Carissimo Matteo,
a poche ore dalla presentazione vomerese di “…casomai avessi dimenticato” – in uno spazio, la Libreria Iocisto, che mi è caro, tra l’altro – sento il bisogno, dopo decenni di lavoro gomito a gomito, di rivelarti cosa davvero penso di te e del modo straordinariamente limpido e rigoroso con il quale intendi e pratichi il giornalismo. Ma anche l’appartenenza ad un partito.
È roba che rimuginavo da tempo (navighiamo nello stesso mare da molti decenni e la bracciata è ancora in qualche modo vigorosa anche se non vediamo avvicinarsi il traguardo), ma la tua performance mi costringe a rompere il silenzio. Sopra ogni cosa il giudizio estremamente positivo scaturisce dal fatto che ho apprezzato, oltre la qualità della scrittura e la forza evocativa dei racconti, il coraggio civile di prendere di petto la vita che pensiamo di esserci lasciati alle spalle e che, invece, ci segue. E di rimetterla in discussione per trarne insegnamento.
Avevo tenuto per me questo stato di animo ripromettendomi di parlarne in seguito con te, chi sa quando e chi sa come, ma stamani, come un lampo, mi è venuta, irresistibile, la voglia di rompere ogni indugio. E di affermare che il vissuto di ognuno di noi è parte vitale del nostro presente: il volo di Mimmo – il suicidio di Mimmo Maresca, un affermato quadro del Pci ma anche un tuo compagno dei sogni giovanili – è la chiave per capire tutti gli avvenimenti che come uno splendido mosaico compongono la trama del libro.
E io aggiungo anche un’altra considerazione che per onestà intellettuale tu non fai: ognuno nella vita si trova a dover superare una prova estrema, il problema, come ammonisce Renzaccio Arbore, è avere il telecomando giusto. A te accadde a Torino e tu dici che fu la bontà del compagno Pino a salvarti. È vero, probabilmente, ma il figlio del “compagno Saul” era venuto su forte e rigoroso. E avrebbe saputo ritrovare una strada senza ponte. Carlo Franco