Colta, potente, italiana, americana. Calabrese. Insegna latino medievale alla Columbia University di New York, soprattutto è la direttrice dell’American Academy di Roma, porta di ingresso della cultura d’oltreoceano in Italia, un’istituzione che si avvale di fondi privati raccolti tra i magnate americani dell’economia, collocata sul Granicolo (undici edifici distribuiti in un parco lussureggiante di oltre quattro ettari) e che ospita in 67 appartamenti artisti soprattutto americani. Investimenti in cultura per milioni di dollari, una cifra non monetaria dà l’idea dell’impegno: nella biblioteca sono contenuti 134mila volumi. Nome meridionale, cognome calabrese, Carmela Franklin Vircillo aveva una passione: lo studio.
Vogliamo partire da Santa Caterina Albanese dove lei è nata 58 anni fa?
«Sì. Ricordo tutto, dove sono nata, come sono cresciuta, la mia famiglia, le mie maestre, i miei maestri, la mia scuola, i miei parenti, i miei giochi. Dopo tutto, sono partita da Santa Caterina Albanese che avevo quattordici anni anche se l’ultimo anno ho frequentato il quarto ginnasio a Cosenza dove ero a pensione in una famiglia. La scuola media l’ho fatta a Malvito viaggiando con il bus che ci prendeva ogni mattina quando non dimenticavo o quando non era rotto, e ci portava a Malvito».
E quando era rotto?
«A piedi. Quattro-cinque chilometri. Una bella passeggiata. Per questo io sono diventata una grande jogger. L’esperienza dell’infanzia mi ha convinto di essere atletica, ma anche da bambina lo ero abbastanza».
Suo padre?
«Era un professore, mia zia, Irma Ippolito, è un medico e sta a Cosenza».
Come mai la sua famiglia andò in America? Da quello che dice non dovette trattarsi di un’emigrazione indotta dal bisogno?
«Diciamo che non era normale, tipica. Non siamo mai riusciti a capire veramente la decisione, che non è stata immediata. Certamente c’era nella nostra come in tutte le famiglie calabresi la tradizione dell’America. C’erano rami della famiglia di mia madre che erano andati in America: mio nonno materno, che era quasi cresciuto lì, aveva sposato mia nonna che era di Cerreto, ed era un matrimonio combinato, ma ogni tanto tornava dall’America e lo fece definitivamente quando andò in pensione. Fece soldi e comprò proprietà che hanno permesso a mia zia di diventare medico. Nella famiglia di mio padre, anche suo padre era andato in America molto prima che io nascessi, vi era rimasto alcuni anni, aveva guadagnato e aveva comprato una proprietà che si chiama Quartarone. Grazie a questo potette mandare il figlio a scuola, l’altro figlio era rimasto in America».
Da quello che dice sembra che l’America fosse dietro l’angolo.
«Parliamo piuttosto di una tradizione, di un’America come posto di rifugio, alternativo, di crescita. E anche se mio padre era maestro e avrebbe potuto rimanere, non si è mai capito perché andò. All’inizio è andato per un paio di anni e poi è rimasto. Ad un certo punto mia madre gli ha detto: o torni tu o veniamo noi».
E siete andati voi.
«Nell’agosto del 1964. All’inizio eravamo d’accordo che mia madre e mia sorella più piccola si sarebbero fermate un paio d’anni con papà mentre io e mio fratello maggiore saremmo tornati a Cosenza a finire il liceo. Invece quando è venuta la fine di agosto mia madre non se l’è sentita di farci tornare. Siamo rimasti così, senza preavviso».
A proposito di liceo a Cosenza, ha frequentato il Telesio?
«Sì, la quarta ginnasiale. Sapevo che cosa mi avrebbe dato il liceo in termini di qualità ma ci sono stata poco. Ho incontrato calabresi lungo la mia vita, tra cui il grande Enzo Crea, morto il 20 agosto scorso, che hanno frequentato quel liceo, che mi sembra abbia svolto una funzione molto importante per i calabresi che sono partiti».
A Cosenza stava da sola?
«Ero da sola in una famiglia, e questo ha sviluppato la mia indipendenza».
Quindi in America è rimasta per caso?
«Per caso, e anche per scelta perché a un certo punto papà e mamma mi hanno detto di provare la scuola americana. Una volta cominciata, è durata. Anche l’effetto dello sradicamento non si è risolto fino ad una certa maturità quando abbiamo parlato degli effetti di questo trauma anche se al momento incosciente».
Un mondo nuovo, nuova anche la lingua.
«Ho imparato presto e benissimo la lingua, ero bravissima a scuola. Però si cambia la posizione. Da una famiglia ben conosciuta e ben stimata di un paesino calabrese ad assumere il ruolo di immigrata in una società in cui l’immigrato resta sempre un immigrato».
