di MATTEO COSENZA*
C’ero già stato. Una toccata e fuga nel lontano 1984. Vi arrivai con un’Alfa 6, l’ammiraglia messa a disposizione dall’Alfasud per un convegno della Fnsi, il sindacato dei giornalisti. Vidi poco e seguii distrattamente l’incontro, anche perché trascorsi con ansia gran parte del tempo in albergo, spesso al telefono con Roma, per avere notizie dal mio giornale, Paese Sera, dove in quelle ore il comitato di redazione e il consiglio di fabbrica stavano decidendo la fine dell’autogestione e la sorte dei dipendenti, compresa la mia. Da allora mi ero ripromesso di tornarci, finalmente ho mantenuto l’impegno.
Sono partito alle 9,35, il mio“Italo” entra nella stazione di Ferrara alle 13,47. Aria tersa, di nebbia e pure di nuvole neanche l’ombra, il sole lasciato a Napoli porta bene. Nel piazzale della stazione vedo meno biciclette di quelle che le cartoline promettevano. Taxi? Meglio a piedi. Da qui all’albergo non c’è neanche un chilometro e mezzo e, a parte la piccola fatica del trolley, prima regola è scarpinare se vuoi conoscere davvero: nel turismo come nel mio mestiere, dove le scarpe si consumano purtroppo sempre meno.
Dopo la prima immersione nel verde del viale della Conciliazione eccoci nel lungo viale Cavour: una fucilata prima di raggiungere il cuore e il simbolo della città. L’albergo l’ho scelto non a caso. È quello di ventisei anni fa e sta di fronte al Castello Estense. Dalla stanza del “Mercure”si vedono il maniero, il fossato e uno scorcio di panorama. Benvenuto a Ferrara. O, meglio, bentornato.
Le tappe sono obbligate. Sei solo disorientato tra l’approfondire prima la conoscenza dei monumenti o individuare l’impianto urbanistico in cui essi sono allocati. Scelta non facile, potresti sentirti pago della sola visita della fortezza degli Estensi. Appena archiviato il ricordo del tuo castello napoletano, il Maschio Angioino (ma per uno di Castellammare potrebbe essercene anche un altro), qui il fossato è colmo d’acqua mentre quello partenopeo è all’asciutto sebbene il mare sia proprio al di là della strada: ma, per quanto comuni fossero gli scopi di difesa e di offesa, quello che hai davanti a te ha altre linee, altre pietre, altre geometrie. Un’altra storia.
Questo ritornare al proprio vissuto, si sa, è per il turista una ricorrente chiave di lettura e di confronto. Anche davanti al gioiello non a caso noto come Palazzo dei Diamanti, il bugnato ti rimanda a quello della napoletana chiesa di piazza del Gesù che, però, di suo aggiunge il fascino dei misteri non chiariti. La suggestione è data dal particolare, il singolo edificio, ma la convergenza nel Quadrivio degli Angeli con altri edifici memorabili, il Palazzo Turchi di Bagno e il Palazzo Prosperi-Sacrati, crea un unicum che rimanda alla curiosità maggiore, quella di percepire e via via scoprire il segreto di questa città: il suo impianto urbanistico.
Non visito tutti i palazzi che, per come sono fatti e per quello che contengono, lo meriterebbero, anche perché ho un altro obiettivo, anzi due, in questo viaggio, ma ho occhi per vedere e ancora arti, che non mi hanno fatto perdere il gusto di camminare, per indagare il potere seduttivo di queste strade, del loro colore, della simmetria e dell’armonia tra spazi pieni e vuoti, edifici e verde, di quel che resta dei tredici chilometri della sua cinta muraria. Siamo nella cosiddetta “Addizione Erculea” dal nome di Ercole I d’Este, che pretese dal suo architetto il raddoppio urbano in prima battuta per difendere il suo stato dalla Repubblica di Venezia e poi per realizzare una sorta di città ideale, un sogno che aveva coltivato – ci risiamo – fin dalla sua formazione alla corte di Napoli. Il risultato è la Ferrara nella quale mi trovo e che per questo è Patrimonio dell’Unesco.
