Voglio fare il fotografo di teatro. Viene da pensare al bambino che cocciutamente dice quello che vuole fare da grande e che non sempre mantiene la promessa. Come poi un giovane possa aver sognato un futuro da fotografo di scena in un paese della Presila catanzarese è da approfondire perché più comprensibile sarebbe stata la scelta della fotografia o quella del teatro. Invece Tommaso La Pera ha sempre saputo esattamente a che cosa mirava e ci è riuscito alla grande essendo diventato il numero uno dei fotografi di teatro italiani. Da Eduardo a Gassman, da Carmelo Bene a Albertazzi, da Paola Borboni a Toni Servillo, tutti sono finiti nell’obiettivo delle sue Laica. Figlio d’arte e padre plurimo d’arte, davvero una dinastia.
Suo nonno era un fotografo?
«No, mio padre Giuseppe e mio zio Luigi lo erano, il primo operava a Sersale, il mio paese natale, e l’altro a Nicastro, oggi Lamezia Terme».
Suo padre aveva un negozio?
«Sì, uno studio fotografico nel quale ho lavorato anche io nei primi anni come ho fatto anche con mio zio».
Come mai suo padre aveva scelto questa attività?
«Era, perché è morto due anni fa, uno molto curioso, infatti sapeva fare e si interessava di tutto. Anche mio zio aveva molteplici interessi ma mio padre era molto più poliedrico. Aveva una manualità veramente incredibile perché da niente riusciva a creare tutto, e, quindi, si interessava di orologi ma anche di idraulica. Per dire, subito dopo la guerra, quando c’è stato il disboscamento della Sila ad opera della famosa Sofome, la società forestale meridionale, lui guidava il trenino a scartamento dirotto, e contemporaneamente faceva le fotografie e si occupava di altro».
E tutto ciò in questo piccolo paese…
«Che è Sersale e che è un paese splendido anche se piccolo, perché c’è della gente veramente incredibile. Infatti, a differenza di altri posti della Calabria diciamo che è immune da determinati fenomeni, è un paese dove vale la pena andare a conoscere soprattutto la gente. Lì ho vissuto i miei primi vent’anni però ci torno molto volentieri perché ho conservato tutti gli amici di infanzia oltre al fatto che sono molto ma molto legato ai parenti che stanno quasi tutti quanti là».
La sua è una grande famiglia?
«Sì, ma io ritengo di avere una grande famiglia anche con i cittadini di Sersale perché, pur essendo andato via giovanissimo e manco da tantissimo tempo, ho conservato legami affettivi con tutti».
Lei poi si è occupato di teatro e non solo. Dal suo territorio sono venuti anche altri personaggi importanti del mondo dello spettacolo.
«Certo, uno per tutti Gianni Amelio che è di un paese vicino al mio. Non lo conosco perché, contrariamente a quanto si pensa, cinema, televisione e teatro sono delle cose completamente diverse anche se io inizialmente ho fatto sia cinema che televisione».
Che studi ha fatto?
«Praticamente niente, ho fatto soltanto la scuola media anche perché a quell’epoca non c’era altro».
Quando è nato?
«Nel 1952, dopo la media ho dovuto interrompere anche se mi sarebbe piaciuto continuare. Ho lavorato con mio padre sia nello studio fotografico sia nel cinema locale che avevamo insieme a altre due persone, facevo l’aiuto operatore a mio padre».
Viene da pensare a “Nuovo Cinema Paradiso”.
«Più o meno. Era l’unico cinema della zona, l’unico svago per la gente del posto perché non c’era nient’altro».
Me la racconta questa stanzetta in cui faceva l’operatore?
«Sono un profondo conoscitore del cinema di quell’epoca, che seguivo mentre ora ancora lo seguo anche se non lo vedo. Facevamo due spettacoli ogni sera, uno alle 20,30 e l’altro alle 23».
Come si chiamava il cinema?
«Aurora. Era aperto tre giorni la settimana, il mercoledì, il sabato e la domenica. Mio padre faceva la prima proiezione, io la seconda, quella notturna, perché poi approfittavo della sala per riunirmi con gli amici a gozzovigliare. Ricordo i film che a quel tempo erano molto fascinosi».
Mi tolga una curiosità da spettatore che è stato sempre in sala, ma come si vede un film dalla saletta di proiezione?
«Si è molto più partecipi nonostante uno debba preoccuparsi della proiezione, che adesso è tutta quanta automatizzata. Allora bisognava stare attenti al volume, alle luci, ai carboni perché c’era l’arco voltaico, che non sempre funzionava bene, e, quindi, non ci si poteva distrarre».
Anche perché arrivavano subito gli urli dalla sala.
«Certo, soprattutto quando si rompevano le pellicole che erano estremamente delicate e non erano in acetato come quelle di adesso. Oltretutto erano infiammabili, quindi ogni tanto si usuravano».