Dunque, frequenta le scuole americane. Da dove nasce la sua passione per il latino e il greco?
«Ero stata sempre brava a scuola, non solo in latino e in greco ma in tutte le materie, anche in matematica. Vincevo le gare che si facevano anche a New York. Credo che la scelta del latino e del greco per me sia stata determinata dal distacco dalla mia terra, da un modo intellettuale di legarmi ad essa. Era un mio modo di pormi, già a quattordici anni mi definivo una studiosa. Ero superiore a tutte le ragazze della mia scuola, c’era anche una specie di snobismo perché essere bravi in latino e in greco, non in italiano che non ho mai studiato in America perché la consideravo una cosa inferiore, mi sembrava un modo con cui definirmi superiore agli altri nel campo scolastico. Oltretutto era anche una continuazione della scelta del liceo classico, che era considerata la scuola migliore e più difficile».
Con questa scelta, come la definisce lei, snobistica le si aprono le porte dell’America. Come arrivò ad Harvard?
«Con una borsa di studio. Harvard per me è stata un paradiso. Mi sono sentita a casa, queste bellissime biblioteche dove c’erano tutti i libri del mondo, piene di studenti che si interessavano delle stesse cose di cui io mi interessavo, con questi professori che capivano la mia terra, cioè la sua storia e la sua tradizione».
Del resto lei veniva dalla terra della Magna Grecia.
«Ecco. Questo mi dava un certo status. I professori mi avevano accolto bene anche nel liceo americano. È stato un sistema che per me ha funzionato benissimo, perché non è rigido come quello italiano. Hanno potuto scegliere per me, togliermi da una classe per mettermi in un’altra, mi hanno aiutato molto».
Conferma che l’America premia il merito.
«Assolutamente. Sono sempre grata e ho una grande ammirazione per questa terra, anche se ne conosco i grandi difetti, però continuo a dire specialmente alle mie figlie, che sono molto più critiche di me verso gli Stati Uniti, che ci sono questi esempi e che io non sono l’unica, ad Harvard e anche nelle scuole delle mie figlie ne ho incontrati tanti».
Quanti anni hanno le sue figlie?
«Una, Barbara, ne ha diciotto ed è al primo anno ad Harvard anche lei, la più grande, Corinne, ne ha ventotto, ha due lauree, si sta specializzando come medico in chirurgia ortopedica. Vedo tante ragazze che vengono scelte e premiate con borse di studio. Le possibilità ci sono».
Suo marito?
«È un americano».
Lei ha sposato l’America in tutto e per tutto.
«Sì, ero innamorata dell’America. L’idea di sposare un italo-americano non mi è mai passata per la testa».
Alla fine ha poi avuto in sorte di potersi ricolllegare alla sua terra venendo in Italia a rappresentare la cultura americana come direttrice dell’American Academy.
«È stata una grande fortuna. Sono stata borsista all’Accademia nel 1985 e nel 1986, ed è stata la mia prima esperienza di ritorno in Italia come studiosa. Ho potuto studiare alla Biblioteca Vaticana i manoscritti medievali. Sono tornata in Italia venendo in un ambiente che era parallelo a quello che frequentavo in America. Nell’autunno del 2001 sono venuta di nuovo come residence, invitata dal direttore come una senior scholar. Mi trovavo infatti lì durante l’11 settembre. E poi mi avevano sempre invitato a prendere in considerazione la direzione, ma la mia situazione familiare non me lo permetteva (le figlie erano ancora piccole). Poi ho accettato pensando: se non lo faccio ora non lo farò più. Come famiglia abbiamo deciso. Ho partecipato e ho vinto il concorso».
Adesso la famiglia è divisa tra Roma e l’America?
«Le mie figlie stanno a New York. Io e mio marito, che è un ministro anglicano che lavora alla chiesa episcopale e anche per l’Accademia, viviamo a Roma».
Quindi, suo marito è un suo dipendente?
«No, dipende dall’America. Ma questa è una cosa molto americana che è quella di far diventare la coppia una entità sola grazie alla sistemazione dei membri della famiglia».
L’Accademia che fa?
«Intanto diamo borse di studio a giovani artisti americani che vogliamo che vengano formati dalla cultura romana. In questo momento abbiamo un borsista, un giovane ingegnere che è capo di una squadra di ricerca per capire l’arco romano, di cui non si conoscono ancora i segreti. Diamo modo a tanti di venire in Italia e di aprirsi all’influenza italiana, ma abbiamo anche borsisti italiani, la nostra biblioteca, una delle migliori di studi classici e di storia dell’arte, è aperta a scolari italiani. Non prendiamo solo da Roma, ma diamo qualcosa anche a Roma e all’Italia in generale».
