel Consiglio comunale».

Si fermi un attimo, parliamo di sport. Un’esperienza importante per lei?

«Ho fatto basket. Cominciai playmaker, a quindici anni in una sola estate sono cresciuto di qualcosa come dieci centimetri».

Quanto è alto?

«Uno e novantuno. Mi ritrovai alla preparazione della prima squadra di serie C con una condizione straordinaria che sorprese un po’ tutti, ed entrai nel gruppo. Poi feci parte delle selezioni del liceo, cominciai a giocare in C2, a diciassette anni ero nel quintetto base, andammo in C1 e guadagnammo lo spareggio col Barcellona. Quell’anno andai via perché avevo dei dissapori all’interno per le scelte societarie. La squadra era la Cap Reggio. Feci una brevissima esperienza a Varese con la Cagiva nella seconda squadra di C1».

Giocava a livello professionistico?

«Sì. Ho girato molto, Montebelluno, Padova, Quello, però, non fu un anno molto fortunato. Andavo bene, piacevo anche ai tecnici, però accadeva sempre qualcosa e le cose mi andavano storte. Tornai a Reggio e ricominciai dalla Promozione, di nuovo in C1, a ventuno anni giocavo in B2 come quinto o sesto uomo della panchina, entravo e facevo quindici punti, segnavo tre su tre. A Marsala in un contropiede presi una distorsione al ginocchio, quell’anno avevo un grandissimo mercato, ero stato già richiesto da molte squadre, sono invece rimasto fuori per diversi mesi e recuperai con grande difficoltà. Correvo male. Avevo problemi con le scarpe».

Non le poteva cambiare?

«Giocavo con le Puma, che erano strette come pianta. Un sabato mattina sono andato a comprare un paio di Reebok Pant, anomale con la pianta molto larga, che non mi provocavano l’infiammazione. La sera giocammo, feci ventuno punti contro il Palermo, saltavo come un razzo, una partita bellissima. Da lì ripresi a giocare bene e negli ultimi tre anni penso di poter dire che sono stato l’allenatore in campo. Ero il capitano della squadra. Ho giocato fino a venticinque anni». 

In squadra c’era Alberto Sarra, consigliere regionale di An e suo futuro antagonista nel partito?

«Sì. Alberto lo portai io in politica nel 1992».

C’era Demetrio Naccari Carlizzi, leader della Margherita?

«Naccari giocò con noi agli inizi». 

Che le ha lasciato lo sport?

«Ho sempre detto che il mio allenatore è stato per me un maestro non soltanto di sport ma anche di vita. Il professore Mimmo Melara ha rappresentato un po’ il secondo mio padre. Una persona di poche parole».

Le usava anche per riprenderla?

«Sa perché la mattina non bevo caffè ma inizio la giornata con la camomilla? Glielo spiego. Ero quasi sempre l’unico reggino in squadra e qualsiasi cosa succedeva lui dava la colpa a me. Spesso litigavo con qualche prepotente. Ci allenavamo alle sette di mattina. Per sei-sette anni mi dovevo svegliare alle sei di mattina, prendere la Vespa e andare in spiaggia a correre, bruciando le estati mentre gli amici erano tornati da poco a casa dalle discoteche. Per evitare le tensioni decisi di non prendere più caffè e da allora inizio la giornata con la camomilla».

Con Melara le frizioni cessarono?

«Viene qui tutti i giorni. Qui in municipio siamo circondati da uomini dello sport. C’è Gigi Rossi, un giocatore forte della Viola degli anni Settanta, ci sono altri amici che collaborano con me e che vengono dal basket del professore Melara».

Lo sport l’ha aiutata a vincere?

«Vede, a undici anni col Cap scendevo in campo e vincevo sempre. Poi a dodici-tredici incominciammo a provare la sconfitta e non ci stavamo, quindi gomitate, falli. L’allenatore ci spiegò che si può anche perdere, però l’importante è perdere a testa alta e con la maglietta sudata. Ci hanno insegnato la lealtà e il rispetto verso l’avversario, e a evitare i falli cattivi – quanti ce ne sono in politica – anche perché se il primo non lo vedono il secondo non passa».

Torniamo a Sarra e Naccari, formavate un bel terzetto.

«Demetrio giocò con noi due anni, un playmaker che veniva dalla ginnastica artistica. Era divertente vederlo giocare perché era quasi una molla, bang… bang… Però, non aveva grande tecnica». 

I vostri rapporti?

«Buoni negli anni, anzi ottimi fino alla candidatura che ci ha visto contrapposti. Non ci siamo salutati a lungo per tanti anni, l’altra volta mi ha visto e ci siamo spontaneamente avvicinati, mi ha fatto i complimenti. Avevo saputo che lui in televisione aveva detto che bisognava darmi atto di aver vinto, mentre il candidato del centrosinistra diceva che cinquantatremila voti di scarto erano voti di scambio».

Con Sarra scontri politici in An?

«Abbiamo vissuto anni importanti, intensi nel campo del basket, poi abbiamo avuto un periodo di incomprensioni dettate da situazioni interne. Scontri sempre a distanza, più legati ai contorni che li amplificavano. Alla fine abbiamo fatto prevalere l’interesse della città anche sulla base dell’antica amicizia».

Torniamo al Consiglio comunale del 1992. C’era anche Gianfranco Fini.

«Lo conoscevo già da prima. Quando venne a Reggio nell’ottobre del 1992 in vista delle elezioni comunali, mi disse: devi fare il consigliere comunale. Poi aggiunse: col nuovo anno abbiamo l’impegno che devi diventare il segretario nazionale dell’organizzazione giovanile, sei pronto? Arrivai quinto alle elezioni comunali dopo Fini, Meduri, Aloi e Bertucci». 

È rimasto legato a Fini, ma ha un forte rapporto con Maurizio Gasparri?

«Sì. A volte Fini è intervenuto quando si è creato qualche conflitto con Sarra, che è legato a Alemanno, io a Gasparri. Maurizio si spende in tutti i modi per gli amici. Ma io sono amico di tutti, ero molto affezionato a Pinuccio Tatarella, uno che parlava calmo, smorzava le polemiche, badava alla sostanza».

Viene poi la candidatura alle Europee con la mancata elezione ma con un grosso risultato, e subito dopo, nell’aprile 1995 l’elezione alla Regione di cui è stato per cinque anni il presidente del consiglio. A 28 anni non è proprio normale?

«Ho governato il consiglio regionale con 45 miliardi, ne restituivo sette-otto, una volta anche quindici, quindi lo gestivo con trenta-trentacinque miliardi, oggi ce ne vogliono sette volte di più».

L’attuale presidente Bova dice che ha tagliato.

«Mi pare di sì. Non è una contestazione a Bova, è una valutazione sui costi della politica. Un giovane di destra che arriva a quella carica è portato dall’entusiasmo a fare le rivoluzioni. Invece – e non era facile – ho governato con equilibrio. Penso di aver lasciato un ottimo ricordo. Ma erano anche anni diversi. La sera con Nicola Adamo, con l’onorevole Intrieri, con Antonella Freno, con Franco Bruno, con Franco Pacenza andavamo a cena, chi invitava un amico, chi suonava, ballavamo, cantavamo fra di noi, eravamo dieci-dodici, di destra, di sinistra, c’era un clima di grande cordialità. Mi pare che negli ultimi dieci anni si sia smarrito tutto questo. Oggi c’è una situazione imbarazzante sotto tutti i punti di vista, anche sul piano personale».

Dopo cinque anni viene rieletto e per due anni fa l’assessore al lavoro. Lì ha imparato a fare il miracolo della moltiplicazione dei posti?

«Con la legge 4 del 2001 stabilizzai 2.800 precari. Non troverà mai in nessun anno una situazione simile. Era la legge Scopelliti, tanto contestata. Davamo incentivi agli enti e alle imprese che volevano assorbire i giovani precari. In questi ultimi cinque-sei anni non è stato stabilizzato neanche un precario». 

Diventa sindaco dopo Falcomatà. Il primo anno dove andava raccoglieva fischi? Se li ricorda?

«Fu d’estate. Alcune scelte forti e coraggiose come la chiusura di corso Garibaldi o il senso unico a Sbarre non vennero recepite dalla città. Nascevano comitati, per iniziativa della sinistra o spontaneamente. Sull’emergenza non eravamo bravi, mentre sul piano della progettualità io stavo chiuso qua a lavorare dicendo: tra tre anni esco e si vedranno i risultati. Ma non riuscivamo a comunicare».

I primi fischi?

«C’era una partita della Reggina, partirono dei fischi e si unirono tante altre persone. Fu una manifestazione di disappunto, che diventò moda, tendenza. Per cui a un concerto quattro giorni dopo altri fischi, e in quattro-cinque circostanze si ripeterono anche quando io non c’ero».

In un’intervista al “Quotidiano della Calabria” suo fratello Tino disse che i fischi erano meritati.

«Sì, si fece prendere la mano per giustificarmi dando la colpa a chi mi stava attorno. Dovetti spiegargli che non scarico mai le mie responsabilità sugli altri».

Come prese quell’intervista?

«Gli dissi che aveva sostenuto una cosa che mi avrebbe nociuto per parecchio tempo. Per quattro-cinque mesi non si parlava d’altro, ogni attacco si concludeva con la frase: lo dice anche il fratello».

