Accusato di delitti terribili – ventitré omicidi, compreso quello di Aldo Moro -, ritenuto uno degli ispiratori del terrorismo o, se si preferisce, un “cattivo maestro”, ha consumato la sua vita tra lotte e insegnamento, tra latitanza e carcere. Personalità complessa e per tanti versi enigmatica, ha il fascino, per molti perverso, dell’intelligenza e dell’affabulazione, ha un rapporto forte con la Calabria dove è nato, lavora e vive. Odiato, amato, temuto, ricercato, sospettato, Franco Piperno custodisce segreti importanti della storia italiana, qualcuno si intuisce tra le parole, i toni, gli accenti, i puntini sospensivi, il movimento degli occhi. Che si illuminano quando parla di una ragazza dal nome strano, Svava.
Dove nasce?
«A Catanzaro nel 1945».
Famiglia borghese?
«Mio padre faceva il direttore didattico. Discendeva da ebrei venuti in Italia subito dopo l’Unità d’Italia nella zona del Papato: Pipero diventò Piperno con le leggi razziali del fascismo. Mia madre era della Sila dove il mio bisnonno, che aveva fatto un po’ di fortuna, aveva comprato delle terre, e mio nonno, quando fu costruita la diga dell’Ampollino, si ritrovò un emporio come quelli orientali dove si vendeva tutto, specialmente agli operai del Nord che lì lavoravano».
Dove ha studiato?
«A Catanzaro, l’università l’ho fatta a Pisa, poi scuola di specializzazione a Roma, ho insegnato al Politecnico di Milano, sono ritornato qua, un po’ prima dei guai giudiziari mi sono trasferito a L’Aquila».
Che città era Catanzaro?
«Da ragazzo ho avuto un fenomeno di rigetto della mia città. Mi sembrava ipocrita. Mi sono iscritto alla Fgci – ero per la verità l’unico iscritto, – e a parte alcuni funzionari di partito, persone autentiche che avevano occupato le terre, c’erano avvocati comunisti, che per quanto considerati al pari dei criminali dai benpensanti erano comunque dei comunisti addomesticati».
Perché decise di iscriversi alla federazione dei giovani comunisti?
«Intanto per il venir meno del mio rapporto con la religione. E poi tra il ’57 e il ’58 sono andato da un mio zio a Melito Porto Salvo che aveva un po’ di terra e lì ho visto i miei cugini e altri ragazzi lavorare in condizioni dure, a piedi scalzi. Mi interessava meno la cultura contadina dell’insalata di pomodori o della marmellata d’amarene».
Fu la scoperta dell’ingiustizia?
«Soprattutto dell’ipocrisia pubblica. A scuola a Catanzaro quando sollevavo dei problemi – c’era anche Olivo, l’attuale sindaco – il preside non mi rispondeva, semplicemente mi puniva. Da piccolo ho letto Campanella e mi sorprende che nel descrivere il Sud non gli viene mai in mente di parlare di povertà e di mancanza di lavoro, dice giustamente che il problema è la menzogna e l’ipocrisia del Sud. Veda, qui in questa università di Arcavacata la maggioranza dei ragazzi sono considerati nullatenenti ma arrivano con auto di grande cilindrata. Al Sud, non solo in Calabria, si “chiagne e fotte”».
Un giudizio pesante sui meridionali.
«No, ci sono anche valori positivi come l’amicizia, la solidarietà, la famiglia, ma la dimensione pubblica è inesistente o quasi».
Come nasce la sua passione per la fisica?
«Io ed altri amici subivamo l’influenza straordinaria di Giovanni Mastroianni, un professore di filosofia del liceo di Catanzaro. E fino all’ultimo sono stato indeciso tra filosofia o fisica. Non mi piaceva di mio padre, professore di filosofia, il ragionare in libertà che invece in fisica è costretto alla concretezza. Mi sembrava che la fisica fosse una filosofia ma meglio fondata. Evidentemente mi sbagliavo, perché quando andai a fare il concorso in Normale mi aspettavo che esigessero una dissertazione, non so, del tipo filosofia della natura, e invece mi chiesero un calcolo su come si orienta una vela se c’è un vento o una corrente di un certo tipo o di un altro».
Pensa di aver fatto una scelta sbagliata?
«No, la ritengo ugualmente sbagliata di come se avessi fatto filosofia. All’università ho deciso di restare a fisica perché ho pensato che a quel punto un errore valeva l’altro».
