Nei giorni scorsi, ancora scosso dalla diciottesima assoluzione di Antonio Bassolino (diciotto come diciotto sono stati i processi intentati contro di lui in questi anni), mi è arrivato dalla Calabria un libro pubblicato da qualche mese dall’editore Luigi Pellegrini. Me l’ha mandato l’autore, Antonio Chieffallo, che ho conosciuto come collaboratore del “Quotidiano della Calabria” dalla zona di Lamezia. La copertina mi ha immediatamente incuriosito. Titolo: Non vergognatevi di me. E una foto di tre righe scritte a mano: «Non vergognatevi di me – sono innocente! papà». Ho iniziato a leggere e ho smesso quando sono arrivato alla fine. Questo non solo per dire che è ben scritto, ma perché sono entrato dalla porta principale in una tragedia familiare provocata dalla giustizia.
Nel 1993 il “papà” di Antonio, Leopoldo, era assessore regionale calabrese, più noto come sindaco storico (lo è poi stato fino al giugno scorso) di San Mango d’Aquino. Nasce socialista, di quella generazione di uomini potenti in Calabria, capace di strappare uno svincolo della Salerno-Reggio per il suo paese. Fu un personaggio della Prima Repubblica e, nonostante e, chissà, forse anche grazie alla sua assurda vicenda giudiziaria, ha potuto svolgere anche in questi anni funzioni pubbliche ed esercitare un potere reale nella comunità locale e regionale, con collocazioni politiche diverse. Ora è alle prese con un processo per reati tributari che avrebbe commesso da presidente di una società. Sicuramente l’attuale governatore della Calabria, Mario Oliverio, come precedenti governatori, lo tiene presente nella sua trama di governo. Ho riassunto per brevi cenni, per quanto con i rischi di una sintesi estrema, mi auguro non celebrativi né dispregiativi, il suo profilo per sgomberare il campo da un giudizio politico, che non è lo scopo di questo scritto, e lasciarlo libero per il racconto di ciò che gli capitò venticinque anni fa.
Antonio Chieffallo racconta da figlio il dramma del padre e, quindi, il suo e quello della famiglia, in particolare della madre che per i quattro mesi di detenzione del marito visse e non visse. Era il 20 dicembre del 1993, pochi giorni prima delle feste natalizie: «Non avevo sentito nulla. Nessun rumore, nessuna voce, niente di niente. Ma quando scesi in soggiorno, poco dopo le sette, trovai mia madre seduta sul divano con il viso stravolto. “Sono venuti due agenti in borghese, lo hanno portato in segreteria per una perquisizione.”». Antonio, che aveva 23 anni, si avviava a vivere i quattro mesi più brutti della propria vita.
Lo avevano arrestato, il padre, per l’appalto di una strada. Erano i tempi di “Tangentopoli”. Per settimane la famiglia brancolò nel buio, gli avvocati rassicuravano ma i giorni trascorrevano senza novità. Il primo contatto fu un biglietto portato quasi clandestinamente da un agente penitenziario, mosso a pietà, ed è quello riprodotto nella copertina e che dà il titolo al libro. Un capitolo è dedicato a uno “sbirro” che, nel notificare un documento, gironzola per la casa con commenti sarcastici sui tappeti costosi, i mobili di qualità e le altre piacevolezze della casa.
Alla famiglia Chieffallo, va detto, venne risparmiata la gogna pubblica perché, in netta controtendenza con quanto accadeva a quei tempi in situazioni analoghe in altre città, vasta fu la solidarietà della comunità, non solo quella socialista che in quel periodo non se la passava bene ma anche tra la popolazione e gli avversari politici. E pagine toccanti sono quelle in cui Antonio racconta la sua prima uscita, dopo l’arresto, nelle vie fino alla piazza del paese: temeva il peggio, il fastidio o l’indifferenza dei concittadini, il disprezzo e, forse, anche l’odio soddisfatto degli “altri”, ma scoprì che il dramma del padre aveva provocato incredulità e dolore e ne ebbe segni tangibili e confortanti.
Il 4 marzo 1994 Leopoldo tornò a casa. Il 6 maggio 1998 la sentenza: «La Corte assolve Leopoldo Chieffallo perché il fatto non sussiste». Nessuno dei pubblici ministeri che avevano dato avvio all’inchiesta era presente, solo un giovane magistrato, in servizio da pochi mesi, parlò per pochi minuti. Uno degli avvocati dell’imputato, Ernesto d’Ippolito, concluse la sua arringa con queste parole: «Sono anni che faccio questa professione. Ma poche volte mi è capitato di affrontare un processo in cui gli errori si sono ripetuti in un modo così incomprensibile. Ho studiato tutti i documenti, avendo sempre presente la sete di verità di un uomo che mai avrebbe dovuto trovarsi qui… Un uomo che ha subito un’ingiustizia tale da non poter essere sanata da alcuna sentenza di assoluzione. Un uomo che da quattro anni aspetta la restituzione dell’onore e della dignità con le quali ha sempre condotto la sua vita». Anni dopo lo Stato gli ha risarcito 75mila euro.
Ora, c’è da dire che il sindaco di San Mango d’Aquino nella sventura è stato un uomo fortunato, perché ha potuto difendersi con i migliori avvocati sulla piazza e ha avuto la forza di riprendere il suo cammino, ma questa vicenda fa pensare soprattutto alle ingiustizie subite nel silenzio e nella vergogna da chi non ha poteri e potenza, alle storture di un sistema giudiziario lento (a Napoli quattro anni per la prima udienza di un appello) e farraginoso e alle caratteristiche del processo che in fase istruttoria vale già come una condanna per chiunque, per colpevoli e innocenti, specie per questi ultimi se noti perché al pubblico disprezzo contribuisce inevitabilmente (ma non sempre) la mia categoria dei giornalisti, per lo più impotenti a contenere il delirio di onnipotenza di qualche magistrato. Non voglio generalizzare perché mi sono note l’umanità e la professionalità di tanti magistrati che si sono dedicati al delicato e insopprimibile compito di fare giustizia con abnegazione e saggezza e, tanti, fino al sacrificio della propria vita. Ma penso anche alla sofferenza di un amico come Antonio Bassolino che, sempre ribadendo fiducia nella giustizia (io al suo posto qualche parolina la direi a tal proposito), lamenta i dieci anni persi della propria vita. Anni persi anche per il contributo, comunque lo si potesse giudicare, che avrebbe potuto dare alla nostra comunità. La giustizia è un nodo cruciale, il più aggrovigliato del nostro Paese, che non sarà mai effettivamente moderno e giusto se non lo scioglierà con determinazione, concretezza e equilibrio. Una riforma, serve una riforma vera e non condizionata da interessi particolari ma solo dall’interesse generale, una riforma capace di coniugare giustizia e verità, tutela dei diritti e rispetto della dignità delle persone.