Michele Albanese vive sotto scorta. In un pomeriggio di sei anni fa gli telefonarono dalla Polizia e gli intimarono di recarsi immediatamente in Commissariato. Da una cimice posta in un’auto avevano appena intercettato la telefonata di due bastardi che parlavano dell’ordine di ammazzarlo ricevuto dal loro capo ‘ndrina, un latitante che devastava quel comune e le aree circostanti della Piana di Gioia Tauro. Immediata la decisione di assegnarli la scorta e da quel momento la sua vita non è stata più la stessa.
Albanese è un giornalista che viene da lontano, dalla militanza giovanile negli ambienti cattolici, una breve frequentazione di Comunione e Liberazione, e poi la professione della sua vita. Meticoloso, preciso, documentato, difficile prenderlo in castagna e casomai zittirlo con una querela. Ovviamente facendo il corrispondente – tale è rimasto, neanche un articolo uno nonostante lo stato in cui si trova – di una zona controllata dalla ‘ndrangheta non poteva non occuparsi di questa, ma è anche il professionista più esperto in materia di porti, logistica e quant’altro, come sanno gli inviati che da anni calavano nel suo territorio e si avvalevano dei consigli che generosamente dispensava per di più portandoli in giro per la sua terra, una competenza così riconosciuta che perfino i dirigenti dell’autorità portuale di Gioia Tauro lo consultavano per avere consigli. Ma tutto ciò è passato, fa parte della vita precedente, anche se lui continua a lavorare e a produrre corrispondenze quotidiane, ma lo fa in condizioni di estrema difficoltà e fatica. Comunque lo fa perché non molla, nonostante il tribunale della malagente non abbia chiuso bottega e la sentenza di condanna a morte non sia andata in prescrizione nonostante il latitante sia stato arrestato.
Michele, che non ha nulla da spartire con giornalisti che passeggiano in via Condotti  con giubbotto antiproiettile in vista e seguito di telecamere e fotografi, esce poco di casa perché non solo si preoccupa  della propria sicurezza ma anche del disagio che può provocare ai passanti. Michele ormai non sa più cosa sia andare in un bar con moglie e figlie e gustare un tartufo di Pizzo perché teme per loro in caso di un agguato. Michele declina, gliel’ho visto fare l’altra sera, un invito a cena che lo farebbe felice per non approfittare della scorta dei due “ragazzi” che da anni lo proteggono e che “hanno anche loro famiglia”. Michele non va a un funerale perché si potrebbe creare una situazione complicata e allora si reca il giorno dopo al cimitero e dà privatamente le condoglianze a parenti o amici. Michele ha paura che lo ammazzino ma lo nasconde perché non vuole trasmetterla ai familiari che da sempre e da sei anni più che mai temono per la sua vita: la figlia Maria Pia ha incominciato a capirlo da bambina quando a scuola qualche sua coetanea diceva ad alta voce che il suo papà era un amico degli sbirri. Michele è un uomo forte ma quando l’ho sentito parlare al microfono non riusciva a fermare il tremore delle mani e un medico che era con me mi ha detto che da tempo lo aveva notato. Michele, dunque, continua la sua missione professionale in uno dei luoghi più pericolosi del paese, in territori dove capita che lo Stato sia il nemico e l’antistato il dominus. Ma lui sapeva e sa che questo era il rischio e lo ha affrontato e lo affronta con la consapevolezza che o faceva così il giornalista o era meglio cambiare mestiere. Ciò che non si aspettava era l’insinuazione fatta circolare in ambienti per così dire garantisti che addirittura le minacce se le sarebbe mandate da solo pur di diventare un paladino antindrangheta.
Indubbiamente il garantismo è un modo saggio di valutare gli atti di giustizia specie quando i magistrati commettono errori che ledono diritti e dignità delle persone e soprattutto quando sembra prevalere la loro voglia di protagonismo, ma in una regione come la Calabria è facile, in nome di questa pur necessaria azione critica, finire nel negazionismo secondo cui da “tutto è ‘ndrangheta” si passa a “la ‘ndrangheta non esiste”. Non è vera nessuna di queste due affermazioni, ma è acclarato che la ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale più potente del mondo, non sia un’invenzione dei giornalisti: essa è il cancro più devastante di quella terra nella quale alligna da tempo e che sarà debellato solo grazie a un impegno combinato dello Stato e dei calabresi, a una strategia culturale, sociale, economica, politica e repressiva. Nel frattempo è fondamentale tutelare quelli che la combattono a viso aperto.
Non voglio confutare la celebre frase di Brecht a proposito dei popoli che sono beati perché non hanno bisogno di eroi, ma gli eroi servono. E servono da vivi e non da morti come Giancarlo Siani. La verità giudiziaria sulla sua morte è nelle carte ma c’è anche una verità che possiamo cercare nella nostra esperienza. Sappiamo da chi è stato ucciso e perché, ma Siani poteva essere salvato? Più volte sono affiorati dubbi, sospetti e anche veleni sull’ambiente che lui frequentava, ognuno può pensarla come vuole ma alla fine si resta con un pugno di veleno in mano. Piuttosto ci si deve chiedere perché Siani non fu protetto. Possibile che nessuno nella fila di comando di un grande giornale non si sia accorto che lui stava maneggiando ogni giorno una dinamite destinata a esplodere da un momento all’altro? Non serviva neanche una cimice per rendersene conto. Le sue corrispondenze rischiose ed esemplari per chiarezza e coraggio furono di fatto rubricate come ordinaria amministrazione e Siani si trovò solo, disperatamente solo, maledettamente solo. Si è molto discusso delle preoccupazioni che si avvertivano dai suoi comportamenti, ma come poteva non essere allarmato lui che sapeva di chi e cosa stava scrivendo e di non avere alcuna tutela come l’avevano il pretore o il carabiniere che gli passavano le notizie? Costruì da solo, perché per la sua limpida coscienza umana e culturale non avrebbe saputo fare diversamente, il proprio martirio.
Ecco, direi a proposito di Brecht, abbiamo bisogno di eroi come Michele Albanese e non di martiri come Giancarlo Siani. E perché questo sia possibile non lo si deve a loro, agli eroi che non mancheranno mai, ma a noi che non dobbiamo farli diventare martiri.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 25 settembre 2020