Con soli tre giorni di proiezione settimanali i film come venivano scelti?
«Arrivavano film non dico di prima visione, però abbastanza importanti. Non potrò mai dimenticare il successo strepitoso di “Ben Hur”. Proiettavamo pellicole commerciali, quelle di Amedeo Nazzari come “Il brigante”, che andavano tantissimo allora».
La sera proiettava i film, di giorno faceva il fotografo anche di matrimoni, immagino?
«Ma certo. Si facevano solo quelli, matrimoni, comunioni, cresime, anche perché all’epoca quasi nessuno aveva la macchina fotografica. Guardi, i fotografi di matrimoni sono di tutto rispetto perché fare i matrimoni, contrariamente a quanto si pensa, è un lavoro veramente faticosissimo, pieno di tensioni. Poi ora ci sono fotografi matrimonialisti che fanno dei capolavori, che sono molto redditizi. Io ogni tanto non nascondo che almeno sotto il punto di vista economico, ma scherzo, avrei dovuto continuare lungo quella strada, perché il teatro è un campo abbastanza povero».
Come decise di passare al teatro?
«Chissà per quale motivo, non riesco ancora a spiegarmelo, ma forse perché ero molto fissato per il cinema m’era venuta la mania del teatro tant’è vero che tutte le mie letture, ma davvero tutte, erano incentrate sul teatro. Mi facevo portare i testi teatrali, i titoli più famosi come “Giulietta e Romeo”, “Amleto”, “La locandiera”, da una casa editrice di Milano. Non avevo mai visto uno spettacolo teatrale dal vivo. Prima di essere fotografo sono un amante del teatro».
Oltretutto nel suo territorio non è che ci fossero occasioni di andare a teatro.
«Non a caso appena mi è stato possibile e ritenendo che solo a Roma potevo fare questo lavoro, mi sono trasferito».
Il primo spettacolo che ha visto?
«Attorno al 1965, quando mi sono trasferito a Roma facendo un salto nel buio dal momento che non conoscevo nessuno. Non ricordo la compagnia né addirittura il teatro, era “Le donne al parlamento” di Aristofane, ne sono rimasto estasiato. Un’emozione incredibile».
E quando ha incominciato a fotografare spettacoli?
«Tenga presente che l’ambiente teatrale è molto chiuso perché la gente di teatro non si fida di nessuno nel senso che una volta assimilati i collaboratori (tecnici, scenografi, costumisti) poi difficilmente li cambia. Io praticamente mi imbucavo dove potevo nei teatri con la macchina fotografica nascosta e cercavo di carpire qualche immagine. Così ho cominciato. E, se vogliamo, questa è stata la mia fortuna perché in questo modo ho inventato, senza falsa modestia, la tecnica della fotografia dal vivo, in movimento, dinamica, perché fino a quell’epoca si facevano le foto statiche, cioè si sceglievano quei cinque-sei-dieci momenti topici dello spettacolo, si bloccavano gli attori e si facevano le fotografie in posa, come si può vedere dalle fotografie di prima del ’60, molto statiche appunto e che non rendono l’anima dello spettacolo».
La sua tecnica era dettata anche dalla necessità.
«Sì. Ma io non ho mai amato le fotografie statiche, anche quando facevo i matrimoni, le mie foto di amici che martoriavo continuamente erano tutte dinamiche, curiose, prese sempre di nascosto. E questa tecnica mi ha aiutato ad emergere quasi subito. Quando qualche foto veniva bene la facevo vedere ai diretti interessati».
Anche a qualche giornale della capitale?
«Con i giornali ho lavorato tantissimo, ho cominciato con “Paese sera” a cui ero molto legato, non mi pagavano naturalmente, però la soddisfazione di vedere pubblicata una fotografia era enorme. All’inizio ho lavorato anche in televisione e nel cinema. Per esempio, ho fatto tutta la saga degli “spaghetti western”, in televisione ho seguito tantissimi sceneggiati sempre come fotografo di scena grazie a un direttore di Rai Tre che mi notò mentre stavo riprendendo il famoso musicista Luciano Berio al Festival di Spoleto. Però, la mia passione era e rimane il teatro, fare il fotografo di scena in cinema o in televisione è troppo facile perché si lavora con una luce molto forte, e poi le scene si possono ripetere all’infinito».
Quando ha capito di avercela fatta?
«Non si può mai dire, perché in teatro devi sempre dimostrare qualcosa, anche perché cambia la gente, ma anche il gusto della fotografia stessa oltre che del teatro. Quindi, uno non è mai arrivato, non arriva mai. E questo è il bello, e per questo continuo a farlo. Ogni spettacolo ha una casistica assolutamente diversa da quello precedente e da quello successivo».
