Ogni tanto si sente evocare lo spettro della seconda guerra mondiale per dire che siamo in piena terza guerra mondiale. I paralleli in storia sono rischiosi e quasi sempre azzardati come il vecchio Marx ci ha insegnato sostenendo che la seconda volta la tragedia diventa farsa. Ma quella che stiamo vivendo è già una tragedia e l’evocare un precedente cruciale del secolo scorso serve solo a rappresentarne la devastante drammaticità e non già la continuità. Da qui dovremmo partire tutti in questi giorni di smarrimento e di grave sbandamento.
Tutti contro tutti, non siamo alla caccia all’untore, c’è chi ancora nega il pericolo se non addirittura l’esistenza del virus e la ragione sembra si sia defilata dalla nostra vita. Da settimane, mentre la pandemia se ne sbatte delle nostre ansie, si discute come sei mesi fa, come un anno fa, come in questi anni di folle ricerca di un taumaturgo – fosse il popolo o un suo surrogato – capace di fare quello che noi non sappiamo o non vogliamo fare. Ma se prima di Wuhan era sopportabile adesso non più. Tutti dovrebbero darsi una calmata.
Prendiamo Napoli e l’Italia. Si recita su palcoscenici diversi ma in comune hanno la distanza, l’incomprensione, l’incomunicabilità. A Napoli si rappresenta il paradosso: due signori, di area relativamente comune (possiamo dire sinistra?), pur avendo la responsabilità del destino l’uno di un’intera regione e l’altro della città più importante non solo demograficamente, si ignorano se non al massimo si scambiano velenose parole e atroci accuse. Non sono, inutile ricordarlo, solo esponenti di parti politiche bensì i rappresentanti al massimo livello delle due istituzioni fondamentali sul territorio. E non si parlano. L’uno vive nella torre d’avorio delle sue decisioni monocratiche, non nascondendo il fastidio delle architetture democratiche. Se fa bene va bene anche per noi. Se fa male sono guai per noi. L’altro, che ieri finalmente ha inviato un messaggio al “rivale”, vive per lo più in televisione e sembra interessato soprattutto alla propria sorte politica. No, così non va. E poco importa se hanno il loro temperamento, anche nolenti dovrebbero, devono parlarsi e trovare forme di collaborazione istituzionali insostituibili sempre e soprattutto in una fase come questa.
Ma in Italia succede, con altre forme e protagonisti, non molto di diverso. Non so se sarebbe necessario un governo di unità nazionale, ma sicuramente dovrebbe cambiare il clima tra le forze politiche. Le responsabilità dei due maggiori partiti di opposizione sono evidenti e si sono manifestate nei mesi e negli ormai ultimi due anni dopo il vertiginoso cambio di alleanze. Ciò detto, come si fa a dargli torto quando chiedono di essere coinvolte e non solo sentite dal governo? Il premier Conte, nei cui panni credo pochi vorrebbero stare in questi giorni, ripete ormai come un mantra ad ogni Dpcm di aver consultato le opposizioni. No, non basta. L’educazione parlamentare sarebbe apprezzabile in tempi normali, ora serve ben altro. Ripeto, non mi azzardo a parlare di governo di unità nazionale, ma alla consultazione dovrebbe seguire l’ascolto e in qualche modo il coinvolgimento, mediante e facendo proprie le proposte condivisibili. Ci sarà poi tempo per dividersi di nuovo, sempre che quando usciremo da questo tunnel ci saremo ancora tutti.
Sarebbe, questo, il segnale più importante in questo momento per il paese. Qualsiasi decisione non è semplice e non ce n’è una che non presenti controindicazioni, ma al disagio, alla paura e alle attese dei cittadini, soprattutto quelli che temono per la loro salute e la loro sopravvivenza sociale e rischiano di veder trasformata in rivolta eversiva la loro legittima protesta, si risponderebbe ispirando la fiducia che deriva più che dalla concordia, impossibile evidentemente, dal senso di responsabilità. Per esempio, il coraggio, come chiedeva ieri Sergio D’Angelo su queste colonne, di chiudere tutto subito per non farlo quando sarà troppo tardi. Ed è una cosa deciderlo coralmente ben altra se ognuno resta sulla propria barricata.
Avremmo bisogno di un Churchill, ma quelli erano altri tempi e anche nel suo paese si è visto che di eredi con quello stile e quella autorità non c’è neanche l’ombra, anzi… Ma, per dire, ci basterebbero un Moro o un Berlinguer, il cui alto senso dello Stato e dell’interesse nazionale piuttosto che di quello di parte sono un nostro straordinario patrimonio. Di quest’assenza e dei propri limiti sarebbe opportuno che fossero consapevoli Conte e Salvini, Zingaretti e Meloni, Di Maio e Berlusconi e, nel nostro ambito relativamente piccolo, De Luca e de Magistris. Ovviamente i primi ad operare di conseguenza, in uno spirito adeguato alla situazione, dovrebbero essere coloro i quali in questo momento hanno la responsabilità del governo a tutti i livelli. Altrimenti l’onda sarà devastante.
Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 31 ottobre 2020