Alle sue spalle c’è la foto di Einstein. È un caso?
«Einstein tra i fisici del Novecento è stato una figura guida, per la lotta al nazismo ma anche per la posizione contro l’uso delle armi atomiche e per i suoi atteggiamenti libertari. Un grande fisico e una straordinaria figura morale. Lui è uno di quei quattro che hanno salvato l’onore della fisica abbastanza compromesso dopo la brutta luce della bomba atomica su Hiroshima».
Perché si iscrisse alla Normale di Pisa?
«Ho seguito il consiglio del professore di filosofia e feci il concorso in Normale. Dopo due anni sono stato cacciato perché avevo preso due ventiquattro, e il massimo consentito era prenderne uno solo. Nessuna discriminazione. È una scuola molto selettiva, del resto ti davano da mangiare, da dormire e anche diecimila lire al mese».
Comunque non ha abbandonato il suo impegno politico?
«A Pisa ho conosciuto un altro partito comunista. Molti di quei dirigenti avevano fatto la Resistenza, c’era soprattutto l’organizzazione delle Case del Popolo, il ferroviere, il professore universitario, c’era un’aria straordinaria che ancora oggi rimpiango, in Toscana il partito comunista era davvero inserito nella società a differenza della Calabria dove c’erano figure importanti ma che io definirei liberali piuttosto che comunisti e socialisti».
Quando si stacca dalla casa madre comunista?
«In realtà abbastanza presto. Io e altri ventidue studenti di Pisa fummo radiati dal partito nel 1967. La rottura con il partito era avvenuta già nel 1964 quando facemmo la prima occupazione ponendo, con grande scandalo dei docenti comunisti, questioni come il controllo degli studenti sulla prestazione didattica dei professori. Non c’ero solo io, c’era Adriano Sofri, c’era un’altra figura importante anche se meno conosciuta, Gianmario Cazzaniga. Avevamo sollevato in termini nuovi il tema della scienza e poi da lì siamo passati alle fabbriche dove davamo volantini della sezione universitaria che il partito non voleva. In una fabbrica della Marzotto lavorammo contro i bassi salari mentre il partito comunista faceva le manifestazioni contro le basi Nato. E fui radiato. Un giorno Giancarlo Pajetta mi disse che dovevo considerarmi un fortunato perché la radiazione era meno della espulsione. Ci chiesero di fare autocritica, ma le cose ormai avevano preso un’altra piega».
Che avrebbe portato al terrorismo.
«Sì, ma io mi muovevo in altro modo. Nel 1976 venni a Cosenza, e qui incontrai Berlinguer, che avevo conosciuto a Parigi nel Maggio Francese, che infatti venne a trovarci con Alberto Jacoviello, giornalista dell’Unità e marito di Maria Antonietta Macciocchi che era corrispondente da Parigi del giornale. Non è che non facessi politica ma ero su un’altra strada».
Sta di fatto che lei ha dovuto rispondere di accuse pesanti?
«Cinquantadue per la precisione. Tra i capi di imputazione c’erano ventitré omicidi, diverse rapine, altre cose che non ricordo e anche intralcio al traffico. In Canada il giudice, che esaminava la domanda di estradizione, disse: gli italiani non si sono scordati niente».
Com’è finita giudiziariamente?
«La maggior parte delle accuse me le hanno tolte subito, poi hanno eliminato una prima volta Moro ma, quando sono tornato in Canada, per rendere più convincente l’istanza di estradizione lo hanno rimesso».
Lei era accusato di essere l’ispiratore di via Fani, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro?
«Al giudice dissi subito che molti dei delitti addebitatimi erano avvenuti quando non ero in Italia. Lui disse: ma noi non la accusiamo di essere l’esecutore materiale. Risposi: ma così potete accusarmi di tutto. E lui: le daremo tutto. Così avvenne, ma fu una mossa eccessiva perché all’estero hanno avuto dei dubbi sulle accuse».
Ci parla di via Fani?
«Ero in attesa di partire per l’America. Nel frattempo sequestrano e uccidono Moro, e accusano una mia moglie, Fiora Pirri Ardizzone, di essere materialmente presente a via Fani. Lei aveva gli occhi a mandorla e una delle ragazze che conoscevo, Adriana Faranda, aveva anche lei gli occhi a mandorla».
Ma quando ha saputo di via Fani che ha pensato?