La dominante delle foto di teatro è il nero. È un elemento decisivo?
«Il nero per me significa veramente mettere in risalto il soggetto principale che è l’attore. È l’idea del teatro, questo buio perenne da dove improvvisamente emergono delle persone anzi i personaggi più che le persone: affascinante, misterioso. Infatti, in tutti gli spettacoli, a parte alcuni, i datori luce si preoccupano non tanto di illuminare gli attori quanto di non illuminare lo sfondo in modo che ci sia questo alone di mistero. E poi il nero dà tridimensionalità, dal momento che gli attori e le scene essendo illuminati in modo diverso assumono più importanza».
Come ha vissuto il passaggio dal bianco e nero al colore?
«Si può dire che sono stato il primo ad aver proposto la fotografia in movimento ma sono stato sicuramente il primo ad aver imposto il colore in teatro. E forse anche questa è stata la mia fortuna perché all’epoca tutti quanti dicevano che solo il bianco e nero era artistico, quindi accettavano la fotografia a colore con la puzza sotto il naso».
Oggi no?
«No, non è vero. La foto in bianco e nero per il teatro va bene, però a colori è tutta un’altra cosa anche perché come dicevamo prima il teatro è tutto colorato, colorate le scene, colorati i costumi, colorate le luci, sono a colori anche gli attori. Quindi, senza voler togliere nulla al bianco e nero dal punto di vista artistico, esso sottraeva tantissime cose all’essenza teatrale. I fatti mi hanno dato ragione, ormai da anni non si fanno più fotografie in bianco e nero. Dirò di più, io prima ai quotidiani dovevo dare le foto in bianco e nero, poi quando facevano il confronto con il colore automaticamente preferivano il colore. Del resto adesso le foto a colori si possono stampare benissimo in bianco e nero».
Gli uomini di teatro li ha visti tutti al lavoro?
«Da quarant’anni a oggi a parte che li ho visti li ho davvero fotografati tutti a cominciare da Eduardo e Peppino De Filippo a Salvo Randone e ai giovani dell’accademia».
Eduardo e Peppino li ha fotografati in scena? So che ha fatto anche ritratti?
«Sì, in scena. Non amo, ripeto, le foto statiche. A tanti, tantissimi ho fatto i ritratti, sia chiaro, anche perché c’è la necessità di fare le fotografie pure per i programmi di sala però è un genere di fotografia che io non amo».
Con Eduardo che rapporto si è stabilito?
«Con lui ho parlato di teatro e di fotografia, ma con Eduardo i rapporti erano non difficili ma distaccati. I De Filippo erano personaggi complessi».
In genere sono complicati tutti gli uomini di teatro?
«No, questo assolutamente non è vero. Ci sono delle persone veramente deliziose, certo hanno le loro fisime, che vuole che le dica, chi non ce l’ha? Ce l’abbiamo noi comuni mortali, figuriamoci loro…».
Con chi si è trovato meglio?
«Diciamo con tutti. Ultimamente ho scoperto – e queste scoperte mi fanno riconciliare con il teatro e con le persone – Fiorello che è una persona straordinaria sotto il punto di vista umano. L’ultimo spettacolo l’ho seguito l’altro giorno a Todi, “A un passo dal sogno”, che verrà forse anche a Catanzaro, realizzato dal gruppo di “Amici”, c’è Paolo Calissano e c’è questo signore che in televisione fa Platinette, una persona straordinaria, prima di tutto di una cultura illimitata e poi disponibile, simpatica».
Qualcuno che l’ha fatta arrabbiare?
«Infastidire più che arrabbiare. Soprattutto chi ha ancora una concezione antica delle fotografie teatrali. Ci sono, per esempio, due che pur avendo una certa età, e una certa età per davvero, a parte che vogliono le fotografie in posa, mia dicono che le debbo far venire come le ragazze di vent’anni. Ma come è possibile! Non diciamo chi sono».
Gassman, come lo ricorda?
«Certo, quando gli girava male… ma pure lui era una persona deliziosa. A parte il fatto che, secondo me, è stato il più grande attore italiano direi del Novecento. Lui, Carmelo Bene… ecco questo era un personaggio difficile ma è stato davvero un innovatore».
Difficile sicuramente, ricordo che ci cacciò dalla platea perché il pubblico disturbava.
«Sì, però era il personaggio che si era creato. Pensi, mi chiamò a casa sua per farsi fare una fotografia per il passaporto perché non sapeva dove andare. Lui non voleva essere fotografato, quindi proprio non mi è sembrato vero. Sono andato a casa sua, mi ha tenuto non dico mezza giornata ma un paio d’ore a parlarmi delle cose più quotidiane con un’umiltà, quasi con timidezza. Gli ho fatto la foto per il passaporto ma ovviamente ne ho approfittato per fargli altre fotografie».
