È il barone calabrese per antonomasia. Il latifondo di suo padre si estendeva dalla Sila a Cotone, oltre trentatremila ettari che da una sera alla mattina, con la riforma Gullo, diventarono poco più di duecento ettari. Storici e saggisti, politici e giornalisti nel tempo hanno citato il cognome della famiglia per associarlo all’idea della rendita parassitaria, deleteria per l’economia calabrese e per i suoi abitanti. Solo da qualche anno è in corso una revisione del giudizio anche perché la frantumazione della grande proprietà, che si esprimeva anche con i caratteri di azienda pre-capitalistica, si è dimostrata un fallimento al punto che se qualcosa di buono sta accadendo da qualche tempo è solo perché si vanno riformando grandi aggregazioni di terre, uomini e risorse anche nella vicina piana di Sibari, capaci di tenere il passo con il mercato nazionale ed internazionale. Maurizio Barracco non si sottrae a questo discorso, anzi è prodigo di documentazione per dimostrare che il latifondo, e quello della sua famiglia in particolare, non era il ricettacolo di tutti i mali. Lo fa, come anche sua moglie Mirella più volte ha voluto sottolineare, con lo spirito in ogni caso di onorare un debito nei confronti della Calabria. Il fatto è che lui è un calabrese fin nel midollo. E dire che a Napoli ha attività imprenditoriali di primo ordine, ha fatto miracoli nel trasformare un’azienda come l’acquedotto di Napoli da un colabrodo con 250 miliardi di lire di debiti in un gioiello che ha ridotto la dispersione della rete al 17 per cento e ha investito 125 milioni di euro, e ha una dimora bellissima, forse la più bella della città. Il suo orizzonte è amplissimo: ha interessi nell’editoria, dal Corriere della Sera al Corriere del Mezzogiorno, è amministratore di una banca al Cairo, è presidente onorario di Federculture e ricopre altre innumerevoli cariche il cui elenco richiederebbe buona parte dello spazio di quest’intervista. Naturalmente parla di tutto questo, ma è come se descrivesse la cornice, il quadro a cui tiene è questa terra che di fatto considera la sua casa.
Anche se non è nato in Calabria.
«Sono nato a Roma per il pericolo dei bombardamenti. Roma era una città esente da questo rischio in quanto sede del Vaticano. L’unico bombardamento, anche se lieve, ci fu il 7 agosto 1943 quando sono nato io».
Da dove venivate?
«Mia madre era piemontese, figlio di un generale del Corpo di armata, la Quarta, a cui molte volte si attribuisce la disfatta di Caporetto: lui era un signore molto simpatico, viveva a Torino e aveva naturalmente anche una casa a Roma. La madre di mia madre, famiglia de Robilant, era proprietaria del Palazzo del Grillo, un edificio famoso del vecchio Marchese del Grillo, che era stato caserma dei carabinieri e che poi mia nonna aveva comprato e ristrutturato».
La sua educazione dove è avvenuta?
«I primi dodici anni, cioè elementare e media, al Pontano di Napoli. A dodici anni purtroppo mia padre morì, mia madre rimase sola, con tutti i guai che derivavano dalla riforma agraria con pagamenti di tasse e cose assai gravi, e io andai in collegio in Veneto: sono stato educato, vicino ad Asolo, a Paterno del Grappa, nel collegio di monsignor Filippini, dove sono stato cinque anni facendo il ginnasio e il liceo. L’università, ho fatto prima Legge a Napoli, poi un master a New York in “business administration”, poi Scienze politiche di nuovo a Napoli ma ho interrotto quando mi mancava solo la tesi di laurea. Avevo ventisei anni lavoravo a Roma e quel giorno non andai: il mio relatore era Paolo Tesauro».
In questo caleidoscopio di regioni e stati che posto aveva la Calabria?
