Il doppio cognome richiama una delle pagine più tragiche ed eroiche degli ultimi anni, lei lo porta con naturalezza e fierezza ma sarebbe un errore immaginare che il suo ruolo pubblico sia il risultato di un’attenzione dovuta più a Nicola che a lei. La senatrice Rosa Villecco Calipari è di suo un’importante donna del Sud e la storia d’amore, che continua, con l’uomo ucciso da “fuoco amico” mentre salvava con il suo corpo Giuliana Sgrena appena liberata dai sequestratori iracheni, è tra due forti personalità. Conferma, se ce ne fosse bisogno che da sempre le donne sono la risorsa umana più interessante della Calabria. E verrà sempre troppo tardi il giorno in cui irromperanno sulla scena per togliere finalmente un po’ di spazio agli uomini.

Nata a Cosenza qualche anno fa.

«Il 24 marzo 1958». 

In una casa dominata da donne.

«Papà, avvocato, morì quando avevo quattro anni. È un’infanzia strana la mia. Ero figlia unica. Rimasi con la mamma, la zia e i nonni materni, soprattutto mia nonna. Erano tre donne molto diverse tra loro».

Sua madre era casalinga?

«Sì. Era nota perché in una famiglia impegnata in politica stava dietro al padre quando era giovane. C’è l’aneddoto carino di quando mamma andò a Roma e conobbe Sandro Pertini, che, famoso per essere un uomo amante delle belle donne anche più giovani di lui, disse: Pietro, peccato che tua figlia sia troppo giovane altrimenti le avrei fatto la corte. Quando poi divenne presidente della Repubblica, ricordo di aver preso io la telefonata dal Quirinale alla morte di mia nonna – avevo vent’anni – con la quale Pertini chiedeva o di Giacomo o di Anna, la piccola che lui ricordava».

Parliamo di Pietro e Giacomo Mancini, ricordiamolo.

«Certo».

Torniamo a sua madre. Pupà?

«Era il nomignolo. Aveva tre sorelle e un fratello, fu la più coccolata da nonni e zii, e dal fratello Giacomo che aveva dieci anni più di lei. Quando era piccolina, avrà avuto una decina di mesi, e la nonna era andata a trovare il marito al confino in Sardegna, era stata molto male, piangeva moltissimo, neanche la balia riusciva a tranquillizzarla, per cui mio zio Giacomo la teneva sempre in braccio. Il legame tra loro nacque allora. Lei lo ha sempre adorato».

Passiamo a sua zia.

«Zia Menuccia era una donna molto autoritaria e forte. Aveva scelto di non sposarsi. Vivere sola in Calabria – la ricordo negli anni Sessanta – allora non era una cosa semplicissima. Nello stesso tempo era una donna fragilissima, perché all’esterno dava l’impressione di una donna dura, poi all’interno dava l’idea di una solitudine affettiva, l’unico affetto vero ero io».

E poi la nonna, una De Matera.

«Nonna Peppina è stata per alcuni aspetti la personalità a cui mi sono rifatta di più. Sembrava molto fredda, invece è riuscita a far passare una serie di messaggi educativi di forza e di determinazione. Ancora a novant’anni, gestiva affetti e relazioni pubbliche. Mi colpiva il suo coraggio».

Con il marito antifascista in pieno ventennio ce ne voleva?

«Infatti. Rimase sola, con cinque figli, con una situazione economica non semplice tanto che fu aiutata dal fratello in quella fase. Pensi a questa donna che partiva per la Sardegna in anni in cui peraltro non era facile viaggiare. Per di più nonno e nonna nascevano da famiglie molto differenti. Lei veniva da una famiglia patrizia, si innamorò perdutamente di mio nonno, ho letto le stupende lettere d’amore che si scrivevano. Ricordo che avevo diciotto anni e lei mi disse: un matrimonio funziona quando c’è la passione. Una passione che tra lei e il marito non era mai finita. Avevano un rapporto paritario assoluto, una cosa non comune a quell’epoca».

