Ha ragione Arnaldo Amato a ricordare la seconda condanna caduta sul capo dei familiari delle vittime del terrorismo, dopo quella della perdita insanabile di un padre, di un fratello, di un marito: l’oblio. O, peggio ancora, il dover assistere all’esibizione, spesso guardata benevolmente da chi la promuove, degli assassini che, talvolta sorridendo, raccontano le loro gesta senza mostrare non dico pentimento ma almeno un po’ di pietà per i morti. A questa infamia se ne aggiunge infine un’altra non meno dolorosa: la scomparsa dalla memoria collettiva dei caduti, come dire?, di serie B. Chi volete che possa occuparsi dopo tanti anni di Raffaele Delcogliano o di Pino Amato, due assessori regionali uccisi perché facevano bene, troppo bene il loro lavoro. Il primo stava operando con intelligenza nella delicata materia del lavoro, il secondo aveva colto il nodo cruciale della crisi strutturale della Regione. E di quest’ultimo, stimolato dalla bella lettera del figlio al direttore pubblicata domenica, voglio parlare.
Pino Amato fu la grande sorpresa della Regione. Quando morì erano trascorsi appena dieci anni di vita della nuova istituzione. La sua nascita era stata accompagnata da grandi speranze, la gente l’aveva colta come un’occasione di sviluppo reale, la possibilità di rimettere insieme “osso” e “polpa”, di ricucire il rapporto, mai saldo, tra zone interne e la costa, Napoli soprattutto. Lo Statuto suggellò questo cammino. Poi la delusione, ci si accorse che a Santa Lucia avevano preso il sopravvento la brutta politica e le vecchie pratiche.
Amato, direttore amministrativo del Formez, fu consigliere comunale di Napoli fino al 1975 quando venne eletto alla Regione diventando nel 1978 assessore all’agricoltura e l’anno dopo al bilancio e programmazione economica. Con Paolo Cirino Pomicino e Enzo Scotti era uno dei tre esponenti della corrente andreottiana della Dc, particolarmente attiva in quegli anni con il gruppo “Nuova Napoli” contro la corrazzata dorotea dei Gava. Anche per questo noi giornalisti di sinistra li seguivamo con particolare attenzione: ci davano sempre materia per scrivere.
Si diceva che il vero organizzatore del gruppo fosse Amato, essendo nota l’effervescenza di Pomicino e il volare alto di Scotti, tanto alto da sganciarsi negli anni a venire dal “Divo”. Amato emerse con tutto il suo spessore da assessore regionale all’agricoltura quando produsse atti rilevanti, come è documentato dal volume che raccoglie i suoi scritti, i due documenti sull’agricoltura e le relazioni al bilancio che gli valsero la condanna a morte da parte delle Brigate Rosse.
«La Regione è bloccata da un “circolo vizioso”». Nelle relaziono al bilancio di previsione del 1980 e del bilancio programmatico 1980-1982 affondò il bisturi nel cancro. Uscite correnti esorbitanti, attorno al 70 per cento, si combinavano con l’incapacità di spesa e la formazione di residui passivi nell’ordine delle migliaia di miliardi. In secondo luogo, anche per effetto del trasferimento di gran parte del personale da Comuni, Province e altri enti locali, la Regione si era strutturata su un modello organizzativo che rifletteva i difetti degli enti di provenienza. Il risultato finale era quello di una sostanziale impossibilità di pianificare, legiferare e spendere, mentre cresceva a dismisura la funzione amministrativa, indirizzata per lo più a deliberare sulla gestione della spesa corrente, cosicché la Regione, diventando di fatto un mega-municipio, veniva meno ai suoi compiti statutari.
Le Br, molto attente a colpire i “cervelli” migliori del sistema, leggevano i suoi documenti, così come facevamo in alcuni giornali. Ero in quel periodo il responsabile dell’edizione notte di Paese Sera e seguivo anche l’attività della Regione e in particolare di Amato anche per le sue aperture al Pci. Il 17 maggio 1980, era sabato, ospitai lui e il professore Alfonso Di Maio, consigliere regionale del Pci per un “faccia a faccia” sul bilancio. Un denso confronto nella redazione di piazzetta Matilde Serao a quell’ora deserta. Poi li accompagnai alla porta, ma quel percorso di qualche decina di metri durò un’eternità. Amato parlava, si fermava, si mostrava stranamente preoccupato, io e Di Maio ogni tanto ci guardavamo un po’ meravigliati, infine restammo davanti all’ascensore del terzo piano per un tempo lunghissimo, sembrava che non volesse andarsene e stesse per dirci qualcosa. Dopo una mezz’ora mi telefonò Di Maio per commentare quel comportamento, ma non sapemmo spiegarcelo. Il giorno dopo pubblicai il resoconto di quell’incontro.
Nel primo mattino di lunedì 19, una giornata di sole, mi ero affacciato quando sentii il suono di sirene spiegate. Da piazza Plebiscito sbucarono alcune auto. Le vidi sfrecciare davanti al San Carlo, su una intravidi un corpo accasciato sul sedile posteriore. Era quello di Pino Amato, che dopo poco sarebbe stato adagiato sul marmo dell’obitorio del Pellegrini. Scrissi un articolo per il giornale che dopo poche ore era in edicola e raccontai anche quello strano commiato di due giorni prima. Nei giorni seguenti Scotti, Pomicino, Enzo Giustino, tra gli altri, vollero incontrarmi per sapere di più di quella preoccupazione che Amato aveva trasmesso a me e a Di Maio. Fui anche a casa della vedova, Mariolina, a Palazzo Cellammare. Di Maio lo sentii per telefono. Addolorati per non aver capito che cosa voleva dirci e che non gli avevamo sollecitato a dire, ci dicemmo che mentre noi eravamo con lui, nelle stesse ore alcuni giovani con il fumo in testa e le pistole in tasca stavano studiando gli ultimi dettagli dell’agguato in vico Alabardieri. Oggi sono molto ascoltati, mentre l’oblio è calato sulla vittima: una persona di valore, limpida, impegnata, una risorsa di questa terra dalla memoria spesso corta.
Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 22 maggio 2018