«Era la mia patria di origine. In fondo io sono un bambino latifondista, ho sentito raccontare il latifondo e l’ho visto parzialmente fino all’età di sette-otto anni. Era una cosa rivolta al passato. Venivo molto spesso, delle volte i miei esami più impegnativi di legge li ho fatto studiando a Capo Rizzuto dove avevamo una casa. E ogni anno venivo a passare sia agosto che il Capodanno qua. Un legame continuo, di affetto e non di interessi perché ormai questi erano pochi».
A proposito di latifondo, quali difficoltà ricorda per la sua famiglia?
«Erano molto grosse. Vivevo soprattutto l’amarezza di mio padre, nato nel 1885 e morto nel 1955, a settant’anni, quindi cinque anni dopo il grande esproprio. Un’amarezza profonda che gli fece fare anche dei gesti simbolici molto forti».
Ne racconti uno?
«Noi avevamo una magnifica razza di vacche podaliche, mio padre fece affogare tutti i tori a Isola Capo Rizzuto purché non si diffondesse la razza. Finito per finito, visto che sono stati così ottusi tutti i tori simbolicamente furono affogati».
In realtà suo padre pagò un passato che era diventato emblema di sfruttamento parassitario del territorio e degli uomini.
«Pagò tutto affettivamente. Mio padre era non particolarmente vicino all’insieme perché si è sposato molto tardi, dopo i cinquant’anni, e quindi pensava ad una vita in cui quello che aveva era sufficiente per lui. Uno dei problemi veri è che non ha mai pensato ad un futuro sia della famiglia sia di un eventuale figlio sia della moglie. Incontrò mia madre a Parigi, e mia madre pensava di aver sposato un uomo ricco e che invece nel tempo sarebbe stato pieno di guai, che lei da donna piemontese dovette affrontare in prima persona in Calabria».
Mi parli di questi guai.
«Il primo fu la patrimoniale progressiva nel 1950 su terreni che ormai non avevamo più. Quindi, l’indennità di esproprio, soprattutto dei boschi che erano circa cinquemila lire a ettaro, in parte non fu sufficiente anche perché buoni terra che furono dati in cambio in effetti non avevano un gran valore sul mercato: dovemmo ricorre a una banca finanziaria, che era la Scaletti, che li scontò col 35 per cento in meno. E le cinquemila lire meno questo 35 per cento furono utilizzate per pagare la patrimoniale, che nel ’50 ammontò a un miliardo e cento».
Una mazzata per suo padre.
«Mio padre soffrì moltissimo innanzitutto perché come tutti i calabresi parlava pochissimo e soffriva internamente. E siccome era un padre vecchio dedicò gli ultimi dieci anni della sua vita a crescere questo figlio che gli era capitato per caso: mia madre aveva 47 anni quando io sono nato, e mio padre quasi 57».
Come le raccontava questa vicenda?
«Era più mia madre a farlo. Mio padre comunicava affettivamente. Lui era un ottimo cacciatore e mi insegnò a sparare. Vivevamo assieme. Era bravo in latino, le mie prime difficoltà di latino durante le medie le abbiamo affrontate assieme. Aveva una vecchia radio e si appassionò molto al campionato di calcio, si scriveva i risultati delle partite per farmeli vedere quando tornavo il sabato e la domenica perché sapeva che mi faceva piacere. Lui visse per me, mentre mia madre correva da tutte le parti affrontando i guai come le liquidazioni dei tantissimi dipendenti».
Mi fa capire quale fu l’opinione che lei si fece all’epoca dell’esproprio e se poi e quando l’ha sistemata storicamente in maniera più accurata?