Giacomo Mancini amava raccontare la fierezza di sua madre, di quando gli insegnava a cantare la Marsigliese.

«Nonna parlava correttamente il francese. E io ho preso da lei anche questo: parlo non bene inglese, parlo correttamente francese. Da lei ho preso la caratteristica di essere dolce e comunicativa, ma anche la capacità di distacco e di giudizio verso gli altri che si trasforma in disprezzo quando una persona non mi piace. Mia nonna non camuffava, era molto nitida». 

Solo donne, dunque, nella sua formazione?

«No. A parte mio zio Giacomo che, oltre all’affetto, era un po’ il mito, c’era un uomo nella mia vita, che è stato il secondo marito di mia madre. Gaspare Turcaro, primario di neurologia per vent’anni a Cosenza, che è ancora vivo e che nella mia adolescenza ha avuto un ruolo. Un intellettuale che veniva dall’università di Napoli, aveva fatto ricerca, arrivò per amore in Calabria, perché mia madre non si sarebbe mai allontanata da Cosenza. Lui ha svolto una funzione molto viva nella Cosenza di quegli anni».

Anni di fermento?

«Anni ricchi di dibattito, di confronto politico, di grande apertura della città. Fiorivano centri studi, si facevano convegni in continuazione, si era aperta la libreria Feltrinelli nella zona antica. Gaspare influì molto nel mio percorso culturale suggerendomi libri, discutendo». 

Visto che parliamo di uomini che per lei hanno contato, torniamo indietro a suo nonno Pietro. 

«A nonnino. Un omone con un vocione ma per me era nonnino».

Pietro Mancini nell’Italia uscita dal fascismo poteva aspirare a qualsiasi incarico in Italia. Invece si ritirò dalla vita pubblica non appena suo figlio Giacomo si candidò alla Camera.

«Mi vuol far fare riferimenti alla politica di oggi?».

No, parliamo di suo nonno.

«Con Giacomo aveva difficoltà a comunicare, tra loro si scrivevano lettere. Quanto a me, con lui il contatto ero sensoriale, le mani, la voce, perché non vedeva. Mi colmava di tenerezze e complimenti. Sapevo che era un uomo importante. Gli leggevo il quotidiano. L’uomo politico l’ho scoperto dopo, leggendo quello che lui o altri hanno scritto, soprattutto i suoi discorsi sulla Costituzione. In lui ritrovo una grande etica politica, una politica alta, una capacità non di scontro ma di congiungere. Il 17 marzo 1947, nel commentare i primi sette articoli della Costituzione, disse: tra noi ci sono stati scontri anche violenti, però poi siamo addivenuti tutti a una decisione comune. Che nasceva dalla volontà di costruire uno Stato, una Repubblica condivisi. E questo è il mio principio morale». 

Lei ha avuto la fortuna di vivere in un ambiente familiare molto ricco e vivo. Era così anche la Cosenza di allora?

«La mia famiglia è stata sempre un po’ atipica. In essa molti temi di oggi c’erano tutti: la laicità, la proiezione al futuro, l’intensa discussione quotidiana su tutto quello che avveniva in Calabria e oltre. Però, c’erano tante famiglie che hanno segnato la città positivamente, penso a Guarasci, a Misasi, a Principe, storie e culture politiche diverse che consentivano un dibattito molto fervido». 

Gli studi dove?

«Il liceo Telesio e poi l’università ad Arcavacata. Il campus era nato nel 1972, io entrai nel ’76. C’erano ancora grandi nomi, Andreatta, Silos Labini, preside di scienze economiche dove mi iscrissi e mi laureai. È stata una bellissima esperienza, anche se all’inizio contò la volontà familiare. Influenzata dalla personalità del mio patrigno, volevo fare medicina. Ho conosciuto ad Arcavacata molti docenti a cui sono ancora legata come Giovanni Mazzetti che allora ci faceva studiare Keynes. Marco Biagi è stato mio professore di diritto del lavoro, giovanissimo, molto carino, le studentesse se ne innamoravano, parlava già di part time ma ci insegnò lo statuto dei lavoratori ed era rigorosissimo quando ci valutava».

