Una vita da magistrato, tante decisioni da cui è dipesa la sorte di centinaia di persone, storie, passioni, travagli e un grande dolore. Un modo di fare all’antica, anche le sentenze scritte a mano, con la penna. Romano De Grazia dal primo maggio, per sua scelta, va in pensione. Ne ha da raccontare. E le racconta nella sua casa di Falerna, davanti a un mare spettacolare, dove ha raccolto da buon patriarca meridionale una bella tribù familiare nella quale però c’è un vuoto incolmabile.
Giudice, dunque lascia la magistratura?
«Posso dire una cosa preliminare. Gherardo Colombo, che è della mia sezione, la quarta penale della Cassazione, il 7 maggio lascerà anche lui, né io né lui sapevamo di questa intenzione comune».
Facciamo un lungo passo indietro. Prima di indossare la toga lei ha fatto il maestro. Che c’entra l’insegnamento con la magistratura?
«Eravamo quattro figli a casa. Mio padre era un avvocato del Sud, mia madre casalinga. Mantenere quattro figli agli studi era pesante e oneroso. Allora responsabilmente io dovetti studiare il sistema per mantenermi da solo e non gravare sul modesto bilancio familiare, cosa che ognuno dei quattro figli ha fatto».
Vivevate a Nicastro?
«Sì. Mio padre prima di fare l’avvocato aveva fatto il cancelliere. La mia famiglia ha una tradizione nel mondo giuridico. Il mio bisnonno era un pretore, aveva le sue idee, era un filosofo, ateo, anarchico, e fu trasferito di ufficio dalla Lucania dove era nato in una ricca famiglia dove vigeva la legge del maggiorasco».
La legge che assegnava tutti i beni al primo figlio?
«Esatto. E gli altri non si dovevano sposare – infatti l’altro si è fatto prete -, e il mio bisnonno, che era diventato magistrato, non doveva nemmeno lui sposarsi. Ha girato un po’ le preture della Lucania e poi fu mandato pretore a Nocera Terinese perché incappò in un procedimento disciplinare dal momento che quando giudicava le persone accusate di furto era vicino alle fasce più deboli tanto da assolverle con una motivazione che ovviamente in quel tempo non poteva essere consentita: affermava che i ladri stavano dall’altra parte. Venne, quindi, in Calabria e da qui derivò il mio ceppo, mio nonno notaio, mio padre avvocato, io…».
Insegnante. Perché?
«Perché mi iscrissi alla facoltà di giurisprudenza a Roma quando c’erano Giovanni Leone e Antonio Segni, però mi dovevo comprare i libri, stare a Roma nel periodo degli esami, pagare le tasse universitarie e mio padre non poteva sostenermi, allora conseguii l’abilitazione magistrale, a 19 anni vinsi il concorso e quindi cominciai ad insegnare andando a Milano. A Roma ero iscritto all’università, la famiglia l’avevo giù in Calabria. Nel contempo ho fatto il giornalista».
Solo collaborazioni o qualcosa di più serio?
«Una cosa seria. Lavoravo per il quotidiano “Il Tempo” diretto da Angiolillo. Ho fatto tre inchieste di grosso respiro. Intanto in un paesino del Milanese trovai moglie. Mi laureai. Ma avevo questa grande passione per il giornalismo perché il giornalista è più libero, se vuole, del giudice. Un nome me lo stavo facendo e la mia occasione venne con la proposta di andare a fare un’inchiesta in Olanda. Mi preparavo ad andare. Avevo fatto gli scritti al concorso per la magistratura, era passato un anno dalla correzione, non ci pensavo assolutamente più, ero anzi in uno stato di euforia per il viaggio imminente in Olanda. Una sera un amico mio che non si faceva i fatti suoi mi chiamò da Roma per dirmi che ero stato ammesso agli orali. Avevo già tre figli. Non sapevo se saltare dalla gioia o mettermi a piangere. Ho dovuto fare una scelta. Giornalista è un’avventura bellissima, ma l’avrei corsa se fossi stato scapolo. Optai per il concorso e non andai più in Olanda. Entrai in magistratura il 15 aprile del 1967, quarant’anni fa».
Risale a quel periodo l’incontro con Lazzati a cui poi ha intitolato il suo centro studi?