Ma prima di passare alle cose serie un intermezzo doveroso. Siamo in Emilia Romagna, a tavola! Guai a ripartire senza aver fatto una scorpacciata di cappellacci, lasagne, salama, panpepato. Ho detto che non sono cose serie? Ho mentito spudoratamente. La mia pancia mi suggerisce che questo itinerario gastronomico valeva tutto il viaggio. Chiusa la parentesi veniamo alle cose… serie.
Quando vai in un paese il buon viatico è quasi sempre un libro, anche più di uno. “Praga magica”, come puoi conoscerne il segreto se, Kafka a parte, non hai nella valigia il testo sacro di Angelo Maria Ripellino? A Trieste puoi sederti al Caffè San Marco se non hai appena letto l’omonimo racconto di Claudio Magris che apre i suoi “Microcosmi”? E quale aura resta a Pamplona se le sottrai “Fiesta” di Hemingway? E fatti ancora accompagnare dallo scrittore americano nell’odissea de “Il vecchio e il mare” che ti consegnerà tutto intero l’incanto di Cuba. E così leggendo e viaggiando…
Dunque, Ferrara. Vado in giro per ritrovare la città di Giorgio Bassani, lo scrittore che l’ha raccontata in tutte le sue opere e che ha posato il suo sguardo dolente sulle ferite mai rimarginate. Ho cercato il Caffè Fetman, non l’ho trovato, chiedo e finalmente mi dicono che al suo posto c’è un’agenzia bancaria. Lo cercavo perché Bassani ne scrive ne “L’ airone”, il suo ultimo romanzo contrassegnato da “un profondo stato di depressione”, quando gli “sembrava di vivere una specie di vuoto, mi mancavano gli interessi, per la prima volta sperimentavo una condizione terribile: quella della sterilità, del non-amore”. Il tema della sua vita, il dramma della sua comunità ebraica, sarà la costante della sua opera che si incarna nella storia della città, sua pur essendo nato a Bologna, e che mi ha fatto pensare al tormento di Primo Levi e al suo tragico gesto conclusivo.
Lascio l’albergo e mi avvio a piedi nelle stradine del Ghetto Ebraico, cercando con la mia immaginazione di intercettare quella di Bassani quasi fosse possibile ritrovare il suo “Giardino dei Finzi Contini”, mi resta la memoria del romanzo e la malinconia del film di Vittorio de Sica. Cinema e letteratura si incontrano significativamente in questo luogo. Il tour termina dove è iniziato, al Castello. Sosto davanti a una delle tre lapidi in marmo che ricordano l’eccidio di undici cittadini per mano dei fascisti, e penso che un racconto di Bassani, “La notte del ‘43”, e il film che ne trasse Florestano Vancini, “La lunga notte del ‘43”, siano la prova di come la parola e l’immagine possano rendere eterna la memoria.
Oggi è il Primo Maggio. L’ultima giornata – e siamo al secondo motivo di questo viaggio – si svolgerà sull’acqua. Appuntamento alla Darsena di San Paolo alle 9,30. Il battello “Nena” ci aspetta. Temperatura mite, pochi aliti di vento, il sole troneggia. Siamo sul Po di Volano, navigheremo verso e sul “grande fiume”. In tasca non ho potuto mettere il libro, che non ho neanche portato da casa. Con i suoi 1154 grammi di peso e le 1161 pagine (solo queste perché la mia edizione è un Oscar Mondadori) era un un po’ complicato tirarselo dietro. Per mesi, però, mi sono preparato leggendolo un po’ alla volta e rivedendo su Rai Play lo sceneggiato che ne fu tratto con un indimenticabile Gastone Moschin. I nostri “cento anni di solitudine”, la saga di quattro generazioni della famiglia Scacerni dal periodo napoleonico alla prima guerra mondiale: “Il mulino del Po” di Riccardo Bacchelli .