Che voto le diede?

«Ventotto. Ricordo anche docenti calabresi. L’attuale rettore, Latorre, è stato mio professore di statistica generale. Con Renato Guzzardi diedi il primo esame, quello di matematica».

La tesi? 

«Nel 1982, in diritto pubblico dell’economia, sulle partecipazioni straordinarie nel Mezzogiorno e le Regioni. Avevo lavorato per un anno pensando alla possibilità di continuare ricerca nell’università». 

Rimase ad Arcavacata?

«Per un breve periodo per partecipare a un concorso. Avevo preso 110 e lode e la sera a cena i professori mi proposero di restare. I candidati erano sedici, fui la sesta, i posti erano due. Quindi, andai in Germania per un contratto con l’università di Saarbrucken. Una città molto simile a Cosenza, ha anche il fiume, in una regione depressa, la più povera. Volevo rompere il cordone ombelicale con la famiglia, svezzarmi e costruire una mia identità».

Provava a camminare con le sue gambe?

«Prima di partire, esattamente la sera del quattro marzo 1983, incontrai a una cena mio marito, che era arrivato a Cosenza nel 1981. Un colpo di fulmine. Non ho desistito. Tra l’altro mio marito era fidanzato ufficialmente e stava per sposarsi, mancavano due mesi al matrimonio. Fece saltare tutto nel giro di quindici giorni. Io comunque partii per la Germania. Ci vedevamo nei weekend a Como». 

Le chiedeva di tornare in Calabria?

«No. Questa forse è stata la forza del nostro rapporto di coppia. Il grande rispetto delle scelte dell’altro da parte di entrambi. I tempi non erano così pronti per le convivenze per cui lui mi propose: stiamo a 1500 chilometri di distanza, almeno possiamo stare insieme sposandoci. Un grande gesto di generosità e di fiducia».

Lei cosentina, Nicola reggino. Una bella miscela.

«Molto diversi. Mio marito aveva delle caratteristiche tipiche dei reggini, era una persona chiusa e introversa, molto diffidente. All’inizio. Con me no. Siamo riusciti quasi subito a entrare in comunicazione profonda. Mi definiva la sua migliore amica. Avevamo anche differenze culturali. Nel 1970 lui aveva difeso Reggio capoluogo».

Matrimonio nel duomo di Vibo Valentia. Come mai?

«Prima ci dovevamo sposare in casa, poi ci furono dei problemi familiari. Così decidemmo di sposarci a mezza strada in modo da rendere più facile l’arrivo delle rispettive famiglie».

Dirigeva già la squadra mobile di Cosenza?

«No. Era il vice di Salvatore Lanzaro. Era arrivato da Genova su richiesta del questore dell’epoca. Cosenza la conosceva molto poco, però riuscì ad inserirsi abbastanza velocemente nella città pur col suo carattere timido. Apprezzava molto la compagnia degli amici veri, era sempre un passo indietro, era molto riservato, sì riservato».

Lo si capiva anche vedendo le sue immagini.

«Era una persona molto elegante nei tratti, nei modi, nel rapportarsi con gli altri. Forse questo è il motivo per cui i giornalisti romani lo definivano un poliziotto atipico. Aveva un aplomb piuttosto inglese, era molto ironico, ma era anche molto reggino per il sarcasmo, frasi brevi ma coincise».

Come fu la sua esperienza cosentina?

«Non facile. Perché Cosenza non era nel periodo più tranquillo. In quegli anni ci furono scontri tra i clan, tra la vecchia e la nuova emergente ‘ndrangheta. Si sosteneva che la ‘ndrangheta non esisteva, quella vera era reggina, al massimo nella Locride. Invece Nicola cominciò a sottolineare il contrario e diede anche una collaborazione in termini statistici a Pino Arlacchi che allora era all’università, per dimostrare che c’era stato un passaggio dal gangsterismo all’associazionismo ‘ndranghetistico. Furono anni abbastanza caldi». 

