Franca e Silvia Chiaromonte hanno raccontato a “Infinitimondi”, la rivista curata dal vulcanico Gianfranco Nappi, la storia di una famiglia comunista. Per l’ormai imminente centenario della nascita del Pci è stata concepita un’iniziativa particolarmente significativa e importante: raccogliere testimonianze, scritti, documenti e realizzare iniziative editoriali per tutto l’arco del 2021 che consentano di celebrare in maniera non formale un anniversario così rilevante e di ritrovare il senso di una storia collettiva che è stata così intrecciata con quella del nostro paese.
Franca e Silvia sono le figlie di Gerardo Chiaromonte, dirigente di prima grandezza del Partito comunista, e di Bice Foà, “donna, ebrea e comunista”. Il racconto che “Repubblica Napoli” ha pubblicato è molto bello e consente di entrare dalla porta di casa nella vita di una magnifica famiglia che ogni giorno deve conciliare l’attività politica con le esigenze vitali dei suoi componenti, non ultime ovviamente quelle delle due bambine. Per chi lo ha conosciuto leggere questo Gerardo Chiaromonte intimo non è una scoperta ma solo un riandare a un tempo in cui etica e politica, ideali e coerenza, cultura e impegno viaggiavano all’unisono. Chiaromonte, la persona più lontana dalle mode e dall’ostentazione, è stato uno dei massimi dirigenti di quel partito. Per dire, in tutta la fase in cui la linea del compromesso storico fu sostenuta da lui con forza di fatto fu il dirigente politico più vicino a Berlinguer ma non ne condivise la decisione di abbandonarla sostituendola con l’alternativa democratica..
Di lui si è scritto e si dovrà scrivere ancora, ma un passaggio dell’intervento delle figlie merita di essere particolarmente sottolineato, vale a dire quando ricordano: «Nel 1993 papà muore e il suo ultimo discorso alla federazione di Napoli è noto a tutti: sul pericolo di un giustizialismo dilagante, dovuto anche agli enormi errori compiuti. Discorso che si conclude con una dichiarazione di amore nei confronti del partito e di Napoli del tutto irrituale per lui così schivo e riservato nei sentimenti». Vide, cioè, con lucidità che cosa incombeva sul futuro del partito e dell’Italia. Per un uomo per il quale la politica era tutto e la questione morale un dato ineliminabile, le soluzioni ai problemi erano legate a scelte politiche e azioni conseguenti. In sintesi, per lui le scorciatoie, soprattutto quella giudiziaria, erano errori politici gravissimi che avrebbero avuto sviluppi negativi nell’immediato e nel tempo. Se ci pensate, oggi il tema di un giustizialismo ricorrente è centrale nella società italiana. Basterebbe ricordare solo l’ultima clamorosa diciannovesima assoluzione di Antonio Bassolino per capire quanto Chiaromonte avesse visto in profondità e lontano.
Le scelte di allora, così drammatiche e devastanti, dovrebbero essere oggetto di ricerca storica se non fossero di fatto ancora presenti nella vita di oggi anche perché quello di Bassolino, ripeto, è solo uno degli innumerevoli episodi del “giustizialismo dilagante”. Quando, tanto per restare alla stretta attualità, per la gestione di un’emergenza pandemica in Calabria non si sa se rivolgersi ai magistrati o ai tecnici della materia, escludendo di fatto la politica, si capisce bene che c’è qualcosa che non funziona. Certo, è anche difficile stabilire se questo stato di cose sia il risultato di un protagonismo eccessivo dei magistrati o del fallimento della politica. Piuttosto c’è da chiedersi se tutto questo non sia anche conseguenza delle scelte di allora. Il Pci, ricordiamolo, era impegnato a chiedere una seria e radicale riforma della giustizia, le sue battaglie contro i “porti delle nebbie” e gli affossatori delle sentenze erano state memorabili, poi di fatto, senza neanche che ce se ne accorgesse, passò un’altra linea. L’antipolitica era in agguato e fu poi difficile affrontarla e batterla. Chiaromonte vide e segnalò il pericolo.