E alla Calabria?
«Sono stata un paio di volte all’università della Calabria, ho amici che non avevo prima e mi fa piacere. Però, con l’università della Calabria come istituzione non sono riuscita ancora a sviluppare una relazione. Vorrei portare gli amministratori dell’Accademia nel corso del meeting annuale di maggio in Calabria dove non sono mai stati».
Magna Grecia. Commenti come vuole questi nomi di città. Locri?
«La mafia».
Non la Magna Grecia?
«Anche. Tutti e due».
Reghion?
«Reggio, naturalmente i grandi bronzi. Per me era il porto per andare a Messina da mia zia».
Sibari?
«La grande città della Magna Grecia e anche lo scalo dell’autostrada dove si esce per Cosenza».
Crotone?
«Un altro grande paese della Magna Grecia ma purtroppo anche la mafia».
Insomma un’idea molto pragmatica?
«Quello che si legge nei giornali e quello che si impara a scuola. Il passato non è molto presente. Quando vengo in Calabria non è che il passato è molto messo in evidenza. Le bellezze della Calabria dovrebbero essere più valorizzate».
Se lei per caso dovesse governare la Calabria che cosa farebbe?
«Migliorerei l’educazione, perché so che la formazione nel Sud non sta andando bene. Dati recenti hanno dimostrato che un laureato nel Sud non verrebbe promosso al Nord. Questa mi sembra una grande novità rispetto a quando ero ragazza. Noi eravamo ben educati. È un grande problema per il futuro della Calabria. In secondo luogo cercherei di fermare l’emigrazione, che continua come vedo nella mia famiglia: un mio cugino che abita a Venezia, altri cugini che non trovano lavoro in Calabria. Infine cercherei di rendere la regione più efficiente, più attiva nel fare. Penso alle strade che sono mezze finite, le case che sono mezze finite, l’autostrada che non si finisce mai. L’incompiutezza. È uno scandalo. Al Nord non lo consentirebbero. Al Sud ci perdoniamo».
Il difetto dei calabresi?
«Pensare troppo alla loro famiglia».
Il pregio?
«Pensare troppo alla loro famiglia».
Torniamo a New York. Prima ha ricordato l’11 Settembre. Che ne pensa?
«È una grande tragedia per New York, una grande tragedia anche personale perché noi conosciamo persone che sono morte quel giorno. Però rappresenta anche un momento in cui New York, l’America e il mondo si sono uniti, un periodo in cui c’era un senso di solidarietà che purtroppo non esiste più. Io non condivido le decisioni del mio governo che penso abbiano allargato la tragedia invece di rimarginarla. Né penso di essere l’unica americana a pensarla così sulla guerra in Iraq. Gli americani sono ottimisti. I vecchi ateniesi quando succedeva qualche tragedia avevano l’abitudine di eliminare quel giorno dal calendario, gli americani non fanno così, celebrano la tragedia e nel farlo celebrano il trionfo sulla tragedia, non stanno lì soltanto a piangere. Di qui la delusione di oggi».
Lei è più americana o più italiana, e quanto si sente ancora calabrese?
«Mi sento sempre calabrese specialmente quando sono in America dove mi sento più italiana, in Italia mi sento più americana. In America penso sempre alla Calabria, a questa terra del Sud. I miei studenti alla Columbia pensano che io sia del Nord, che io sia milanese, perché sono istruita, sono professoressa, ci so fare. Dico loro: voi siete proprio razzisti, io invece sono calabrese del Sud povero dell’Italia».
Lei tra l’altro ha un nome che è tutto un programma.
«Assolutamente. Mi tradisce o mi rivela. Sono molto cosciente della mia storia, che abbraccio ma che mi rendo anche consapevole di quello che non devo fare. Poi io
ho sposato una persona del Mississippi che è la Calabria dell’America, quindi la cultura del Sud fa parte del dna familiare».
Le sue figlie come vedono la Calabria?
«Come la terra che spiega la loro madre, che gliela fa capire. Hanno visitato la Calabria, sono state nella mia famiglia, però non è un posto dove vorrebbero vivere. Una volta che dovevo fare un lavoro alla Biblioteca vaticana ho lasciato le mie figlie in Calabria con i parenti. Corinne voleva fare jogging, però c’era qualcuno che la seguiva perché non voleva che lo facesse, e lei mi ha chiamato: mamma, ma qui è ancora il medioevo? E io: sì, ma tu fa finta di essere un’antropologa e di studiare questa società e di capirla. Penso che anche loro abbiano un affetto per la Calabria, che la conoscano e la capiscano abbastanza bene perché attraverso la Calabria capiscono la loro mamma».
Mamma Calabria?
«Sì, mamma Calabria».