Come ne venne fuori?

«Era un momento difficile. I collaboratori venivano qui dentro e mi chiedevano: ma che succede? E io la notte non ci dormivo. Il progetto era chiaro ma non riuscivamo a farlo comprendere. Mi dicevano: anche ieri i fischi, che dobbiamo fare? E io: dobbiamo lavorare di più. Oggi la gente mi ferma e mi dice: tu sei il sindaco delle opere, il sindaco buono, vui siti bbonu. Questo è il più bel complimento, perché io sono una persona semplice, che non approfitta del suo ruolo per fare del male agli altri».

Reggio città turistica?

«Il mio avversario alle comunali sosteneva in televisione che a Reggio non ci sono i turisti. Quelli che passeggiano per il corso con i pantaloncini corti, gli zaini, le macchine fotografiche, sono reggini che sono andati dal parrucchiere e si sono fatti i capelli biondi. Reggio è diventata una città turistica, ora deve consolidare questa funzione».

In quale modo?

«Con i grandi eventi. Bisogna attrarre e per attrarre bisogna inventarsi qualcosa. Abbiamo il museo con i Bronzi da rivalutare, ma non basta. Abbiamo cercato di valorizzare la costa, i lidi, il lungomare, di bonificare gli scarichi fognari a mare, e di creare una rete museale, perché il binomio turismo estivo-cultura è la carta vincente: la pinacoteca, il museo civico del Mediterraneo, Villa Zerbi, il castello. E il Waterfront, un  progetto di 48 milioni e mezzo di euro per il nuovo lungomare con l’idea di una struttura museale  che faccia identificare Reggio nel mondo: hanno partecipato i più grandi architetti al mondo da Bohigas a Carmine De Grazia, da Fuksas a quello che ha fatto le vele a Dubai. Per fare questo abbiamo dovuto investire risorse, se non fai iniziative la gente non viene. Il ritorno economico per la città è enorme ed è stato stimato in 250 milioni di euro. Quando spendo sei milioni di euro per cultura, spettacolo…».

Anche per Lele Mora e le sue vallette a passeggio per il lungomare?

«Certo.  Noi abbiamo comprato un pacchetto da Lele Mora: ventiquattro artisti più la Marini, più i servizi nei settimanali più letti (Chi, Eva 3000, Visto e Star Tv). Non si parla della Notte Bianca di Roma ma di quella di Reggio. Noi finivamo su Cronaca Nera con i morti ammazzati, siamo finiti su Star Tv: no Reggio no party, bellissimo. Abbiamo comprato spazi radiofonici a Radio Montecarlo e a Radio Italia. E tutto con un pacchetto pagato centomila euro più Iva. Ho pagato sessantamila euro per uno spot televisivo che è andato per quindici giorni. Però queste cose i giornalisti cattivi non le hanno mai scritte».

I giornalisti cattivi non le vogliono bene, i buoni sono compresi nel pacchetto di Lele Mora. Insomma…

«No, vede, io parlo con i fatti. Pensi ai gazebo sul lungomare. Li voleva fare Falcomatà e andava bene, li faccio io e li blocca la magistratura. Il tapis roulant tra Villa Zerbi e la parte alta lo volevano loro e cercavano i soldi, io faccio i lavori e loro gridano: è una vergogna. Falcomatà voleva far divertire i reggini con Melba Ruffo di Calabria, io chiamo Lele Mora e la Marini. Il sindaco di Riccione mi ha fatto i complimenti: siamo crollati perché da noi non vengono più i vip che se ne vanno in Sardegna. Io voglio portarli dalla Sardegna a Reggio».

Prima accennavamo al lavoro. L’hanno tacciata di essere una macchina fabbricaposti. Solo per gli amici?

«Abbiamo fatto tanti progetti puntando sulla capacità dei giovani di essere bravi e di proiettarsi su un’opportunità che noi diamo. Se vuole, possiamo discutere per giorni».

Fermiamoci solo qualche minuto.

«Progetto Workmed, cinquecento giovani nel tirocinio formativo. I soldi me li ha dato Pasquale Viespoli, sottosegretario amico mio. Gli avevo portato un progetto che gli era piaciuto. Potevo dividerli: trecento a An, cento a Forza Italia e così via. Ma con quale futuro se poi le aziende non li assumevano perché non all’altezza. Questa è la cultura del lavoro che vige nel Mezzogiorno. Su cinquecento ne avremmo raccolti cinquanta bravi».

E lei che ha fatto?

«Premiare i bravi. Su cinquecento giovani trecentosessantuno hanno avuto un contratto, che via via è diventato full time indeterminato. Non so neanche chi sono. Quando li ho incontrati ho detto loro: ragazzi, vi ho dato l’opportunità, siete voi e gli imprenditori, se siete bravi vi terranno, altrimenti ci restituiscono la fideiussione».