Prima ancora del romanzo mi aveva incuriosito la vicenda dello scrittore, anche per averne incrociato qualche anno fa il nome durante un mio periodo di lavoro in Calabria. Con il giornale scoprii che Saverio Strati, uno dei più grandi scrittori calabresi, era stato dimenticato al punto che lo si riteneva morto. Viveva invece a Scandicci, alle porte di Firenze, in condizioni quasi di indigenza. Facemmo una campagna che non solo consentì ai suoi conterranei di riparare almeno con la memoria all’oblio di cui si erano macchiati ma anche all’interessato di avvalersi fino alla morte, giunta un paio di anni dopo, dei benefici della Legge Bacchelli. Il mio Virgilio, quindi, è Bacchelli, il grande scrittore finito in povertà e che ebbe il risarcimento di una legge che porta il suo nome anche se non ne beneficiò, perché finì prima di riceverne l’erogazione.
Ora sono qui, sul suo fiume, e vedrò anche i mulini a cui si è ispirato. Poco dopo il ponte della ferrovia la “Nena” abbandona il Canale di Burana e svolta a destra verso il Canale Boicelli. Ai lati le periferie di Ferrara fino alla conca di Pontelagoscuro. Quando ormai intravediamo sull’altra riva Santa Maria Maddalena, che è già provincia di Rovigo, ci immettiamo nel Po a favore di corrente, avendo a destra l’Emilia Romagna e a sinistra il Veneto. Puntiamo verso Ro. Anche se siamo lontani dalla foce la sinuosità è accentuata, con la vista che si perde nella pianura verde mentre il battello procede lentamente e senza ostacoli. Dopo 16 chilometri attracchiamo e, ormeggiando alla golena turistica, puntiamo alla prima tappa, il “Mulino del Po-Museo del Pane”.
Qui si celebrano Bacchelli e, ormai, la sua mitologia. Con il rischio, inevitabile, che il suo mulino si confonda con quello toscano, bianco secondo il marchio, della fabbrica di biscotti. Per il pranzo optiamo per la soluzione più facile. Siamo lontani dal ristorante “Il Mulino del Po”, che si trova in corrente contraria molto prima della nostra immissione dal canale al fiume, potremmo andare alla “Bottega del Po”, un’osteria al centro di Ro di cui mi hanno parlato bene ma che è un po’ distante, e allora optiamo per un ristorante sul fiume, “Vento di Supa”: buon pesce e anche ben cucinato. Dopo la visita del parco fluviale ritorno a Ferrara. La vacanza è finita.
Ancora una mattinata in giro e poi alla stazione: “Italo” parte alle 15,11 e arriverà a Napoli alle 19,28. Mentre aspettiamo il mio sguardo si ferma su una targa di marmo. Mi ricorda che «in questa stazione il 19 ottobre 1943 sostò il treno della Shoah con 1023 ebrei di Roma deportati dai nazisti verso lo sterminio di Auschwitz». Per non dimenticare.
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POST SCRIPTUM
Questo viaggio io non l’ho mai fatto. Sulla mia scrivania ho i biglietti di andata e ritorno di “Italo”, la ricevuta dell’agenzia per il soggiorno nell’hotel Mercure e le mail con la prenotazione della escursione sul Po da Ferrara a Ro. Poi è arrivato il virus e ogni programma se n’è andato a quel paese. Ma un viaggio si può fare anche con la mente, con i libri, con i film, con uno sceneggiato televisivo, con le immagini, con la ricerca di notizie e curiosità. A Ferrara ci andrò in ogni caso, quando tutto sarà finito, con lo stesso treno, nello stesso albergo e sullo stesso battello, con i voucher che mi sono stati dati a causa dell’emergenza. E, quindi, verificherò se quello di ora è stato un viaggio inventato e confronterò anche per capire se sia più affascinante il viaggio della mente o quello della realtà.
*MATTEO COSENZA (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)
Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/ferrara-e-il-suo-romanzo-fra-bassani-e-bacchelli