«La mia prima reazione è di carattere istintivo che mi ha fatto scegliere un’impostazione di vita di lavoro non calabrese. Ma non era un giudizio di merito sul latifondo, piuttosto un giudizio pratico perché non ci sarebbe stato futuro per uno che avrebbe voluto fare una carriera su un’impresa che non c’era più, e il latifondo era un’impresa. Poi man mano nel tempo gli animi si sono placati, le avversità erano superate e anche con quelli che avevano occupato le terre, da Fermariello al senatore Poerio, abbiamo avuto tanti rapporti e ripensamenti vedendo le colpe di quello che era stato il latifondo, soprattutto nell’ultimo periodo dopo le leggi protezionistiche di fine Ottocento fino al 1950, da una parte, e dall’altra parte anche l’occasione perduta della riforma agraria che era stata una buona idea, quella di colpire pochi e di effettuare un vero salto di qualità nel governo di un programma di sviluppo della Calabria, ma che per la fretta di vincere le elezioni e tutta una serie di ragioni fu fatto male. Sbagliò anche il professore Rossi Doria perché la fretta non è mai una buona consigliera».
La sua critica più concreta?
«Le dimensioni degli appezzamenti espropriati erano troppo piccole, l’idea di vivere con una casetta isolata sul proprio podere mediata dal fascismo in Calabria non andava bene perché la sera volevano tornare tutti in paese, quindi tutte le case sulla costa sono state abbandonate da Isola Capo Rizzato fino a Catanzaro, e quelle montane in questi piccoli villaggi di venti-trenta case anche quelle avevano poderi troppo piccoli perché cinque-sei ettari di bosco non errano sufficienti per vivere, e anche questi sono abbandonati (oggi a Croce Magara c’è una famiglia ogni trenta case e a Pino Romito è lo stesso). Una buona idea mal realizzata, e per di più con la trasformazione dei prodotti e la commercializzazione in mano all’Ovs (l’Opera Valorizzazione Sila) diventate un fallimento. Hanno fatto consorzi per la produzione del vino o delle patate, ma tutto questo non era dentro un piano strategico, il nostro mercato dell’offerta era troppo debole».
Una conclusione amara per lei e per la Calabria?
«È quella cui sono giunto prima da solo e poi parlandone con altri, e infine c’è il libro di Marta Petrusewicz, “Il Latifondo”, che è il risultato di una ricerca durata undici anni e che è stato pubblicato in America, perché dopo i libri di Kula è estremamente interessante vedere che cosa fosse il latifondo. Perché il latifondista nasce dopo le leggi che distruggono il feudalesimo. Il latifondo era un’impresa, e il latifondista non era né un borghese e né tutto sommato un feudatario ma un impresario, un vero capitano d’industria, che fra l’altro aveva il consenso di tutti: noi avevamo un migliaio di dipendenti, alcuni veri e propri dipendenti e altri tra il 1806 e il protezionismo gente a cui si dava la terra per un’ampia gestione».
Questo era l’aspetto positivo, ma…
«No, l’aspetto positivo era anche la flessibilità e la modernità perché non era solo un’azienda agricola perché noi avevamo la seta e la liquirizia che erano prodotti di particolare interesse internazionale. E la gestione nostra era diretta, facevamo perfino i noli per portare la merce sui mercati sia di Genova sia di Milano sia per l’esportazione per l’America e l’Inghilterra: la liquirizia era fondamentale per la birra scura, poi dopo si trovò il surrogato e calò il mercato. Ma fino al 1870, anzi fino alle leggi protezionistiche, per ottant’anni il latifondo è stato anche un ammortizzatore sociale perché era garante dell’ordine pubblico e dello sviluppo sociale».
Nessuna colpa?
«Una che si ritrova in quel periodo e che si accentua sempre di più dopo, è che è stato responsabile dell’arretratezza culturale, perché il latifondista, essendo un imprenditore illuminato, curando troppo i suoi interessi non ha mai preso in carico l’aspetto sociale della gestione del territorio. Aveva solo interesse a che ci fossero più abitanti. Il nostro latifondo esprimeva un’idea moderna di territorio, che andava dalla Sila fino a Isola Capo Rizzato in continuità: quindi, la transumanza avveniva senza bisogno di chiedere il permesso ad altri. Siccome vigeva il maggiorascato (tutti i beni al primogenito, ndr) nelle mani di mio padre confluì la più grande estensione di proprietà mai avuta in Italia: trentatremila ettari».