Gli anni dell’omicidio di Sergio Cosmai, direttore del carcere.

«Mi toccò molto emotivamente. Ricordo ancora tutto: il giorno in cui è avvenuto, il come, il dolore nostro, poi l’affanno di Nicola anche dopo anni a Roma quando fu al centro Criminalpol. E ricordo queste cose perché ci fu un incrocio strano. Cosmai fu ucciso, dopo poco tempo Nicola fu sotto scorta perché cominciavano le minacce. Fummo costretti a fare un’esperienza all’estero più per motivi di prudenza che per altro».

Dove andaste?

«In Australia. Lui lavorò nell’International Crime Authority sulle ‘ndrine calabresi che controllavano la droga che partiva da lì e arrivava sulle coste ioniche. Era il 1988».

Poi tornaste in Italia.

«A Roma, Nicola passò alla squadra mobile. Io frattanto avevo fatto una breve esperienza a Cosenza come commercialista nello studio Scarnati, era nata la prima figlia. Decisi di entrare in pubblica amministrazione. Non che mi piacesse molto, però in quel momento era la scelta più razionale. Entrai al ministero delle finanze dove ho lavorato per undici anni. Un’esperienza molto formativa, ma la più dura è stata quella successiva di quasi sette anni alla presidenza del consiglio dei ministri. Era l’aprile ’99, lo scriva, per piacere, perché non sono andata lì con Berlusconi. Intanto era nato il mio secondo figlio. Le sottolineo la data: 4 marzo 1993».

Perché?

«Dieci anni dopo la conoscenza con Nicola, che avvenne il 4 marzo 1983. Mio figlio nacque il 4 marzo 1993. Mio marito morì il 4 marzo 2005. Una coincidenza impressionante».

Il fato?

«Non ci credo, però la coincidenza l’ho notata. Sono fortemente convinta del libero arbitrio».

Nel frattempo suo marito entrava nei Servizi. Lei come si trovò?

«Io che sono una persona molto comunicativa mi trovai in un ambiente ovviamente molto riservato, totalmente chiuso all’esterno, con logiche di estrema discrezionalità, dove tutto avveniva senza alcun parametro ma solo con criteri soggettivi. A un cambio di direttore ti puoi trovare dall’altra parte. Una realtà che cambierà con la riforma a cui stiamo lavorando noi e le forze di opposizione». 

Nicola come si trovò in questo mondo?

«Il momento difficile fu quando col cambio del capo della polizia, il prefetto Masone a cui era molto legato, con Giovanni De Gennaro, col quale pure aveva un ottimo rapporto, fu in qualche modo costretto a fare dei passi indietro. Questo può capitare in qualsiasi amministrazione, e naturalmente crea frustrazione e insoddisfazione. Anche a Nicola, soprattutto perché non c’era alcuna motivazione. Tuttavia mio marito era non solo riservato ma anche rispettoso dei ruoli istituzionali per cui accettò il cambiamento. Lui allora stava al Servizio Centrale Operativo, per un periodo lavorò come consulente ministeriale con Alessandro Pansa, attuale prefetto di Napoli, che ricordo sempre con affetto. Però Nicola era un operativo e il ministero gli stava stretto. Stette anche male fisicamente».

Quando ebbe l’incarico che poi doveva portarlo all’operazione più tragica?

«Prima gli venne offerto di andare a gestire l’ufficio immigrazione della questura di Roma, un ufficio disastrato, con quarantamila fascicoli fermi, corruttela diffusa. Riuscì in quello che sapeva fare benissimo: ridare regole. La sua speranza comunque era quella di tornare a essere operativo. Ma passava di delusione in delusione, e questo lo fece soffrire. E allora scelse il Sismi, perché era una sfida e perché poteva essere una cosa importante per il paese».

E così si occupò di sequestri nell’area più calda del mondo. 

«Nell’area mediorientale è andato almeno per un anno e mezzo». 