Paola Borboni?
«Ho fotografato tutti i suoi spettacoli. Negli ultimi tempi, avendo una certa età, non deambulando bene faceva delle apparizioni negli spettacoli, però lei si metteva per tutta la durata della rappresentazione dietro le quinte, seduta su una sedia, a suggerire alle attrici giovani perché sapeva le parti di tutti. Era una mania, ma c’è gente che vive unicamente per il teatro».
Visto che li ha fotografati tutti, come se la passa il teatro oggi?
«C’è una mancanza di idee che è spaventosa. Quest’anno ho fotografato tantissimi spettacoli, però non saprei indicarne uno che mi abbia colpito particolarmente. La televisione ha rovinato soprattutto gli attori, ma anche i ragazzi dell’accademia che quando escono sono bravi, però purtroppo un po’ perché non viene dato loro modo di crescere ma soprattutto perché sono protesi verso la televisione e il cinema, non solo non fanno più niente ma dimenticano anche quello che hanno imparato. Del resto in televisione i bravi li scartano. Da anni non esce più uno carismatico come Gassman o Albertazzi».
Mi dice il nome di qualcuno bravo?
«Amo tantissimo tutti gli attori napoletani, li frequento anche nella vita privata. Penso a un regista-attore giovane che si chiama Arturo Cirillo, che è da tenere d’occhio. È uscito dall’Accademia di arte drammatica già bravo, ha fatto quattro-cinque spettacoli e sta seguendo un percorso che lo porterà ad altissimi livelli. Ora sta portando in scena “Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello. Per restare a Napoli, vogliamo parlare di Toni Servillo attualmente il miglior attore italiano? Anche se molti non lo adorano, io amo molto anche Tato Russo che fa veramente tutto. Napoli è una miniera inesauribile di attori. Pensi allo straordinario spettacolo “Scugnizzi”, gli attori sono uno più bravo dell’altro».
Vogliamo andare più giù, alla sua Calabria? Lei, se ho capito bene, ci viene spesso?
«Non spessissimo, negli ultimi anni quando ho un paio di giorni liberi scappo a Sersale anche per fare una partita a carte. Sento un richiamo fortissimo».
Tra non molto sarà presentato un libro a cui lei ha lavorato. Me ne parla.
«L’ho promosso. Uno dei miei amici di infanzia, figlio di uno storico maestro elementare di Sersale, Domenico Paletti, che è stato un innovatore nel campo dell’insegnamento, si lamentava che il paese aveva dimenticato il padre. Così mi sono dato da fare, ed è nato questo libro».
Sersale è il suo rifugio, ma che pensa del resto della Calabria?
«La Calabria purtroppo non la conosco perché sono rimasto soltanto vent’anni e a quel tempo non si aveva molto modo di viaggiare. Conosco Catanzaro, altre città, ma molto poco».
Quindi, lei la Calabria la percepisce da fuori come i non calabresi?
«È una terra che meriterebbe di più ma non do la colpa a nessuno. Non sono di quelli che dicono che il governo non aiuta la Calabria perché non è vero. Purtroppo non so per quale motivo, se per l’indole dei calabresi o se per il maledetto fenomeno della malavita o per altro. Ma penso che la ‘ndrangheta sia il male vero. Ho letto un’intervista a Pippo Callipo che ha analizzato e sintetizzato il problema. Ma credo che incida anche l’indole, tanto è vero che quasi tutti i calabresi che sono usciti da quell’ambiente sono riusciti a diventare qualcuno in tutti i campi».
Lei si dice orgoglioso di essere calabrese?
«Ci mancherebbe altro».
Tornando a lei e a Sersale, mi pare che la sua sia una tipica grande famiglia meridionale. Mi sbaglio?
«Ho tanti figli, sei, e tanti nipoti. I primi due miei figli fanno lo stesso mio lavoro. Uno, Achille, lavora con me, l’altro, Pino, è uno spirito più libero, fa veramente delle cose straordinarie».
Una vera dinastia sempre con la Laica a tracolla.
«La Laica è la macchina simbolo per le fotografie teatrali, poco rumorosa, oltre che di una perfezione assoluta».
Che cos’è il teatro per lei?
«Tutto. Il teatro è cultura, passione, amicizia. Racchiude tutta la vita. Essere riuscito a fotografare il teatro è stato il massimo perché mi ha consentito di coltivare tutt’e due le mie passioni».
Che cos’è la fotografia?
«Un modo di vedere e di far vedere le cose con l’occhio di chi fotografa. Uno non può permettersi di interpretare gli spettacoli teatrali, però basta il solo fatto di fare una fotografia e con questa far vedere l’essenza dello spettacolo».
La foto a cui è più legato?
«Mi disamoro subito. Lo spettacolo più bello è quello che fotograferò domani».