Quanti ve ne sono rimasti?
«Duecentosettanta. E centosettanta ettari che erano l’uliveto di Isola Capo Rizzato che non riuscirono ad espropriare perché non era trasformabile. Le due condizioni per l’esproprio erano: da una parte che era un riequilibratore sociale e dall’altra che erano terreni abbandonati che si potevano trasformare».
Ma se era un’azienda moderna perché c’era bisogno di riequilibro sociale?
«Era modernissima, poi dopo il 1887 il sistema protezionistico determinò il decadimento del latifondo. Noi esportavamo i prodotti migliori sui mercati esteri e vendevamo sul mercato interno i prodotti di largo consumo, la legge protezionistica ci inimicò tutti i mercati esteri e a quel punto il latifondo andò in crisi. Noi non avevamo più possibilità di fare società perché i prodotti non si vendevano e quindi ci fu un esborso di capitali molto più ampio per tenere in piedi le attività. Bisogna anche aggiungere che la famiglia di mio padre, come forse altre famiglie, vivevano poco qua e quando ci fu l’ultima guerra e l’Italia fu tagliata in due, noi per cinque anni non venimmo qua».
Suo padre dove viveva?
«Normalmente a Napoli. Non aveva un interesse alla Calabria, essendo poi solo e vecchio, ma anche gran parte della propria vita la visse parte a Napoli parte a Milano e parte a Parigi. Il suo era un interesse soprattutto di carattere culturale e dello svago. Non aveva più stimoli. Non gli interessava neanche il debito o la cambiale perché il latifondo era molto vasto».
Veniamo a lei. È napoletano, non ho capito se più napoletano o più calabrese…
«Io mi sento profondamente calabrese, di napoletano c’ho una moglie».
Mirella, che è un incontro fondamentale?
«Sì, da molti punti di vista».
Quando l’ha conosciuta?
«Nel 1964. Quando torno dal master in America e mi offrono un lavoro meraviglioso di amministratore delegato della Veedol Lubrificanti con sede a Roma e mandato di risanarla e venderla in due anni, cosa che feci. Poi avevo avuto delle offerte in varie aziende a Milano, e con mia moglie, che ancora non lo era perché ci sposammo nel 1972, dovemmo fare una scelta di fondo, se vivere a Napoli dove avevamo una grande attrattiva che era la casa e i parenti di Mirella (io di famiglia avevo poco), e decidemmo di vivere a Napoli».
Fu un amore a prima vista?
«Sì. Ormai sono quarantatré anni che stiamo insieme».
È stata lei a trascinarla in tante iniziative con la sua vivacità culturale?
«È stata fondamentale. Lei insegnava prima a scuola e poi letteratura inglese all’università, e ha sempre avuto passione per le iniziative culturali e mi ha fatto capire quanto fosse importante lavorare in questo campo. Voglio dire l’analisi degli aspetti negativi del latifondo e penso a quello che noi ex latifondisti avremmo potuto fare se avessimo preso in carico dallo Stato l’aspetto culturale e sociale. E questo è valido per il latifondo come per l’Italia. Nel nostro paese siamo senza un progetto di sviluppo, e un progetto di sviluppo che prende la cultura come base che viene dal passato e ci proietta nel futuro sarebbe fondamentale, lo sarebbe stato per l’agricoltura, lo sarebbe stato per l’industria, lo sarebbe stato anche per l’ambiente. Non l’abbiamo mai fatto perché siamo sempre protesi al presente e non pensiamo alla grande».
Che è l’idea di fondo della nascita della Fondazione Napoli Novantanove. Mi sbaglio?