«Per dirla tutta, che loro facessero qualcosa di eclatante me l’aspettavo perché la crisi dei gruppi extraparlamentari aveva fatto sì che fra i militanti che si occupavano del servizio d’ordine, che erano quelli più propensi allo scontro e qualche volta maneggiavano anche le armi, c’era stata un’emorragia tanto da Potere Operaio tanto da Lotta Continua verso le Brigate Rosse. Sapevo che loro a Roma avevano una serie di contatti ed avevano determinazione e una certa preparazione. Che poi l’obiettivo fosse Moro o Andreotti… Sa, io da tempo pensavo che avrebbero puntato a Andreotti, perché abitavo a via dei Coronari e vedevo dalla finestra che Andreotti (e anche Giacomo Mancini) andava a piedi dal Parlamento a casa sua, alla fine di Corso Vittorio Emanuele. Mi ha sorpreso che sia stato colpito Moro ma non il fatto che avessero fatto una cosa alta e drammatica».
Ha pensato che potevano risalire a lei?
«Quando hanno preso mia moglie era evidente che sarebbero arrivati a me o a Toni Negri. Non subito, ma ci arrivarono. Lei faceva delle cose veramente rischiose. Ma io quando sono venuto a Cosenza e mi hanno affidato il nuovo dipartimento di fisica, ero completamente preso da questa attività straordinaria e non pensavo ad altro. E poi ho avuto una rottura, che è stata anche una rottura personale, con mia moglie per il fatto che lei era una di quelle compagne che resistevano».
Rottura perché non condivideva la lotta armata?
«In realtà io nel 1973, con la crisi del petrolio, mi ero reso conto che era cambiato lo scenario di classe. Mi aveva impressionato che la quota di assenteismo dal 20-23 per cento fosse scesa al 2-3 per cento. Le cose in Italia erano cambiate. Potere Operaio si era sciolto. Mentre nel ’68 tra gli operai della Fatme di Roma eravamo più forti della Cgil e sostenevamo la paga uguale per tutti. Pensavamo di potercela fare. Intanto erano nati i consigli di fabbrica, poi la crisi del petrolio e il mutamento profondo, di cui si ebbe piena cognizione nel 1980 con la protesta dei quadri dirigenti della Fiat».
I quarantamila in piazza a Torino…
«Tempo fa a casa di Maurizio Barracco ho incontrato Cesare Romiti, che si ricordava di quegli anni e mi ha detto: voi non avete idea di che forza avevate nelle fabbriche. Mi ha raccontato che in quegli anni arrivò una delegazione giapponese e loro la mandarono in giro da sola nella fabbrica perché gli operai, se vedevano lui e Agnelli, avrebbero lanciato bulloni».
Quando tempo è stato in carcere?
«Con i premi ho fatto otto mesi dei due anni di condanna, una parte a casa mia».
Condannato per che cosa?
«Per associazione sovversiva. Credo di essere l’unico italiano condannato per questo reato. Anche mia moglie ha avuto lo stesso reato ma le sono stati addebitati anche reati specifici».
Si lamenta?
«Per dieci anni sono stato fuori Italia. Ma non posso lamentarmi. L’università, sia pure con molte resistenze, mi ha ripreso. Mi è stata tolta subito l’interdizione dai pubblici uffici. Ciò che mi offende è che mi avevano accusato di fatti gravissimi come ventitré omicidi. Cosa possibile quando c’è una guerra civile, ma erano fatti in cui non c’entravo. Loro i comunisti – casa di mia suocera per rapporti familiari era frequentata da Emanuele Macaluso – sapevano benissimo che non c’entravo, ma mi ci hanno tirato dentro anche sul tema della trattativa per liberare Moro».
Conobbe Giacomo Mancini in quella fase?
«Giacomo è una conoscenza che risale al liceo. Il mio professore di greco, un socialista, si chiamava Riolo, ci portò ad un processo per diffamazione contro Mancini intentato dal presidente della Cassa di Risparmio locale. Gli strinsi la mano. Fu condannato a centoventimila lire di multa, per il giudice un modo di dire che aveva ragione. Lui non aveva vinto, ma per noi aveva vinto. Poi l’ho perso di vista».
Fino a quando?