«Conobbi Giuseppe Lazzati che era il rettore della Cattolica di Milano. Dossetti, Lazzati e La Pira, un gruppo che mi formò molto. Mi colpì molto l’insegnamento di Lazzati: l’unità nella diversità, il dialogo con i diversi. Lazzati è stato uno dei padri della Costituente assieme a Rossetti, è redatto per buona parte da lui l’articolo tre della Costituzione che è un inno, una lirica fatta norma. Era, ripeto, il rettore della Cattolica nel ’68 e riuscì a limitare i danni e i guasti della guerriglia urbana. Il suo motto più bello era quello di costruire assieme da cristiani una città a misura dell’uomo. Aveva uno spirito profetico. Nel lager nazista rifiutò di essere rilasciato per restare insieme ai soldati italiani lì rinchiusi, tra i quali c’era il futuro segretario del Pci Alessandro Natta. Poi è stata intrapresa la causa di beatificazione. E l’elogio funebre nell’86, quando morì, lo ha fatto Natta. E io che sono stato sempre inquieto fui affascinato da quella persona».
Inquieto perché?
«Sono nato il 29 febbraio e dichiarato il primo marzo. Fui chiamato da mio padre Benito Romano Vittorio perché lui era fascista, un sentimentale attaccato all’idea della patria. Nato il 29 febbraio ero fuori schema, mia madre diceva che gli uomini come me nascono ogni quattro anni. Ero fervente cattolico, mai laico nell’animo. Il linguaggio di Lazzati mi colpì molto, ero nella Dc, ma in quella che portava avanti questo dialogo, quella sinistra dc che fu illusa da Riccardo Misasi, che era un affabulatore, sapeva usare le persone e, quindi, manipolava i sentimenti. Con Misasi fondammo il movimento di base».
Poi venne la magistratura.
«Vinsi il concorso. Appena entrai in magistratura ovviamente per una questione di visibilità e di responsabilità lasciai la politica attiva».
Dell’esperienza di maestro che cosa le è rimasto?
«Valori importanti, perché influire sulla formazione comporta enormi responsabilità. Mi sentivo investito dal dovere verso persone in crescita. E sa che poi da magistrato ho avuto un’esperienza scioccante. Composi, perché c’era carenza di magistrati, il collegio del tribunale minorile di Catanzaro. Ero transeunte, prestato per un’udienza, mi trovai di fronte un ragazzo che era stato mio alunno – sono fatti che ti scavano dentro – che ha riconosciuto il suo maestro. Era accusato del furto di uno stereo. E veniva giudicato. Quel ragazzo non ebbe il coraggio di guardarmi in faccia. Io cercavo il suo sguardo. E mi ponevo una domanda: se lui è qui ho sbagliato io? non sono riuscito a fare l’educatore? E, quindi, in quel momento mi sentivo sotto giudizio io che dovevo giudicare. Lo stesso mi capitò poi con un compagno di scuola, io giudice ordinario, lui un bravo ragazzo che ho dovuto giudicare per armi: venne da me perché aveva avuto una storia – poi ho saputo –, era stato abbandonato dalla moglie, si era dato all’alcol, aveva frequentato compagnie che non si addicevano alla sua condizione sociale e alla sua posizione culturale».
Quanto pesò nel giudizio questa sua conoscenza?
«Pesò perché al ragazzino diedi tutti i benefici di legge, d’altra parte c’era la minore età. Al mio compagno di scuola sentii, quando si è seduto davanti a me, di mandargli un messaggio – e non mi pento -, gli dissi: alza la testa, non ti preoccupare che ci sono io. Confesso la mia umana debolezza. Ovviamente non potevo assolverlo perché gli ho dato il minimo con i benefici di legge, l’ho fatto e non mi pento di averlo fatto perché nell’uomo deve parlare prima il cuore. Se riesce a parlare il cuore allora vuol dire che siamo sulla strada giusta. D’altra parte dopo qualche tempo è morto alcolizzato. Così l’uomo Romano De Grazia si è regolato».
L’uomo Romano De Grazia che ha giudicato tante persone ha sempre dormito tranquillo?