«Nasce nel 1984 e ci fa capire l’importanza del collegamento della città attraverso la cultura con l’estero, e mi riferisco anche a città solitamente avverse a Napoli. E questo non era capito molte volte dagli intellettuali. La Capria ci disse: ma perché non vi preoccupate di monnezza e di traffico? Noi pensavamo che l’esigenza era più ampia. Il nostro primo presidente è stato l’inglese Fancis Haskell, uno dei più grandi storici dell’arte. Il secondo è stato il francese Maurice Aymard».
L’idea era di ridare a Napoli un ruolo all’altezza dell’antico ruolo di capitale europea?
«Certo. E pensammo di farlo con il restauro dei beni culturali che allora non si faceva. La Soprintendenza spendeva 250 milioni l’anno, noi portammo tanti soldi: il restauro dell’Arco di Alfonso di Aragona costò un miliardo e trecento milioni. Era un modo di recuperare l’identità che è un problema del Mezzogiorno e anche della Calabria. Se non si recupera l’identità di amare di essere calabresi con un programma di sviluppo non c’è nessun futuro».
Da Napoli alla Sila, un metodo di intervento che viene trasferito nel parco Old Calabria. Come avviene?
«La Fondazione apre spiragli internazionali, prima con “Monumenti porte aperte” si portano circa un milione di persone a Napoli nel 1992-’93 e poi con l’iniziativa “La scuola adotta un monumento” che è stata introdotta in tredici paesi d’Europa e in 330 comuni italiani. L’idea calabrese nasce un po’ per caso perché mentre a Napoli non ci siamo mai voluti dotare di una struttura stabile e puntavamo sull’elasticità e la possibilità di cambiare i programmi, in Calabria abbiamo pensato che fosse necessario qualcosa di stabile, un luogo fisico, un simbolo, anche perché non avevamo nessuno qui, perfino odiati per certi aspetti del latifondismo, però certamente debitori nei confronti della Calabria. Il nostro, quindi, è un ritorno verso il pagamento di un debito, ed è l’impegno più grande. Prima è nato un parco letterario che unisce un territorio abbastanza ampio e va dal Pollino ad Isola Capo Rizzato, con cultura magno-greca, cultura bizantina, cultura brutia. La seconda cosa che nasce insieme a Gian Antonio Stella, ed è il Museo dell’Emigrazione, che racconta la storia drammatica del grande esodo che inizia proprio dalle leggi protezionistiche, quando i proprietari terrieri, con Giovanni Barracco in testa, furono dissenzienti perché capirono che avrebbero rovinato le loro aziende però non votarono contro ma si assentarono».
Nella sua ricchissima biografia si ritrovano innumerevoli responsabilità di gestione di aziende, banche, giornali. Si è fatta un’idea di come la Calabria possa uscire dall’isolamento?
«Vedo le difficoltà dell’imprenditore da imprenditore. Quella dell’imprenditore del Sud è un’esperienza ad ostacoli. Ha un handicap colossale. Il primo è rappresentato dalle difficoltà infrastrutturali: tra quindici anni avremo un’autostrada che avrà una corsia di emergenza, si parla di aeroporti ma non sono a regime e non c’è un piano, i treni per la distribuzione delle merci manco a parlarne. Siamo degli handicappati. Il secondo handicap è la burocrazia che non se ne può più: se devo mettere un impianto fotovoltaico non so quando mi danno la concessione, se me la danno, che infrastrutture servono? Tempi della burocrazia eterni e la mediazione della politica non facilita il compito dal momento che c’è un tale frazionamento del potere perché prima il latifondista decideva, qua non decide nessuno. Terzo handicap, ed è il maggiore, il sistema bancario».
Da amministratore di banche importantissime, l’affermazione è impegnativa.