Lei era preoccupata?

«Quando si fanno scelte di condivisione di questo tipo non si può non essere consapevoli dei rischi che l’altro corre e che, quindi, indirettamente anche tu corri. Di rischi – ricordi l’esperienza cosentina – mio marito ne aveva corsi tanti nella sua vita. Però, devo dire che – e posso dirlo anche per le mogli di tutti coloro che fanno questo tipo di lavoro – la paura viene accantonata, rimossa altrimenti non si potrebbe vivere».

Ma lei in quell’anno e mezzo rimosse la paura?

«La mia ansia aumentò. E non posso dire che quando era assente, ed era molto assente non solo quando andava in Iraq ma anche in altri paesi dove le situazioni non è che fossero più semplici, non ho avuto paura. La esprimevo poco perché non ho mai voluto condizionarlo. Non gli chiedevo di rimanere, forse oggi è il mio unico cruccio soprattutto alla luce di quello che è avvenuto dopo. Aveva un ruolo molto alto e non è che doveva giocare lui sempre in prima persona. Questo avrei dovuto chiederlo come moglie e come madre dei nostri figli. Ora sento la colpa di non essere stata più invasiva, di non aver interferito». 

Sapeva che faceva?

«Sapevo tutto. Sapevo dov’era e cosa faceva. Ogni tanto mi chiamava, cercava di mettersi in contatto telefonico, a volte mi faceva capire che sperava di chiudere le trattative».

Poi quel 4 marzo 2005 le arrivò la notizia. Come?

«Quella sera ero uscita un po’ prima dal mio ufficio perché era il compleanno di mio figlio. In auto ho fatto una telefonata sul cellulare di mio marito che avevo sentito la mattina quando aveva cercato il bambino per fargli gli auguri. Poi non l’avevo più sentito. Ho chiamato e ho sentito una voce in arabo, quella che normalmente dice che il numero non è raggiungibile. Ovviamente non capivo perché ma sapevo che era in Iraq quando sentivo questo tipo di voce. Ed era in Iraq. Poi lui mi chiamava attraverso altri cellulari. In quel momento non era acceso e dopo ho capito perché. Io ho chiamato nel momento in cui lui è stato ucciso. Era all’incirca proprio quell’ora. Gli ho mandato un messaggio che probabilmente non ha mai ricevuto. Poi sono arrivata a casa».

Chi glielo ha detto?

«Ho trovato la casa piena di persone. Ho capito al volo che qualcosa di molto grave era successo. Ci hanno messo tanto a dirmelo, nessuno aveva il coraggio di dirmi la verità».

Tanto quanto?

«Più di quarantacinque minuti. Dicevano che aspettavano delle conferme. I loro occhi mi sfuggivano, non mi guardavano. Io pensavo che era stato rapito dagli iracheni. Sapevo che la Sgrena era stata liberata perché mia figlia mi chiamò per dirmelo. La notizia uscì prima, non ho mai capito come Al Jazira abbia fatto ad averla. Pensavo agli iracheni, vedevo scene di decapitazione, mai e poi mai avrei immaginato quello che era accaduto. Poi mi hanno parlato di un incidente di macchina. Allora ho pensato a un’autobomba. Solo alla fine mi dissero: no, hanno sparato sulla macchina. Anche lì ho pensato agli iracheni. E loro: no, sono stati gli americani. Non riuscivo a capire. Come gli americani? Perché?».

Tutta l’Italia ebbe un moto di commozione per il gesto di suo marito che morì per coprire col suo corpo Giuliana Sgrena.

«Tutta l’Italia, ma anche all’estero. È un caso che ha suscitato non solo un’emozione ma anche una riflessione sulla mancanza di diritto internazionale di alcuni paesi».

Ha pensato mai che suo marito sarebbe vivo se si fosse comportato diversamente?

