Letto da giorni, ho lasciato decantare la prima impressione per tentare una riflessione più fredda quando, per parafrasare altri mondi, il vino buono non ci nasconde più i suoi segreti. Perché il primo impatto con questo libro di Paolo Macry, “Napoli. Nostalgia di domani”, è potente, direi ubriacante: sarà per la brevità, poco consona ai testi di storia tanto familiari all’autore, sarà per la scrittura, ben nota per la pluridecennale attività di commentatore e, quindi, di giornalista, sarà per il tema, antico e straordinariamente sempre attuale, sarà per la chiave di lettura di una città e di un popolo, della sua storia e del suo presente, dei suoi vizi, inesauribili e incorreggibili, e delle sue virtù, sfacciate e compresse, sarà per il messaggio, nonostante tutto, di fiducia nel futuro, insomma sarà per tutto questo e altro ancora ma quando arrivi alle ultime due righe – la confessione di resa – resti frastornato. Devi riprendere fiato, sospendere il giudizio e, appunto, attendere.
La galoppata in duemila e cinquecento anni di storia è veloce e avvincente, dove il cavallo è la cultura materiale di Napoli, le sue “pietre”, le stratificazioni ripetute e sempre presenti per quanto spesso e selvaggiamente violate, e in groppa c’è il suo tormentato spirito, le “intelligenze”, tutte, quelle alte e altissime e quelle basse compresa l’arte dell’arrangiarsi, di infrangere le regole, di imbrogliare e di sopravvivere, di vivere anche nell’illegalità e di sottostare alle sopraffazioni della delinquenza organizzata e non. Le tre date su cui Macry sofferma lo sguardo hanno un preciso significato: 1799 (la “storia spezzata”), 1860 (spettatori della storia che passa), 1944 (la gente che non vuole morire). Tra queste c’è una trama evidente: il ruolo del popolo, a quello delle élite verrò più avanti. Il popolo che, quando i sanfedesti del cardinale Ruffo circondarono la città, si rivoltò e con atti prolungati di “barbarie inimmaginabili” sterminò la giovane repubblica del 1799; il popolo che il 7 settembre 1860, senza lo spargimento di neanche una goccia di sangue, volse le spalle ai Borbone e si consegnò festosamente a Garibaldi e alla nuova Italia nonché alla combinata piemontesizzazione; il popolo, stremato dai bombardamenti americani, dalla fame, dalle malattie, che nel 1944, dopo un sussulto spontaneo che in quattro giorni cacciò i tedeschi che si accingevano alla deportazione dei suoi uomini mentre gli alleati erano ormai alle porte, tra miserie morali e materiali inenarrabili e con incerta convinzione entrò nella nuova Repubblica.
Ci sono poi le altre Napoli come quelle dei sovrani repubblicani, dal comandante Lauro ai viceré del pentapartito, dal “principe rinascimentale” Bassolino al re dei dieci giorni, il Masaniello De Magistris. Dunque, le avanzate e gli arretramenti, le innovazioni e le conservazioni, in un ciclico rincorrersi della storia di una città che, scrive Macry, ha anche il merito dell’innovazione politica: basti il riferimento all’attualità, all’ascesa dei populismi che qui fecondarono in tempi non sospetti.
Una Napoli che i napoletani, come mamme con i figli, non tollerino che se ne parli male, semmai lo devono fare loro. L’autore, scegliendo fior da fiore con uno spericolato volo nel tempo, ricorda il trattamento riservato al Renato Fucini di “Napoli a occhio nudo” (il Grand Tour), alla Matilde Serao de “Il ventre di Napoli”, al Curzio Malaparte de “La pelle”, all’Anna Maria Ortese de “Il mare non bagna Napoli” fino al Roberto Saviano di “Gomorra”. Perché Napoli è un’altra, e c’è sempre un’altra Napoli a cui appellarsi per togliere i presunti o reali schizzi di fango che ne deturpano l’immagine. Meglio, par di capire, lasciare che se ne occupino Benedetto Croce o Giuseppe Galasso, Pasquale Villari o Aldo Masullo.
Ma che cos’ è Napoli? Macry, con questa sua “Napoli universale”, paga il suo debito di riconoscenza come mi pare di capire nelle prime pagine e in quelle conclusive nelle quali ricorda il suo impatto, cinquant’anni fa, quando vi giunse da giovane laureato in storia provenendo dalla sua “patria abruzzese”. Universale e “generosa”. Generosa e accogliente come poche altre città. Non riservata e chiusa, senza il riserbo di una cultura forte, e, quindi, mai presuntuosa e ostentata, una sapienza, la sua, debole, dove questo aggettivo sembra fare il paio con quello della cultura forte.
Dunque, “essere napoletani è facile”. Perché Napoli è una città inclusiva, intelligente, paziente, svelta come la sua gente. Ma è così davvero? Forse. A condizione, però, di abituarsi, affidarsi al suo ritmo e alla sua sregolatezza e, alla bisogna, comportarsi come gli altri nella vita pubblica che troppo spesso ha codici diversi da quella privata. Lasciando che, tranne rare e limitate eccezioni, vi sia una corrispondenza al ribasso tra amministrati e amministratori, tra classe dirigente e popolo. E qui vengo alle ultime due righe del libro: «E poi, volendo ci sono le élite. Raffinate e aperte, sebbene talvolta senza parole. Napoletane anche loro». In parte, aggiungo io, ancora incapaci di metabolizzare la “storia spezzata” del 1799, in larga parte comodamente dimentiche della stessa, tante volte acconciate a immagine e somiglianza del popolo con tutti i suoi peccati, spesso partecipi di un banchetto delle pubbliche cose e disinteressate all’interesse generale. Tranne, naturalmente, lodevoli eccezioni che purtroppo non cambiano la storia.