«Infatti, io conosco da dentro il sistema bancario. In Italia le banche non hanno mai operato come meccanismo d’impresa, ma hanno sempre fidato il loro fido sul patrimonio e mai sul progetto. Questo ha comportato l’arretratezza del Mezzogiorno negli ultimi cinquant’anni. E i tassi sono più alti, ed è anche giusto se uno non analizza il rischio. A monte di questi tre handicap c’è la mancanza di una strategia sul territorio, anzi c’è la sua devastazione. A completare il quadro ci sono in Calabria ammortizzatori sociali che non incentivano lo sviluppo: qui ci sono sessanta tipi di provvidenze. È un sistema che non funziona. Chi vuol sopravvivere può farlo restando a casa, gli altri, quelli capaci, sono costretti ad andar via».
Ma come si potrebbe ovviare?
«Anni fa il deputato Barbieri ha fatto una proposta saggia: facciamo un solo tipo di provvidenza. Se perdi il lavoro, io ti assisto e ti formo per un anno e ti indirizzo verso settori in via di sviluppo».
Prima parlava di banche. Lei ha anche un’esperienza in Egitto come amministratore di una banca di sviluppo con seimila dipendenti. La situazione è diversa?
«In Egitto c’è un problema assai interessante di politica: finché non c’è una democrazia di tipo occidentale ed esiste un controllo abbastanza totalitario, il rischio del fondamentalismo non c’è. Oggi i paesi che si affacciano sul Mediterraneo (Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco) hanno bisogno di uomini di governo molto forti altrimenti il fondamentalismo nel tempo con un processo democratico tradizionale prende la maggioranza. È un’analisi della democrazia totalmente diversa, è l’analisi che ha spinto l’America a finanziare Saddam Hussein e poi, non si sa perché, a buttarlo giù».
Questo è lo scenario politico, ma a livello di banche e di imprese che succede?
«Il modello di impresa purtroppo deve essere proiettato sui quattro-cinque anni per cui il momento della decisione deve essere rapidissimo. Quindi, dal momento in cui l’imprenditore fa la domanda nell’arco di dieci giorni deve avere la risposta».
E voi gliela date?
«Certo. Questa è la regola in Egitto, al massimo possono trascorrere quindici giorni».
Non lo dica in giro altrimenti tutti gli imprenditori vengono al Cairo.
«In Italia tutto è più complicato. Abbiamo un sistema ingessato».
Oltretutto l’Italia è un paese lento se si pensa alla velocità della Spagna. Per non parlare del nostro Sud.
«Poi se passa attraverso la mediazione politica tutto diventa ancora più complesso. C’è troppa ingerenza. La politica è una delle cose più nobili, ma nasce per programmare non per gestire né in proprio né per conto terzi. È tutto qua».
Cambiamo argomento. Come si vive in una casa, la sua villa di Posillipo, dove vengono ospitati uno dietro l’altro i presidenti della Repubblica? Per esempio, Ciampi.
«Mi ha fatto grande ufficiale. È un’antica amicizia prima che diventasse capo dello stato. Non aveva cariche allora, e venne per cinque anni, ogni Capodanno, da noi».
L’amicizia con Napolitano è più facile trattandosi di un napoletano.
«È stato il primo che come presidente della Camera affidò i monumenti ai ragazzi delle scuole di Napoli nella Cattedrale di Santa Chiara. Aveva una sensibilità particolare. Lui si ricorda ancora quel momento molto commovente davanti a oltre mille ragazzi: ognuno ebbe una pergamena dalle sue mani con l’affidamento temporaneo di un monumento. Lui ci conosce abbastanza bene. Io spero che venga in Calabria».
Ecco, ricordo che poco dopo la sua elezione una delegazione calabrese andò a visitarlo e Loiero disse dopo che la prima visita che Napolitano avrebbe fatto sarebbe stata in Calabria. L’attesa continua.
