Scruta il mondo da San Nicola da Crissa da quando è nato settantadue anni fa: «Vivo nella casa in cui sono nato, l’unica che possiedo grazie a mio padre che è stato più bravo di me a ipotecare il futuro… dormo nella stanza in cui sono nato e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore… Le strade sono vacanti, assenti i rumori… Il paese che ho visto pieno adesso è vuoto. I compagni che partivano pensando a un ritorno poi non sono più tornati… Il luogo che volevo cambiare mi ha, forse, cambiato. L’esilio non l’ho scelto io, mi è arrivato a casa».
Poco più di un migliaio di abitanti, il piccolo paese è nel cuore della Calabria, sulle Serre Vibonesi, quasi a metà strada tra la tirrenica Vibo Valentia e la ionica Soverato. L’antropologia di Vito Teti nasce lì, nella stradina in cui è nata la sua famiglia poi disgregata dall’emigrazione con il padre andato in Canada e cementata da una madre, come nella tradizione di quella terra, forte e dolce, rigorosa e protettiva. San Nicola da Crissa diventa così l’ombelico del mondo, dove tutto e nulla cambia, da dove fare i conti con la cultura, i grandi “viaggiatori”, gli antropologi, gli umili, gli scrittori a partire da Corrado Alvaro, il più grande, del cui lascito culturale diventa il tutore. Intanto insegna, scrive, partecipa agli incontri da un capo all’altro della sua regione, del paese, del mondo, e giorno dopo giorno non molla la presa sui temi che dominano il suo orizzonte vasto per quanto scrutato dal finestrone del suo studio. E apprende rapidamente, senza allontanarsi da casa, che la storia entra dappertutto senza bussare: glielo ricordano la teca conservata nel municipio con un’aorta di Carlo Poerio e il Risorgimento che ritorna in primo piano con la storia di amore e di modernità del patriota Antonio Garcèa (rinchiuso più volte in carcere per la sua lotta contro i Borbone) e Giovanna Bertòla, giovane maestra piemontese e femminista ante litteram con il suo giornale «La voce delle donne».
Ecco, non si capirebbe Vito Teti, il maggiore intellettuale della Calabria, cresciuto alla scuola di Luigi Lombardi Satriani scomparso in questi giorni, se lo si estrapolasse da questo mondo di cui è diventato voce, interprete e protagonista. Ma poi si legge il suo ultimo libro, “La restanza” (Einaudi, pagine 160, euro 13) e si mette in fila, in una sintesi prodigiosa e stupefacente, il lavoro intenso di una vita, la vita stessa. Appena di qualche mese precedente la pubblicazione per i tipi di Rubbettino di “Homeland”, un grande volume fotografico (anche immagini di Salvatore Piermarini), quasi cinquecento pagine sulla “Little Italy” di Toronto dove nel ‘900 gran parte di San Nicola da Crissa si trasferisce, ricreando altrove la comunità, la nuova patria: «Mi sento “mio padre” – scrive – e penso a quanto sia stupefacente dover compiere un viaggio oltreoceano per tentare di ricomporre frammenti di un’identità spezzata, per potermi riconoscere meglio».
La restanza, dunque, è l’approdo di chi ha dedicato studi e ricerche ai luoghi e al loro senso, la restanza come un altro modo di viaggiare. Perché, ha scritto Mario La Cava, «non è necessario lasciare la propria terra per affermare il valore della propria creatività. In fondo chi decide di viaggiare, il mondo può solo guardarlo, mentre chi mette radici può capire di più il significato della realtà che lo circonda, può interpretarlo. Sono le idee che devono viaggiare, più delle gambe degli uomini».
In realtà gli uomini viaggiano per tanti motivi e, quando il viaggio diventa abbandono dei luoghi natii diventati troppo periferici e scarsamente serviti, la desertificazione dei piccoli centri diventa inevitabile. Gli emigranti, per esempio, partivano perseguendo “inconsapevoli strategie di non ritorno”. Cosicché a loro, “uomini senza donne” che hanno popolato le mille città del mondo, hanno dato un senso le “donne senza uomini” rimaste nei paesi e nelle campagne. L’emorragia, per motivi diversi e via via sempre più rapportati non solo al bisogno primario del lavoro ma anche ai modelli di vita della modernità, ha svuotato i piccoli centri di persone, di relazioni, di senso.
E quando il processo è quasi arrivato a un punto di non ritorno e mentre sul nostro percorso incombono i grandi mali del pianeta, ecco che si avvia un viaggio all’incontrario, non affollatissimo come quello della fuga ma significativo, di un bisogno di ritorno che sembra fondarsi sul sentimento della nostalgia.
Teti si e ci pone domande “fecondamente inquiete”: «Forse la nostalgia è davvero la natura dell’uomo che è condannato ad essa sia quando parte sia quando resta… perché l’uomo è un animale nostalgico sia che viaggi sia che resti fermo? Non sarà la nostalgia la condizione naturale e culturale del “sapiens”?». Pavese ci ricorda che “un paese ci vuole”, ma Teti avverte che “al paese non si torna”. E se prevalesse la “nostalgia restaurativa in cerca di un passato esemplare e ripulito da ogni contraddizione,” si seppellirebbe “quel poco che, del paese, resta”. E allora? «Se la nostalgia diventa una strategia per inventare il paese, se lo stesso ritorno è il paese da inventare, allora quel che resta è un universo mobile. Dinamico, che può essere riscritto nella sua feconda inquietudine “mitica”. Serve ascoltarlo. Riguardarlo, prendersene cura, nominarlo».
Restare oggi presuppone che i paesi possano diventare “luogo di un possibile futuro” a condizione che siano pensati in maniera nuova, che si affermino diversi modelli di sviluppo, mutamenti di stile di vita, usi adeguati delle risorse, un rinnovato rispetto del territorio. «Non si prospetta – avverte l’antropologo – un improponibile ritorno al passato mitizzato del paese, ma si esprime la consapevolezza che le zone interne hanno un enorme capitale di risorse ambientali, paesaggistiche, culturali. Il paese potrebbe ripresentarsi come un corpo aperto, dinamico, capace di accogliere, meta per chi cerca “altro” quando la metropoli degenera in un’omologante monotonia».
Restare, partire, tornare, viaggiare. E forse con tutti i viaggi e i ritorni che compiamo, non si fa altro che restare. Con Teti lasciamo la parola a Giorgio Caproni: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato un restare / qua, dove non fui mai».
*Recensione pubblicata su foglieviaggi.com il 10 giugno 2022
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