Prima o poi Paride Leporace avrebbe dovuto scrivere un libro su Giacomo Mancini. Ha colto l’occasione dei vent’anni dalla morte per consegnarci questo “Giacomo Mancini, un avvocato del sud” (Luigi Pellegrini editore, pag. 110, euro 13). Perché “prima o poi”? Per tanti motivi che attengono alla sua direi filiale frequentazione e collaborazione con Mancini, all’interesse per il politico calabrese più celebre di un’abbondante metà del secolo scorso (non si adontino gli estimatori di altri, per esempio Riccardo Misasi), al suo essere calato non solo per natali nella regione e soprattutto a Cosenza, ma anche per il cognome. Ci ho pensato spesso da quando ho frequentato assiduamente la Calabria ricordando che Mancini mi disse nel mio libro-intervista un passaggio decisivo della sua biografia, vale a dire l’arrivo a Roma dopo l’8 settembre a conclusione di un lungo pellegrinaggio tra università di Torino e servizio militare nell’Aeronautica fino all’aeroporto militare di Novi Ligure: «Il mio primo incontro con l’antifascismo romano – mi raccontò – avvenne in un appartamento di Largo Argentina, occupato da Craveri, dove arrivai la prima volta con un mio caro amico cosentino, oggi affermato avvocato a Cosenza, Mauro Leporace, anche lui ex-ufficiale di commissariato aeronautico, simpatizzante del partito d’azione». Questi era lo zio di Paride.
Ciò detto, mi chiedo se ci fosse bisogno di un altro libro dopo quelli di Orazio Barresi (non amato da Mancini), di Enzo Paolini e Francesco Kostner sulle sue travagliate vicende giudiziarie, del figlio Pietro Mancini, soprattutto la puntuale biografia politica di Antonio Landolfi che con Mancini aveva avuto un legame amicale e politico ininterrotto, e senza voler ricordare ancora il mio? La risposta me la sono data alla fine della lettura, che è filata liscia in un sol colpo dall’inizio alla fine: merito del mestiere, della conoscenza e anche del taglio. Per quanto Leporace abbia seguito il filo del tempo la sua non è una biografia, piuttosto un ragionamento sul Sud come chiarisce il titolo dove per “avvocato del sud” sembra riferirsi a prima vista, grazie anche alla prima lettera minuscola, letteralmente a un avvocato delle nostre terre, e del resto Mancini non solo si era laureato in giurisprudenza a Torino con Florian, giurista di fama, ma esercitò anche la professione difendendo la parte civile per i fatti di Portella delle Ginestre. In realtà la definizione ha un valore più pregnante che vuole il Sud non solo come un’entità territoriale.
Va anche ricordato che nella vita ricca e tumultuosa di Mancini potrebbe risultare azzardato localizzare il suo impegno perché si trascurerebbero periodi ed eventi rilevanti quali le attività di ministro (si pensi solo alla vaccinazione antipolio, alla legge urbanistica, all’impegno dopo la frana di Agrigento, alle grandi opere dei lavori pubblici), di partito (segretario del Psi con annessi e connessi), di vigile guardia a difesa dei diritti civili e contro le deviazioni (il ruolo dei Servizi, il Sifar, gli ermellini), la navigazione perigliosa nei paraggi del terrorismo, ma la cifra è che la difesa del Sud maiuscolo è stata sangue e vene del suo lunghissimo itinerario pubblico.
Leporace mette a fuoco in maniera intrigante i periodi essenziali, scegliendo fior da fiore, e, pur in un contesto comprensibilmente partigiano, con parole e aggettivi fulminanti non elude aspetti criticati del politico, come, tra tutti, il suo ruolo nella tragica e cruciale vicenda della rivolta di Reggio o il rapporto tra consenso e voti che nel Mezzogiorno ha fatto non pochi guai o ancora l’aver privilegiato figli e nipoti e non aver lasciato eredi politici. Ma alla fine il bilancio non è in rosso. L’autostrada, l’università di Arcavacata, il porto di Gioia Tauro per quanto sorto sull’aborto del Quinto Centro Siderurgico e sulla distruzione abominevole di un patrimonio ambientale e produttivo di prima grandezza, sono titoli che resteranno nel tempo.
Il finale del libro e anche della vita di Mancini, un “socialista inquieto”, è fatto di spine e di un fiore. La spina politica che lo turberà nel profondo è l’emarginazione nel partito, il parricidio da parte di Craxi che al Midas proprio lui aveva portato al vertice e che fu ripagato con una clamorosa deposizione al tribunale di Milano in un processo di Mani Pulite. L’altra, dolorosissima ferita, fu quella che avvelenò i suoi ultimi anni quando dovette difendersi dall’accusa velenosa e vergognosa di contiguità con la ‘ndrangheta. La rosa – la capacità di politico di razza che risorge dalle ceneri ad ogni caduta – fu la totale, piena e definitiva riconciliazione con la sua Cosenza. Sindaco amato e venerato, ha lasciato i segni indelebili di una visione riformistica nell’amministrazione, nella cultura, nelle opere, nella promozione coraggiosa di uomini e donne anche scomodi. Leporace si commiata con un’immagine forte dei funerali in cui si evocano e rimpiangono i simboli di una tradizione politica unica, dai proletari del “Quarto Stato” al feretro accompagnato dalle bandiere rosse, e chiude con due righe dolenti: «…quel socialismo umano e garantista di cui in forme moderne sentiamo ancora il desiderio e il bisogno». Quella sua statua appena installata davanti al Palazzo dei Bruzi sta lì a ricordarcelo.
* Articolo pubblicato sul Quotidiano del Sud il 7 maggio 2022