«Credo che è un momento particolarmente difficile per la Calabria e anche per la leadership nel senso che qui gli intrecci sono infiniti. Non credo che il presidente napoletano venga per questo ma certamente la situazione è particolarmente complessa in Calabria ma anche in Campania. Ci sono dei dati impressionanti. L’investimento totale che viene dai fondi europei è di 76.997 milioni di euro. Ma dove sono, se il divario tra Nord e Sud aumenta? Sono una valanga di fondi. Le agevolazioni a fondo perdute sono state pari a 32.968 milioni di euro. Ma dove sono andati a finire questi soldi? C’è una responsabilità politica di tutti. Conosco il pensiero del presidente Napolitano e noto un certo imbarazzo».
Tra i suoi fiori all’occhiello ci sono i risultati della presidenza dell’Arin, l’acquedotto di Napoli, che, stando ai numeri, presenta un bilancio anomalo per Napoli e per il Mezzogiorno. Come ha fatto? Sembra quasi un’azienda privata.
«Il comune di Napoli è proprietario del cento per cento delle azioni. Sull’acqua ho idee particolari. Serviamo circa due milioni di persone, abbiamo quattrocentomila contratti, una situazione molto diversa dalla Calabria dove non ci sono concentrazioni demografiche ed esistono aziende piccole e spesso obsolete. Mi meraviglio però che a fronte di una ricchezza d’acqua straordinaria qui in Calabria possa mancare l’acqua. Se non pensi al futuro e non pianifichi, questi sono i risultati. A Napoli abbiamo costituito una società di lavori, la più grande del Sud, con cento dipendenti e attualmente 140 milioni di investimento, per migliorare la rete sia di Napoli che dell’adduzione».
Dalla Calabria le è mai venuta qualche proposta di collaborazione o di lavoro?
«No, no, mai. Delle volte si richiedono degli interventi che sono più rivolti all’immagine e che non una vera compartecipazione alle idee. È singolare per un calabrese come me, spero in un cimitero a Camigliatello Sila per andarci, si farà, si faccia a tempo…».
Secondo lei, la bellezza è una risorsa della Calabria?
«No, io credo che il territorio sia una grande risorsa che però va attentamente valutata. Come Federculture abbiamo avviato un progetto di valutazione, di rating del paesaggio su parametri obiettivi. Questo sarà l’aspetto più difficile perché i finanziamenti si daranno ai Comuni che tengono all’eccellenza».
Cosa le piace della Calabria?
«Intanto rispetto al napoletano la grande differenza è la profondità umana che il napoletano ha di meno. Invece qua se si passa l’esame è duratura. Dietro la scorza c’è la possibilità di avere rapporti profondi».
Ha molti amici qui?
«Pochissimi, però ho la sensazione che si possano creare delle vere amicizie, anche in vecchiaia».
In gioventù in America lei ha fatto corse automobilistiche?
«No, facevo il pilota di aerei privati. Volavo, se serviva, anche per conto terzi».
Le cose che ama fare di più?
«Mi piace molto l’attività della Fondazione e del nostro impegno per la Calabria, che è il risultato di un dovere verso la Calabria e anche per la passione che Mirella mette in queste cose trascinandomi e obbligandomi al dovere di calabrese».
Che sarebbe stata la sua vita senza l’incontro con Mirella?
«Una vita dissoluta, come quella di mio padre fino all’incontro con mia madre. Sono stato fortunato ad averla incontrato a ventitré-ventiquattro anni».
Andate sempre d’accordo?
«No, abbiamo molti conflitti ma mai sulle scelte».
Il difetto di Mirella?
«Sogna di essere una decantatrice ma in effetti è un’accentratrice».
Il pregio?
«Una grandissima umanità, un senso del dovere e una capacità d’amore infinita».
Il suo difetto?
«Uno solo? Il mio pregio è la curiosità sia per le persone sia per le cose, che mi spinge ancora adesso dappertutto. Il mio difetto principale è aver pensato un po’ troppo o sempre a me e poco agli altri. L’egoismo è uno dei miei difetti principali. Ne ho anche molti altri».