«Erano passati molti anni, io ero segretario nazionale di Potere Operaio e Lino Jannuzzi, molto amico di Giacomo, mi ha cercato perché Giacomo voleva parlarmi. Sono andato nel suo studio a via Della Croce. C’erano i moti di Reggio. Lui aveva qualche preoccupazione sui fascisti, noi invece pensavamo che bisognava stare fra la gente. C’era anche un cattivo rapporto tra lui e la città di Reggio. Non se ne fece niente. Poi fui a pranzo a casa sua a piazza Cairoli. L’ho di nuovo perso di vista. Quando sono venuto qui, il primo anno, mi ha invitato per il Capodanno a casa sua. E siamo diventati amici. Ho fatto anche il suo assessore».
Che giudizio ne dà?
«Non vorrei esagerare con la retorica, ma lui era uno statista. Ho conosciuto Ingrao, che mi ha sposato, ho conosciuto altri dirigenti comunisti, ma Giacomo aveva un’esperienza di governo. Ho avuto l’impressione che fosse un politico che non si piegava, poi magari non affermava tutte cose giuste. Nell’orazione funebre ho detto che non ritengo Giacomo un socialista per come io intendo la parola».
Lui cosa apprezzava di lei?
«Stimava la mia indipendenza di giudizio, era affascinato dal fatto che mi lasciassi prendere dal ragionamento, che è anche il mio guaio».
Era spregiudicato?
«Aveva la spregiudicatezza del borghese meridionale. Grande cultura accompagnata da grande cinismo».
Lei ha fatto l’assessore alla cultura a Cosenza. Organizzò molte feste?
«Soprattutto la cosa buona fu quella di recuperare il centro storico prima che ci fossero i finanziamenti. Le famiglie patrizie erano già tutte andate via, quello era diventato il luogo della delinquenza. Abbiamo cominciato a inventare delle ricorrenze, come Carlo V che in realtà era venuto a gennaio e noi lo celebrammo a giugno, abbiamo fatto “I falchi di Federico”, tutte cose che avevano il carattere di mirabilia. Era un modo per dire alla gente: guardate che avete una storia. E Cosenza si prestava perché è stata una città libera, al contrario di Catanzaro e Reggio».
Cosenza è un po’ orfana di Mancini. La sua assenza è una presenza molto forte?
«Sì, è senz’altro vero. Con Giacomo ero amico ma anche qualcosa di più, quasi un parente perché lui mi ha anche protetto personalmente. Premesse tutte queste cose, dico, come farei con mio padre, che tuttavia Giacomo proprio per la formazione di alto borghese aveva anche un fondo autoritario. Intendiamoci, sto parlando di una personalità notevole. Però, e l’ho detto anche a lui, malgrado abbia contato moltissimo in questa città alla fine non è riuscito, salvo suo nipote – è una brava persona, ma è più un caso di familismo – a lasciare una scia di persone. Perché era una persona che tendeva ad accentrare tutto e, salvo rari casi come il mio, lui non sopportava chi frapponeva ostacoli. Lo faceva senza calcolo. Però, era una personalità che alla fine schiacciava, per cui o stavi con lui o contro di lui. Questo è stato il guaio per la città. Forse il merito maggiore di Giacomo sarebbe stato che la città non avesse avuto più bisogno di una personalità così grande come la sua. Come dice Brecht, guai al paese che ha bisogno di eroi».
Lei è anche grande amico di Eva Catizone, che raccolse l’eredità di Mancini.
«Io conoscevo e collaboravo con il padre di Eva. Lei era piccolina, avrà avuto nove-dieci anni. L’ho vista crescere, poi sono andato in Canada. Quando sono ritornato, lei è venuta alla nostra radio Ciroma. Con lei Giacomo fece una mossa intelligente: una figura della borghesia cittadina, giovane e donna, alla guida della città».
A proposito di donne lei ne ha avuto molte. Ma non è di questo che è invitato a parlarci, semmai del frutto di una di queste storie. Lei ha scoperto di essere padre a sessant’anni. Ce lo racconta?
«Ho una figlia, Svava, di ventidue anni. Per me è stata un’esperienza unica, anche incredibile. Sapevo di avere una figlia, ma finché all’età di sedici anni non si è fatta viva non la conoscevo. Avevo degli amici che ogni tanto mi parlavano di lei. Essendo un irresponsabile, fin da ragazzino ho pensato di non volere figli e in tutti i modi ho sempre evitato di averne, invece questa signora, una canadese sposata con un islandese, ha deciso di tenerla perché non aveva figli e aveva difficoltà ad averli con il marito. Tutto questo accadeva quando ero in Canada. Un giorno sul computer ho trovato una mail in francese di una che diceva che voleva venirmi a trovare. All’inizio ho pensato che fosse una tipa che avevo conosciuto. Non solo non le ho risposto, ho anche evitato di leggere le altre lettere. A un certo punto c’erano troppi messaggi andati indietro e lei mi ha mandato una mail: sono tua figlia. Ho avuto una commozione vera. L’ho chiamata e pian piano siamo diventati amici. È una persona straordinaria».