Al lavoro interinale è stato premiato il merito?

«Perché ci si scandalizza di noi? Mastella ha promesso delle assunzioni, ma come verranno presi? A lavoro interinale, ma nessuno si scandalizza di Mastella o di quello che fanno dappertutto in Calabria e fuori. Poi sono le società interinali a dover garantire la qualità».

Lei è anche passato per il sindaco delle file di giovani aspiranti al lavoro.

«Le file in Inghilterra sono simbolo di democrazia, a Reggio Calabria no. Le file sono andati a farle i giovani con il passaparola, non i raccomandati. Tra quei ragazzi c’è tanta gente di sinistra che ha votato Scopelliti e sa perché? Perché si è vista attaccare dalla sinistra e si è detta: questo stronzo sindaco di destra mi sta dando una chance, e tu che non me l’hai mai data me la vuoi togliere, ma vattene a fa’…».  

Guardiamo al futuro. Con la sua carriera e il plebiscito di voti che si ritrova sarà il candidato Governatore del centrodestra?

«No, non sono interessato. Non è un tema che mi appassiona. Ho l’obbligo di fare bene il sindaco di questa città per i prossimi cinque anni. Lo dico in maniera convinta, non ci sono doppi pensieri. Sono il sindaco più votato d’Italia, Reggio è la città con la più alta percentuale di votanti d’Italia. Finalmente ci sono primati positivi».

Il segreto del suo successo?

«Guardi, non c’è solo l’area del bisogno che può raggiungere il 10-15 per cento. Agli altri interessa poco la polemica politica, il dibattito, le televisioni, i giornali. La gente quando esce di casa, guarda e dice: oh, hanno asfaltato quella strada; oh, hanno messo a posto quell’aiuola; oh, la città è pulita; oh, vedi quel mezzo pubblico nuovo. È andata a votare una parte di città che non ha bisogno di niente. E poi la vuole sapere un’altra cosa?».

Dica.

«Se la gente ha fiducia nelle istituzioni si allontana da altre sirene, dalla mafiosità, dalla ‘ndrangheta. Questa città sta vivendo un momento straordinario, che era nato, per carità di Dio, con Falcomatà».

Con tutto il denaro che gira questo comune è una casa di vetro?

«In questa stanza non sono mai transitati affari. Percepivo quattordicimila euro alla Regione nel 2002, guadagno tremilaseicento euro come sindaco. Ho perso, pur avendo una famiglia, venti milioni di vecchie lire al mese, non me n’è fregato niente perché sono venuto a fare una cosa bella per la mia città. La mia maglietta è quella amaranto della Reggina, poi quella del partito».

Ora fa il populista?

«Tra cinque anni, ci sarà un altro sindaco, di destra o sinistra non conta purché sia bravo. E sa perché? Perché mia figlia Greta, che ha sei anni, crescerà in questa città, io vivrò qua, e così mia moglie Barbara. Io tengo al futuro nostro e a quello di mia figlia e perciò spero che chi verrà dopo di me sarà dieci volte più bravo, ma bisognerà lasciargli una città in cammino».

Sembra l’Eden la Reggio che racconta. La ’ndrangheta dov’è finita?

«Quella ammazza. Ma non si può dire che un reggino su due è un mafioso. Attenzione, noi reagiamo e combattiamo la ‘ndrangheta. Sa come? Quando l’altro giorno abbiamo assegnato ad una famiglia rom un’abitazione confiscata alla mafia, dopo cinque giorni si sono ritrovati con le pareti abbattute dalle ruspe. Nessuno ha visto niente. Tutti hanno messo in prima pagina lo straccio imbevuto di alcol che ha annerito il portone della televisione di Lamberti. Ho chiamato il prefetto e gli ho detto che dovevamo andare tutti alla casa dei rom dove la ‘ndrangheta ci aveva sfidato. Centomila euro di danni? L’amministrazione comunale li ha tirati subito fuori perché quella casa doveva essere riparata e restituita alla città. Questo sindaco ha fatto tre lettere a tre famiglie mafiose: dovete – ha scritto loro – abbandonare gli appartamenti occupati abusivamente. Siccome non lo fa lo Stato, il sindaco Scopelliti firma e le case vengono lasciate dai Condello, dai Labate e dai Lo Giudice. I beni confiscati non erano stati mai assegnati, io li ho assegnati tutti smentendo chi pensava che ai beni confiscati non si avvicina nessuno. Direttore, perché queste cose non le raccontate?».

Le sta raccontando lei, Governatore.

«No, mi fa piacere che qualcuno pensi a me ma io amministro Reggio Calabria».