Se dovesse dare un consiglio a chi governa la Calabria che direbbe?
«La Calabria non ce la può fare da sola. Deve rientrare in un piano strategico nazionale che sia fondato sulla cultura del progetto. Altrimenti l’Italia è destinata a un regresso sia economico che qualitativo di vita e a una futura seria povertà se non riduce i consumi invece di aumentarli».
Una visione spartana del futuro.
«Le racconto un episodio. Ero l’amministratore delegato di una società tedesca dell’Est, Zeiss Jena, che versava in condizioni pietose e che andava salvata, e vivevo tra Lipsia e Weimar, che mi piaceva moltissimo. Una delle ultime volte che andai venne con me Franco Piperno, che a modo suo c’aveva provato nel sovvertire le ingiustizie. Io guardo con rispetto ogni tentativo di cambiare l’attuale. Quando tornammo in aereo gli dissi: Franco, se tu volessi un sistema di governo che cosa sceglieresti oggi? Lui mi guardò e mi rispose: l’autodeterminazione. Pensai che era del tutto irrealistico, ma ogni tanto mi viene la tentazione che forse aveva ragione. L’autodeterminazione è un principio anarchico. Venendo da lei mi sono chiesto: che cosa devo in estrema sintesi dire? Ecco, ho un dubbio, forse… Io penso che se non ci fossero i semafori a Napoli non succederebbe nulla. Intendiamoci, penso che sia utile ridare all’individuo la propria responsabilità civile e non delegarla».
A me sembra un’utopia.
«Certo, sarà così. Però ad un certo punto se ognuno facesse il cittadino… Se la Calabria non partecipa ad un progetto di carattere generale è morta. E poi serve un cambiamento generazionale».
Non abbiamo mai parlato di delinquenza. È davvero questo il male principale di questa terra?
«È un problema che sta diventando assai grave perché è più grave l’indebolimento della struttura decisionale. La ‘ndrangheta ha adottato una strategia più di carattere internazionale che nazionale. Ed è un gran serbatoio di soldi accumulati. Mano mano si vedono degli acquisti straordinari, dei personaggi che oggi in grande evidenza, e nel tempo si vedranno sempre di più acquisizioni magari da catene internazionali di piccole filiali. Non credo che sia un meccanismo irreversibile. Con una politica forte si potrebbe anche tentare una riconversione».
In che senso?
«Riportando determinati investimenti di natura illegittima in forma legittima. Ma bisognerebbe avere molto coraggio e oggi non c’è nessuno che l’abbia. Diciamo pure che alcuni inizi di riconversione, in Campania ma forse anche in Calabria, sono avvenuti nel campo dei rifiuti o della movimentazione dei mezzi di terra con imprenditori che hanno il certificato antimafia pulito. È già un fatto che riguarda le seconde generazioni».
Più che di coraggio si dovrebbe parlare del rischio che i malavitosi così ripuliti finiscano poi con il prendere il sopravvento. Non le pare?
«Sì, però mi domando: oggi è molto diverso?».
Lei è molto pragmatico.
«Perché lei crede che oggi quelle persone non abbiano il controllo totale del territorio?».
Proviamo a finire con un po’ di speranza. Suo padre in un gesto di disperata amarezza affogò i tori per far sparire la pregiata razza di mucche. Lei ha mai pensato di far rinascere quei tori?
«No. Non ho mai rivolto lo sguardo dietro. Mai, non mi interessano le fotografie, né i filmini di quando eravamo piccoli».
La sua Calabria ora è su quella Nave del museo dell’emigrazione.
«È su quella nave. Un progetto di sviluppo si potrebbe immaginare. Ma con chi farlo?».
Lei ha due figlie. Si chiamano?
«Chiara e Sila».
Più legame di così.
«È eterno. Anche loro lo sentono abbastanza».