Svava ha già avuto grattacapi politici e giudiziari. Questione di Dna?
«È una no global, è stata anche arrestata alle manifestazioni contro il G8. Evidentemente, lei sapendo che io mi sono impegnato per fare un po’ di male in giro, ha pensato di emularmi… Ma sono cose di ragazzi. In cambio va molto bene. Sa, io poi sono un piccolo borghese e la prima cosa a cui tengo è se studia o non studia. Lei fa relazioni internazionali, lavora per mia fortuna con le organizzazioni non governative, conosce un sacco di lingue. Sono orgoglioso quando vado in giro con lei, conosce perfino l’islandese, per via di suo padre, parlato da duecentomila persone appena».
Diceva che siete amici.
«Questo probabilmente è favorito dal fatto che l’ho conosciuta quando era grande, e non ho avuto quel rapporto di tenerezza iniziale che credo sia fondamentale nella paternità. Mia figlia è importante. E poi gli elementi significativi della mia vita sono volti di donne a cominciare da quello di mia madre, Maria Nicola».
Che vive dove?
«A Cosenza. Tutte le volte che posso vado a mangiare da lei la domenica. È anche una donna difficile, di grande energia. Pensi a quello che ha passato con un figlio latitante o in carcere. Per mio padre è stata effettivamente dura. Lei no, ha tenuto con grande dignità. Il matriarcato è la grande forza della società meridionale».
Renato Nisticò ha scritto un libro, “L’Arcavacante”, su questa università ricostruendo in forma di romanzo il clima degli anni di piombo. Parla di lupi e di un lupo mannaro. Lei sa chi è il lupo mannaro di quegli anni?
«Mio nonno, che stava in Sila, aveva cani e anche un lupo. Poi ho letto Lorenz e “Zanna Bianca”. E quando sono uscito di prigione un mio amico mi ha detto: Franco, che regalo vuoi? Ho risposto che volevo un lupo per accoppiarlo con la mia cagna per rinsanguarla avendo letto che il cane ha dello sciacallo e del lupo. Poi ho lasciato qui cane e lupo perché non potevo portarli alla frontiera. Ho scritto un racconto sull’argomento, i disegni li fece Pazienza».
Ma non ha detto chi è il lupo mannaro?
«Difficile dirlo, perché l’autore finisce con il mettere diversi caratteri nel suo romanzo».
Che giudizio dà del terrorismo?
«Quello di allora o quello di adesso?».
Il terrorismo che la vide in qualche modo protagonista.
«Credo che il terrorismo sia stato la conseguenza della sconfitta. Non sarebbe neanche giusto parlare di terrorismo, meglio parlare di lotta armata perché non è che hanno messo le bombe in un cinematografo, hanno fatto nella maggior parte dei casi, soprattutto per quanto riguarda le Br, omicidi mirati. A via Fani hanno tagliato le gomme della macchina del fiorista per evitare di ammazzarlo. Non sto mica dicendo che hanno fatto bene. Conoscevo molti di loro, non solo quelli che sono venuti dal mio gruppo. La mia impressione è che il loro rafforzarsi fosse legato all’indebolirsi delle possibilità di massa. Un fenomeno sociale destinato alla sconfitta ha dei colpi di coda micidiali. Forse un’amnistia a quel tempo avrebbe consentito di evitare la lunga scia, che, guardi, non è mica finita. Le Brigate Rosse non sono state sconfitte sul piano politico ma su quello della repressione dello Stato, che, beninteso, era anche inevitabile. Ma quella generazione non ha cambiato idea, e nell’immaginario dei giovani di oggi che si ribellano i brigatisti restano un simbolo».
Lei è ancora comunista?
«Sì. Più che un partito politico immagino un modo di vivere in cui uno privilegi le cose comuni. Per me ci sono tracce di comunismo nella Crotone di Pitagora, nei gesuiti che vanno in America Latina, nei kibbuz israeliani. Penso che la differenza tra gli uomini non debba tradursi in una disuguaglianza».