In vita mia ho visto tante partite ma quasi sempre in televisione, allo stadio sono andato poche volte e tra queste ce ne sono due stampate nella memoria che mi suscitano sempre un sorriso dolce e tenero. Da bambino tifavo per la Juve ma più che per la squadra impazzivo per Sivori e Charles, il giocoliere e il gigante, la fantasia e la potenza, l’argentino e l’inglese. E quando la Juve venne a battersi con il Napoli di Achille Lauro costrinsi mio padre a fare un’eccezione alle sue domeniche tutte diffusione del giornale-pranzo-pisolino-cinema. Una volta nello stadio del Vomero mi sembrò di sognare. Avevo occhi solo per Omar, i suoi calzini abbassati e i gol, la vittoria schiacciante sul Napoli con il “Comandante” che non avrebbe voluto mai arrendersi alla sconfitta. Ma capii anche, quando durante un’interruzione del gioco attraversò la linea di bordo campo, si fece dare una banana, la sbucciò e la divorò, che lui era in totale sintonia con il pubblico in visibilio. Che fu poi accontentato, come sappiamo, quando Sivori indossò la maglia del Napoli. E anche io cambiai casacca. Perché, lo confesso, nel tempo mi sono reso conto di non tifare per una squadra ma per il campione, e forse non è neanche tifo vero e proprio.
Per la seconda volta cambiai stadio. San Paolo in una partita di festa assoluta. Dopo l’arrivo di Maradona con il primo saluto immortalato dalla sua entrata dalla scala sotterranea ci fu una partita amichevole di presentazione del campione. Andai anche io con mia moglie e le mie due figlie piccoline. Non seguivo molto il gioco e, perdonatemi, Maradona perché ero più interessato a loro ma mi ci volle poco per capire che in quel momento eravamo nel luogo più felice e sicuro del mondo. Mia figlia la più grande, nove anni, stravedeva, forse per eredità, per i campioni della Juve, Platini su tutti, e non so come i nostri vicini di gradinata vennero a saperlo. L’adottarono. La riempirono di attenzioni, in un clima festoso, di gioia vera. E tutti cercavano di convincerla a cambiare fede. Chi invece era impegnato in un altro tipo di educazione era seduto due grandinate più giù. Teneva con sé un bimbo piccolo, non avrà avuto più di tre o quattro anni. Quando Maradona fece uno dei suoi numeri scattò in piedi sollevando il figlio fin dove potevano arrivare le braccia, poi coccolandolo gli disse: «Guarda bene e studia, tu te lo devi imparare». Se avessi avuto dubbi quel siparietto mi fece capire che era amore a prima vista e che il futuro del Napoli sarebbe cambiato per sempre.
Dunque, ho tifato per Maradona più che per il Napoli. Come tutti ero, sono e sarò sempre strabiliato dalla sua arte. Lui in un campo di calcio, fosse anche un inzaccherato terreno di periferia, era oltre. Amavo Sivori ma i paragoni sono impossibili, perché chissà quando nascerà un nuovo Maradona. Ora, non voglio inserirmi nella discussione sul campione e sull’uomo, sui pregi e sui limiti, sono le cronache, i fatti, anche la tragica conclusione a raccontare questo contrasto insanabile della sua vita irripetibile. Mi piace solo sostenere che forse hanno ragione Ottavio Bianchi e altri quando dicono che nessuno ha detto i no che sarebbero potuti servire al campione dalle mille tentazioni e lo avrebbero aiutato a non precipitare nelle trappole sparse sul suo cammino. Ma questa ormai, per quanto se ne possa parlare ancora a lungo, è una storia chiusa, sepolta con la bara di Maradona. Non mancheranno gli strascichi, anche giudiziari e non solo se pensiamo ai tanti eredi, ma le magie del “dio del calcio” saranno ricordate per sempre e continueremo a vederle senza mai stancarci.
Starei, però, attento a non esagerare. Ci manca solo che qualcuno chieda di cambiare il nome della città e siamo al completo. Lo dico ora con voce bassa come feci quando il Napoli vinse il suo primo scudetto. Il lunedì sera, invitato da Aldo Biscardi in qualità di responsabile dell’edizione napoletana di “Paese Sera”, fui sul palco installato a piazza Plebiscito per “Il processo del lunedì”. Ovviamente si esagerava anche allora tant’è che lo scudetto della squadra veniva rappresentato come la conferma che Napoli stava vincendo o che avrebbe vinto tutti gli altri scudetti a cui aveva diritto. Il calcio, dunque, visto come un simbolo di riscatto non solo sportivo. Certo, c’era del vero anche in questo sentimento che, però, si fondava su desideri e non su azioni, progetti, impegni. Del resto, si è visto che la città gli altri scudetti che le servivano non li ha vinti perché ci voleva ben altro che il pur bellissimo e significativo traguardo calcistico. L’assioma era semplice: se una squadra di giocatori raccolta attorno al campione più bravo del mondo riesce a ottenere risultati tanto a lungo auspicati perché non si può avere un’altra squadra che faccia vincere la città nel suo funzionamento ordinario? Il tema è ritornato anche di questi tempi quando, dopo gestioni del Napoli fallimentari sul piano finanziario prima ancora che sportivo, si è aperta una fase nuova che, al di là dei risultati ancora desiderati più che raggiunti, è connotata da una gestione equilibrata.
Tornando a quella trasmissione, mi permisi, con molta prudenza, di non associare automaticamente lo scudetto alle condizioni e necessità della città. Non avevo torto, come purtroppo i fatti hanno dimostrato, ma, con il senno di poi, un discorso del genere era inopportuno. Non piacque neanche alla direzione del mio giornale secondo cui non saremmo stati in sintonia con i lettori. E oggi, di fronte al dolore vasto e profondo dei napoletani, non so se ripeterei quello che dissi allora. Ma lo pensavo e lo penso. E sono addolorato, ma non per la morte in sé perché questa è nel nostro destino e neanche per l’età troppo precoce per andarsene, quanto per le modalità, la sua drammaticità e le tappe progressive attraverso le quali si è determinata. Tutto ciò, per quanto ingiusto e insopportabile, ci restituisce un “dio” nella sua umanità, nella fragilità che è il dato costitutivo della nostra esistenza, nella solitudine di chi paga sulla propria pelle errori e colpe.
La gratitudine della sua gente è più che comprensibile, ma che non diventi un modo per dire che solo Maradona ha dato a Napoli per non chiedersi che cosa ognuno abbia dato e dia alla sua città. Napoli deve ancora vincere i suoi scudetti, a parte quelli un po’ solitari della squadra di calcio. Servono i geni, ma anche chi non lo è. La gratitudine potrebbe diventare una delega postdatata. Meglio non esagerare. Io preferisco ricordarlo con il bel titolo sullo storico gol contro l’Inghilterra, lo fece Daniele Azzolini, capo della redazione sportiva di Paese Sera: Superman. Super certo, ma anche un uomo.
* Articolo pubblicato il 5 dicembre 2020 sul “Corriere del Mezzogiorno”