di PROCOLO MIRABELLA

Consiglio a tutti la lettura dell’ultimo bel libro di Matteo Cosenza “Casomai avessi dimenticato”. Giornalista di razza qual è sempre stato Cosenza, Matteo, come per me e per gli amici e i colleghi che hanno avuto la fortuna di incrociarlo nella vita e nel lavoro è affettuosamente e inequivocabilmente sempre stato chiamato, lo riconosci nell’incedere della narrazione. Leggi e senti la voce rotonda e intelligentemente sorniona, ironica, mai banale, appassionata a tratti sinceramente commossa di Matteo che racconta e ti fa ricordare. Naturalmente, non voglio minimamente entrare nei contenuti, negli spunti, tanti, politici, storici, giornalistici, sociali che l’amarcord della sua vita professionale propone al lettore. No. Voglio rimanere sull’onda delle emozioni che la narrazione ti, o quantomeno, mi smuove dentro. E qui posso garantire che lo scossone c’è tutto. Un salto nel tempo che il titolo preannuncia e nel quale chi legge viene catapultato, come in un velocissimo ed efficacissimo flash back. Mi fermo qui per non rovinare la sorpresa di chi leggerà. Ma non senza qualche ultima notazione e qualche ricordo personale che voglio dedicare io a Matteo. 

Innanzitutto, un doveroso riconoscimento all’amico, collega e mio primo direttore alla “Voce della Campania”: perché ,quasi certamente, senza di lui e senza l’iniziale apprendistato in quella specialissima palestra, la “Voce” appunto, ricordata da Matteo, giornalisti, io e tanti altri futuri bravi professionisti non saremmo mai stati. E infine qualche aneddoto, davvero personalissimo. Su tutti un episodio per cui Matteo mi ha sfottuto per anni. Io in verità non mi ricordo sia andata proprio così. Ma siccome era il direttore gliel’ho sempre fatta passare. Ero da pochissimo semifisso, semiabusivo come tutti i ragazzi di via Cervantes 55 nella redazione della Voce. Timidissimo, timorosissimo di sbagliare qualcosa. E un giorno Matteo mi fa: esco un attimo, vedi se squilla il telefono. Esce e quando torna mi chiede: allora? Ha squillato? Sì, gli rispondo. E chi era? Ah questo non lo so, avrei detto io all’incredulo direttore: mi hai chiesto di controllare se squillava, non di rispondere… Avendo preso più confidenza, qualche anno dopo, mi vendicai, e alla fine del pranzo che facevamo nella pausa del lavoro di tipografia in un ristorante vicino alla mitica “Arti grafiche Boccia”, a Pontecagnano, Salerno, dove si stampava il quindicinale, io e quello scapocchione di Marino Marquardt facemmo servire a Matteo il caffè condito col sale… ci voleva uccidere, prima che tutto finisse in una irrefrenabile risata collettiva. Erano quelli gli anni. Eravamo ragazzi. I ragazzi di via Cervantes 55. E grazie a Matteo per avercelo ricordato.