Chi scrive convive da tempo con la dolente sinfonia delle sirene. Affacciandosi su una strada che collega i maggiori ospedali di Napoli e del Sud il noto e ormai familiare suono segnala il passaggio, spesso faticoso, delle ambulanze con il loro carico di sofferenza e di speranza. In tempi normali. Da un anno, capirete, la musica è cambiata, naturalmente d’intensità e durata. L’orecchio vigile si è abituato a intuire l’andamento della pandemia. In certi giorni e in certe ore non occorrono le statistiche per capire che non va bene. La pena è grande soprattutto quando, ancora nel buio che non cede alla luce, il suono fa pensare a chi è dentro quel veicolo, in primo luogo il paziente, che forse sta per intraprendere l’ultimo doloroso viaggio e, con la fame di aria che lo angustia, ipotizza questo lugubre scenario senza neanche il conforto di una moglie o di un figlio, ma anche agli altri viaggiatori che, per quanto allenati per professione, faticano a nascondere la solidarietà e anche la preoccupazione per il contagio.
Chi scrive farebbe a meno di questa colonna sonora e potrebbe tranquillamente trasferirsi in quartieri e strade meno… rumorose. Ma sa che si è parte di una comunità, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore. Ed è grato a un paese che ha tra i suoi comandamenti lo stato sociale, la cura della salute, l’assistenza ai più fragili e deboli, ai malati di ogni ceto e condizione, e la prevenzione delle malattie. Pur con tutti gli errori, i ritardi, le storture, le intromissioni affaristiche, deprecabili e intollerabili ma che non ledono il principio su cui si fonda la sanità pubblica. E quelle sirene suonano le note di questa religione civile. Meglio non sentirle, soprattutto perché si spera che non ce ne sia la necessità, ma ci sono e siano benedette.
Ora, come si fa a digerire l’oscena provocazione di quegli scooter che minacciosamente gironzolano, come sentinelle della quiete camorristica, attorno alle ambulanze! Questo cancro che vive intorno e insieme a noi, con la sua metastasi devastante, ce ne fa vedere di tutti i colori. L’elenco è lungo ed è a tutti noto. Spazi pubblici occupati e inviolabili, stese, spaccio, pizzo, guerre tra i clan e tutto il vocabolario della sopraffazione spicciola e organizzata. L’ostentazione del potere è emblematica in murales e altarini che, trasformando giovani delinquenti in eroi, condannano questi per la seconda volta: non solo per essere stati allevati, incolpevoli, in un ambiente che non gli offriva molte scelte, ma anche per assegnargli da morti un marchio atroce e indelebile. E tralasciamo l’altra faccia della medaglia: lo stucchevole spettacolo delle autorità, dal ministro al magistrato e al prefetto, impotenti a imporre il ripristino del decoro prima ancora che della legalità a un Comune che scarica sui condomini il cerino acceso della responsabilità di rimuoverli. Tralasciamo? Si fa per dire.
Ma questa contro le sirene è una performance che va oltre. Perfino peggio delle violenze ricorrenti negli ospedali da parte di parenti contro medici, infermieri e dipendenti sanitari, perché queste, pur nella loro odiosa manifestazione, potrebbero… ripetiamo, potrebbero avere una spiegazione vuoi per una malintesa cattiva assistenza vuoi per comportamenti ritenuti inadeguati. Le sirene che danno fastidio sono un gradino in più in questa escalation. E, mentre rappresentano l’ostentazione di un potere supremo, sono anche autolesioniste perché un intralcio, che sia quello di strade invase da auto selvaggiamente parcheggiate o di un’azione per silenziare le ambulanze, potrebbe eventualmente ritardare l’assistenza anche alle famiglie dei camorristi. O in quel caso si puniranno gli autisti delle ambulanze perché non si sono fatti sentire a sufficienza? Si sa, prepotenza e stupidità vanno a nozze.
*Articolo pubblicato il 3 febbraio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno