Una ventata di buonismo, ricorrente a dire il vero, soffia sull’anima di Napoli. Solita, quasi scontata, dopo ogni episodio di cattivismo, secondo la regola che ad ogni azione ne dovrebbe seguire un’altra di segno opposto. Dialettica affascinante ma anche stucchevole tra il male e il bene. Certo, in un mondo in cui la lotta tra i «buoni» e i «cattivi» è pane quotidiano, vedi quello che accade in queste ore nel cuore della «democrazia» planetaria, si rischia di essere un po’ provinciali a pensare che questo puntino del pianeta, la città in cui viviamo, sia il centro di tutto, ma Napoli è Napoli e noi siamo qui e, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti con il nostro pezzetto di terra e di storia, quasi un buco della serratura da cui scrutare l’universo.
Un ragazzo viene ucciso da un poliziotto mentre sta facendo una rapina. Si scopre il suo mondo, emerge il contesto sociale e familiare, si piange doverosamente la sua fine perché non la si può accettare se si pensa che quell’itinerario così pericoloso e sbagliato era potenzialmente già scritto. Immediata scatta la rivendicazione, legittima, di giustizia e verità sulla dinamica dell’accaduto per verificare come abbia agito il poliziotto, anche lui già condannato a portare con sé e per sempre l’immagine del proprio dito che preme il grilletto e stronca un’esistenza. Non finisce qui perché nel quartiere decidono di fare un murale che, mentre sottolinea la domanda di giustizia, trasforma in un mito da emulare quel povero ragazzo. Che non ha scelto di nascere, crescere e sparire in una famiglia che qualche settimana dopo sarà ulteriormente e indelebilmente funestata dall’omicidio del padre. Dov’è il bene? Dov’è il male?
Un artista, Jago, realizza un’opera particolare che viene collocata in piazza Plebiscito, il sito ormai mitico delle installazioni artistiche più significative della fine del secolo scorso: un feto di marmo pesantissimo accoccolato in terra che, secondo l’intento dichiarato, dovrebbe costringere i passanti a guardare in basso per una serie di molteplici interpretazioni. L’opera, come capitò in altre occasioni in una città esperta nello sberleffo — ricordate i capitoni nelle vasche davanti al portone del fu Banco di Napoli in via Toledo? —, è stata danneggiata, si è scoperto attraverso i social, da baldanzosi ragazzi. Apriti cielo! Caccia ai rei i quali incontrano l’artista e si pentono. Il bene e il male di nuovo si confondono. Capita che un rompiscatole — si chiama Eduardo Cicelyn, perché, come si fa in questo giornale, ha un nome e cognome — faccia urticanti osservazioni sul valore dell’opera e sulla dinamica della vicenda. Apriti cielo, di nuovo! Botta e risposta, in qualche caso anche come un messaggio cifrato, e la citata ventata dopo aver soffiato impetuosamente si disperde nell’aria così com’è comparsa.
Un napoletano che, come il James Stewart della hitchcockiana «finestra sul cortile» e con la variante moderna dell’ormai acclarata stabile appendice del corpo umano, filma un’aggressione con pestaggio e furto di scooter che avviene non nel cortile ma nella strada su cui affaccia. La vittima è un rider che sta portando cibo a domicilio. Un altro rompiscatole — ce ne sono a Napoli, non ci facciamo mancare nulla — rende pubblico il documento e succede il finimondo. Dopo il male il bene. La polizia, sempre solerte in queste occasioni mediatiche, scopre in tempi record ladri e scooter, mentre scatta un’universale gara di solidarietà, anche con qualche ombra, al derubato, che dal canto suo ha parole struggenti per attaccamento alla città e per civiltà. Provocatoriamente si poteva anche pensare che, una volta presi quei ladri, bisognasse buttare le chiavi, un modo per chiedere che la giustizia faccia fino in fondo il suo lavoro, ma poi si apprende che quei balordi sono minorenni tranne due ventenni, anche loro cresciuti in un contesto che ha segnato il loro destino, e allora il bene e il male si mischiano, fanno discutere. Perché l’altro corno del problema è nella condizione di quel rider, solo uno della serie dei rider scippati ogni giorno dello strumento di lavoro da riottenere in cambio di qualche centinaio di euro. Uno sfregio ai tanti che, piegati dalle necessità, si sono acconciati a un lavoro senza diritti.
Per dirla con Francesco, il fatto è che gli «scarti» sono tra noi, nell’esercito del male e in quello del bene. Troppo facile affidarsi alle buone azioni. Non vale per la chiesa, che ha la carità nel suo Dna, per cui la fila dei nuovi emarginati alla Mensa dei poveri, come ci ricorda insistentemente Antonio Bassolino nei suoi quotidiani pellegrinaggi urbani, è nell’ordine delle cose. Ma ci sono troppe buone azioni «sospese», dal caffè al paniere, dalla spesa alla Befana… Ben vengano, naturalmente, come l’euro che diamo al povero immigrato che fa la guardia davanti ai negozi. Servirebbe ben altro, anche in un tempo crudele e terribile come quello che da ormai da quasi anno ci angustia. Senza farla lunga, diciamo in sintesi estrema che occorrono buone azioni di… governo. A tutti i livelli. Vale per Napoli e per tutto il resto. La politica che cambia e indirizza, che dà risposte, che risolve, che aiuta, che ristora anche. Soprattutto meno spettacolo e autoreferenzialità e più sostanza. Non dipende solo da chi ha il potere di decidere ma da noi che gli diamo questo potere anche se ci asteniamo.
Banalità, direte, ma è banale anche il male come il bene. I quali rischiano di diventare ripetitivi luoghi comuni. E allora luoghi comuni per luoghi comuni rifugiamoci in quelli che qualche giorno fa su queste colonne ci ha ricordato Massimo Cacciari elencandone alcuni dei più significativi. Magra consolazione in questo buco dell’universo che è la nostra irripetibile e amata Napoli.
*Articolo pubblicato il 9 gennaio 2020 sul Corriere del Mezzogiorno