di MATTEO COSENZA*

Più che ai luoghi ci sono viaggi legati alle persone, in questo che racconto ad un amico e, in un caleidoscopio di avventure e scoperte, a una musicassetta che ne divenne il filo conduttore. Lui si chiamava Gennaro Pinto, una figura leggendaria per generazioni di giornalisti e diffusori della cosiddetta gloriosa stampa comunista a Napoli e in Campania. Sempre in seconda fila, non nell’ombra perché il suo era uno spazio importante e intoccabile. Il figlio Gianni, che ne ha seguito le orme, è diventato, come lo era nel primo dopoguerra il padre, animatore di spettacoli teatrali e soprattutto è stato l’assessore dell’Estate a Napoli con Maurizio Valenzi sindaco.

Che ha a che fare tutto questo con il viaggio? Intanto in origine c’è il primo viaggio, non da turista, di Gennaro. Con la divisa militare andò a combattere per la nostra patria in terra prima di Grecia e poi d’Albania. Gli ci volle poco per capire che quella storia non gli apparteneva, presto fu uno dei tanti soldati lasciati allo sbando dopo l’8 Settembre e divenne partigiano, tanto da meritarsi l’amicizia riconoscente degli albanesi. Nel frattempo ebbe anche il tempo di incontrare l’amore della vita, Deshira Potossi, a tutti noi nota come Cilò, e di sposarla e condurla con sé a Napoli. Il fatto è che Cilò era la principessa bei di Tirana e, mentre i suoi familiari vennero privati delle non poche ricchezze e del potere immenso di cui avevano goduto fino a quel momento e poi furono sottoposti al regime carcerario per anni, lei non poteva fare ritorno nel suo paese e affidava i messaggi per la famiglia al marito che, essendo un amico dei governanti albanesi, poteva andare e tornare da lì quando e come voleva.

Gennaro, napoletano verace come si dice dalle nostre parti, aveva l’innata capacità di stabilire e moltiplicare i rapporti di conoscenza e amicizia. E, sia per quello sguardo verso est per i motivi prima ricordati sia perché a quei tempi i comunisti puntavano la loro attenzione, e molti le loro speranze, verso quella parte d’Europa, il nostro intrecciò saldi rapporti a Mosca come a Bucarest, a Sofia e, come si è detto, a Tirana. E’ stato un mio grande compagno e dopo la morte di mio padre divenne il mio amico, se si può dire, paterno. E fu naturale accettare una sua proposta di viaggio, alquanto ardita, per le nostre due famiglie.

Partimmo da Napoli con la mia Fiat 131 diesel. C’erano lui e Cilò, io, Anna e le nostre figlie, Valentina di anni cinque e Ilaria di tre. Tappa finale la Romania. Era settembre, nell’incertezza del clima preparammo molti e voluminosi bagagli. Per stiparli nel portabagagli e poi chiuderlo quasi ci si sedeva sul cofano. In più avevamo imballato la parte residua, buona per tutte le stagioni, in una sorta di cubo che stava sul tetto della vettura. Gennaro, che era anche molto paziente, nelle numerose tappe perdeva quasi mezz’ora per disfarlo o ricomporlo.

Il giro fu lungo. Prima tappa sulle Alpi per dormire e poi di corsa a Vienna. Una toccata e fuga, per vedere qualcosa, respirare l’aria della città e soprattutto gustare un dolce nella pasticceria Demel e contemporaneamente osservare da una vetrata uno dei pasticcieri che decorava una torta con minuscoli confettini alla maniera di un pittore del puntinismo. Avevamo programmato di dormire dopo aver superato il confine con l’Ungheria e quindi ci recammo verso quella direzione. Non avevamo calcolato che stavamo entrando in un paese del socialismo reale, per farlo ci diedero i tormenti e a nulla valsero le simpatie di Gennaro che però in Ungheria non erano molto collaudate. Insomma, passammo la frontiera che era notte e la speranza di trovare un albergo svanì presto. Strade buie, di case o parvenze di negozi neanche l’ombra, solo in un punto vedemmo delle luci, vi andammo incontro speranzosi ma erano quelle di una fabbrica. Gli operai stavano uscendo a fine, credo, dell’ultimo turno: non riuscimmo a fermarne nessuno, tutti scappavano e poi c’era la lingua che faceva il resto.

Andammo avanti e ci trovammo su un’autostrada. Nell’unica area di sosta che incontrammo il bar era chiuso. Gennaro era preoccupato e mi lanciava sguardi allarmati senza farsene accorgere dalle mogli, visibilmente terrorizzate, e dalle bambine stanche e più che agitate. Al primo svincolo uscimmo e alla cieca andammo avanti. Nel buio non ci saremmo neanche accorti di dove eravamo se una voce familiare non ci avesse gridato: “Italiani?”. Eravamo finiti in una tenuta frequentata da cacciatori italiani. Dormimmo nella stanza del proprietario ancora frastornati.