«Il comportamento di mio marito non mi ha stupito. Nicola è stato ricordato come una vittima del dovere. È un eroe appunto per il suo gesto di sacrificio e generosità. Le dico che non poteva essere che questo. Lo hanno capito anche i suoi figli. Nicola veniva da una famiglia molto cattolica, ha fatto lo scout per moltissimi anni – a Reggio c’è una delle comunità scout più grosse -, aveva un sistema di valori che va oltre l’adempimento del dovere, che in quel caso era già compiuto. Quello che ha fatto era una risposta ai suoi valori morali. Non è stata una reazione istintiva, ma estremamente razionale. Se fosse stato istintivo avrebbe fatto quello che ha fatto chi guidava, per esempio, quello che ha fatto anche Giuliana. So oggi che la perizia balistica ha dimostrato che lui si è piegato su Giuliana». 

Cosa si augura?

«Un primo successo, impensabile due anni e mezzo fa, è chi si stia celebrando un processo. Il secondo è che la presidenza del Consiglio dei ministri si è costituita parte civile. Mi auguro che si possa accertare la verità e condannare tutti i responsabili». 

Come si supera una tragedia come la sua? Con la responsabilità verso i figli?

«No, mi perdoni. C’è una responsabilità verso i ragazzi ma se fosse questo avrei fatto la mamma. Io ho temuto che si volesse far cadere il silenzio sul caso che era molto, molto scomodo. Le mie scelte successive nacquero da una reazione da cittadina che chiedeva legalità. Sono andata in giro per l’Italia, e durante questi incontri quando sostenevo la necessità di rispettare le regole, notavo che la gente mi chiedeva di continuare: lei ha coraggio, noi siamo con lei». 

E così ha deciso di impegnarsi attivamente in politica?

«Quando mi proposero di candidarmi, dopo essermi consultata con i miei figli che per me sono le persone più importanti, decisi autonomamente e accettai la candidatura leggendola come una continuità di questo impegno».

È anche una testimonianza?

«No, attenzione, è un impegno. Se lei guarda la mia attività in Parlamento vedrà che la mia non è una testimonianza. Anzi per assurdo da quando ho questo ruolo io non ho mai parlato da senatrice del caso Calipari. Ho sempre distinto i ruoli. È uno stile». 

Non pensa di essere un simbolo?

«Non voglio esserlo. Qualcuno – e non chi mi ha candidato ma chi non voleva che mi candidassi – ha cercato di chiudermi in questo ruolo. Anche in Calabria c’è chi mi ha definito donna-simbolo o donna-immagine. Non lo sono. Io sto lavorando per la politica, credo nella politica, ho avuto il coraggio di fare le mie scelte, mi sono tesserata nei Ds, sono impegnata nella costruzione del Partito Democratico perché credo in questo percorso».

Rosa Villecco Calipari. Anche nel cognome un impegno che continua?

«È chiaro che quello che sono oggi è il frutto di tutta un’esperienza, anche quella drammatica, di una vita».

I suoi figli come vivono questo suo impegno?

«I miei figli hanno condiviso la scelta, l’hanno appoggiata e sostenuta. Mia figlia, la più fragile, mi disse: mamma, ti è sempre piaciuta la politica, perché dovresti dire di no? Certo, i miei figli non vivono una situazione facile. Loro vogliono rimanere nel privato, per loro la mamma lavora, ha solo cambiato lavoro. Mi vorrebbero più con loro, però capisco che sono fieri e orgogliosi della loro mamma».

Un ricordo di Nicola?

«… no… vuole un ricordo, un fatto?».

Qualsiasi cosa.

«Nicola non lo ricordo. Nicola vive con me. Per me non è mai morto. Lui e io siamo insieme. Non lo penso come una persona che non c’è più. Le dico una cosa. Io avevo paura degli elicotteri. Nicola amava il volo, amava l’acqua, amava il mare. Non ho mai voluto volare in elicottero, l’unica volta che ci sono salita ho avuto il panico. Bene, io oggi salgo sugli elicotteri militari e sono tranquillissima e mi sembra che io sia anche lui. Quindi, Nicola c’è».