Cinquant’anni di vita e, si può dire, non li dimostra. L’Università della Calabria nacque da una vicenda tragica, gli scontri per Reggio capoluogo, uno stato d’assedio senza precedenti nella storia repubblicana, concluso con la sfilata dei carri armati per le strade della città e sancito da un compromesso, il Pacchetto Colombo, che spezzò in due la nascente Regione, con sede del governo a Catanzaro e sede del consiglio a Reggio: al riguardo va detto con il senno di poi – ma le cose erano chiare anche allora – che non c’era modo migliore per far fallire la nuova e tanto attesa articolazione dello Stato. Piuttosto va sottolineato il ricordato pacchetto Colombo: centro siderurgico a Gioia Tauro (mai nato mentre venivano distrutti terreni altamente produttivi per far posto al porto), un po’ di mance qua e là e la nascita dell’Università a Cosenza. L’ateneo fu poi realizzato sulla collina di Arcavacata nel comune di Rende, dall’altra parte del pianoro su cui sovrasta con gli splendori del passato la vecchia Cosenza.
Nacque come qualcosa di nuovo, un campus, grazie a una personalità straordinaria quale Beniamino Andreatta ma il parterre, se pensiamo solo a Paolo Silos Labini, era di prim’ordine. E tali furono i progettisti e poi i docenti che calarono su quei cubi e su quel ponte per scommettere sulla Calabria delle idee e delle competenze e su un altro Sud.
Scommessa vinta? Bisogna chiederlo alle migliaia di studenti che lì si sono fatti le ossa e si sono laureati. Molti sono andati via, e continuano a farlo, ma questo è un altro problema che non attiene alle responsabilità dell’Università, che forse nel tempo ha accumulato il limite della separatezza, vale a dire la carente ricaduta del suo ruolo sulla società calabrese nei suoi vari aspetti, politica in primis.
Se ne può discutere, ma su un fatto non ci sono dubbi: per quanto dentro un compromesso che alla fine è risultato un fallimento per la Calabria, quella scelta fu giusta. La Calabria sarebbe davvero altra cosa senza quell’ateneo, che è un patrimonio concreto di intelligenza e di studio, di competenze e di cultura, anche di tensioni gravi e in qualche modo vitali se solo si ricordano gli anni tempestosi del terrorismo quando da quelle parti si aggiravano arcavacanti e lupi mannari.
Nei miei anni di lavoro in Calabria, terra che frequentavo anche prima e continuo a farlo con gioia immensa, ho sempre pensato che quell’università potesse essere la leva per invertire la storia calabrese, nel senso di rinnovarla, darle un colpo d’ala, liberarla dalle catene del pregiudizio e della cattiva percezione interna ed esterna. Finora non è stato così o lo è stato solo in piccola parte, ma sono sempre convinto che da lì potrebbe venire la sterzata che cambia in profondo lo stato di cose. L’augurio è che ciò possa avvenire nei prossimi cinquant’anni ma da subito e non tra cinquant’anni, soprattutto che i giovani non si sentano in transito in quelle aule: vadano pure altrove in un mondo senza confini ma possano anche ritornare altrimenti la loro sarebbe una fuga, il peggio che possa capitare e che finora è capitato troppo spesso.