Non eravamo lontani da Budapest, che raggiungemmo a metà mattinata. Non so come mi fossi ritrovato sulla corsia dei tram, ma ricordo che all’improvviso due militari con i mitra spianati picchiavano sul cofano dell’auto spingendoci per farci tornare indietro. Eravamo arrivati, non so come, all’ingresso della piazza del Parlamento. In quel preciso istante colpi di cannone rintronarono e si sentì anche un fragoroso battere di tacchi da parte dei soldati in gran parata. Da un’auto stava scendendo Gheddafi che si avviò verso il portone dove l’attendeva, immagino, il presidente magiaro. Non vedemmo null’altro perché la mia auto andava all’indietro senza che pigiassi l’acceleratore. I soldati, in dubbio se arrestarci o fucilarci all’istante, avevano il solo scopo di cacciarci da quel luogo e di liberarsi della nostra presenza. Appena riuscimmo a girare volammo lontano ancora increduli di quanto ci era capitato. Intanto Gennaro se la rideva sotto i baffi che non aveva. Io, mi dissi, ci tornerò e me la godrò questa città, impegno poi onorato come anche per Vienna.

La nostra meta era la Romania, ci aspettavano amici di Gennaro nella città di Oradea, bella non solo per il nome. Lui era un medico, la moglie una funzionaria del partito comunista. Trascorremmo giorni ricchi di esperienze e incontri, percepivamo sentimenti contrastanti: l’orgoglio non celato per l’autonomia che Ceausescu rivendicava dall’Urss e al tempo stesso, più custodita, l’insofferenza per i rigori e le degenerazioni vistose del regime. La mia auto non era nuova ma attirava l’attenzione. Ci osservavano quando attraversavamo le strade, e se ci fermavamo si radunava quasi sempre una folla di curiosi con occhi emozionati per la nostra “favolosa” Fiat, manco fosse una Ferrari. Un po’ più complicato era fare carburante, ma a noi, che avevamo amicizie solide, il pieno era garantito da taniche ricolme che venivano portate direttamente nella nostra residenza.

I negozi non erano invitanti, almeno per noi abituati a ben altro, sicuramente non nascondevano la carenza di merci. Ma nelle case che frequentavamo scoprivamo frigoriferi maestosi colmi di ogni bendidio. E quelle case, di professionisti e soprattutto di uomini o donne del partito, erano arredate riccamente e si aprivano al nostro godimento come oasi di benessere, si potrebbe dire di ricchezza, di cui in giro c’erano scarse tracce. In compenso, per una fortuita necessità, facemmo tappa in un ospedale e avemmo ovviamente un’attenzione particolare, ma capimmo anche che quella struttura funzionava molto bene non solo per noi ospiti da trattare con riguardo.
La girammo in lungo e largo, la Romania, ci bagnammo nelle piscine termali e non, affollate per i turni settimanali di ferie garantite a tutti i lavoratori, andammo sui Carpazi, visitammo naturalmente Bucarest, furono una decina di giorni intensi che ci procurarono amicizie non d’occasione se è vero che ricambiammo l’ospitalità accogliendo i rumeni nelle nostre case napoletane. E quando lasciammo la Romania la nostra auto era un deposito di attenzioni, gastronomiche, artigianali, librarie, tessili, al punto che non avevamo alcuna possibilità di muoverci.

Ritornammo in Italia attraverso la Jugoslavia, con un’esperienza notturna in un albergaccio (non trovammo altro sulla “camionabile”) in cui io e Gennaro restammo svegli nel timore che qualche topo potesse insidiare le nostre quattro donne. Scappammo molto prima che albeggiasse e tirammo un sospiro di sollievo nella splendida Lubiana, e poi ce la spassammo per un paio di giorni sul lago di Bled prima di puntare a Napoli dopo una tappa a Bologna.

E la musicassetta? È quella che registrammo durante il viaggio, all’andata e ritorno. Scoprimmo, mentre lasciavamo l’Italia, che in mezzo a noi c’era un cantante. Non so se per necessità, considerato che erano vistose le sofferenze a cui costringevamo le due piccolissime viaggiatrici e che qualcosa occorreva inventarsi per non farle innervosire, sta di fatto che a un certo punto Gennaro intonò “È arrivato l’ambasciatore con la piuma sul cappello…”, e Ilaria e Valentina scoprirono di aver trovato il terzo nonno. Le conosceva tutte, le canzoni popolari, non solo quelle napoletane più famose, certamente non musica per bambini, comunque le più orecchiabili; tant’è che le vocine delle mie figlie spesso accompagnavano la robusta e dolcissima voce di Gennaro mentre intonava “come facette mammeta”, “funiculì, funiculà”, “core ingrato”, o – e questa alla fine si cantava in coro – “quando hai vent’anni ti ci vuole la mogliera per aumentare la famiglia di papà”. Dopo qualche migliaio di chilometri non ricordo chi prese l’iniziativa ma imbracciammo il mangiacassette e iniziammo a registrare. Quella cassetta è stata poi una delle colonne sonore, sicuramente la più cara, della crescita delle figlie. E se loro, ma anche io, ricordiamo Gennaro pensiamo inevitabilmente all’ambasciatore e alla sua piuma sul cappello.

Io, per la verità, ne rammento anche un’altra. Eravamo a Oradea a casa di un collega di Remhir, il medico che ci ospitava, e attorno a un sontuoso tavolo ovale, impreziosito da tovaglia, piatti, posate e bicchieri di rappresentanza, pranzavamo con leccornie di ogni genere. Siusi, la moglie del padrone di casa, molto bella e vestita con un abito dalle ampie scollature, incurante di Cilò, civettava con Gennaro che, come sempre gli accadeva, era al centro delle attenzioni. All’improvviso calò il silenzio mentre Gennaro, rivolto alla signora, cantò: “Femmena, tu si ‘na malafemmena…”. Ma questa non la registrammo.

 

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/la-musicassetta

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