«Sì. Ho fatto di tutto, ho fatto processi di mafia, sono stato a Messina, e qui ci spostiamo su pene pesanti, ergastoli, trent’anni, ventiquattr’anni, ma ho cercato gli elementi a tutti i costi, il minimo dubbio ha sempre pesato a favore dell’imputato. Ecco perché mi sento tranquillo con la mia coscienza. Non ho avuto momenti di debolezza per i delinquenti accertati per crimini accertati. E poi la Sicilia è terra di mafia. Quando arrivai dalla Calabria i colleghi mi dissero: questi processi te li fai tu che non sei del posto, come se io venissi da un’isola felice. Poi capii perché non li potevano fare».
Lo spiega anche a noi?
«Perché scoppiò subito dopo il verminaio: contiguità di magistrati, donne, prostitute, gioco d’azzardo, assoluzioni, cavalli da corsa. E poi da dodici anni mi trovo nella Suprema Corte di Cassazione…».
Si fermi un attimo. Lei prima ha detto che quando ha avuto un dubbio lo ha sempre fatto pesare a favore dell’imputato. Doris Lo Moro, sua concittadina, profondamente provata dall’uccisione del padre e del fratello e dalla mancata punizione dei colpevoli, ha detto che non può stare in pace né il magistrato che condanna un innocente né quello che assolve un colpevole. Lei è d’accordo?
«Fui molto vicino a Doris. Lei è stata molto segnata da quell’esperienza. Doris le certezze ce l’ha su quelli che sono stati gli autori del duplice assassinio, e questo lo posso confidare perché le sono stato accanto in quei giorni difficili da magistrato più grande vicino alla giovane collega. La certezza lei ce l’ha, ma le certezze devono essere certezze processuali. Un giudice deve avere una prova. Poi per delitti che comportano pese così pesanti la prova deve essere granitica. Evidentemente quegli elementi processuali non costituivano la prova piena e in questa situazione il giudice deve assolvere, perché altrimenti un sistema che fosse basato su un principio diverso non sarebbe un sistema civile di amministrazione della giustizia. Tu mi condanni e mi devi dare spiegazione su quali elementi lo fai, diversamente il giudice che facesse riferimento a un altro principio avrebbe quelle angosce di cui parlavo prima».
Non dormirebbe tranquillo?
«Se penso a quelli che ho condannato all’ergastolo giù in Sicilia, le dico che sì, dormo tranquillo».
Quale decisione l’ha tenuta in dubbio per più tempo?
«Diverse. Alla fine ho risolto alla stregua del criterio della verità processuale, che è quella che conta».
Probabilmente ha assolto anche molti colpevoli. Mi sbaglio?
«I colpevoli devono essere colpevoli secondo adligata et provata (documenti e prove, ndr), come dicevano i romani che sono stati i cultori del diritto».
Quindi, è sicuro che non ha mai condannato un innocente?
«No. Sono sicuro che non ho condannato un innocente perché ho cercato la prova in maniera esasperante e esasperata fino all’ultimo dubbio, se restava l’ultimo dubbio. Poi è chiaro che non mi sento un padreterno perché c’è la condizione umana che è un limite per tutti. Però, quello che conta dal punto di vista psicologico è il fatto soggettivo. Come si è cercata la verità? Utilizzando responsabilmente ogni elemento processuale».
Infine questa lunga esperienza alla Cassazione. Viene da pensare alle decisioni definitive della Suprema Corte che intervengono, a volte perfino contraddittoriamente, anche sul costume della società. Per esempio, stabilire qual è il comune senso del pudore. Una bella responsabilità.
«Purtroppo il nostro compito ci porta a mandare dei messaggi per la comunità, anche quelli che possono influire in prospettiva. Il giudice non è un robot, non è una macchinetta, è un uomo e come tale è prodotto della sua cultura e della cultura storica di quel momento. E ha l’ardire, la voglia, l’estro di superare certi condizionamenti. Il costume è in continua evoluzione. Il magistrato non deve solo fermarsi alla formulazione letterale della norma perché la norma è fatta dal legislatore, da uomini come noi in Parlamento. Lei ha richiamato il comune senso del pudore, che è un concetto storico in continua evoluzione. Ho settantuno anni e le posso dire che certi fatti che oggi non offendono più il comune senso del pudore ai tempi della mia formazione avevano ben altro effetto».
Faccia un esempio.
«Per esempio, prosciolsi degli editori e dei giornalisti che avevano pubblicato fotografie osé di attrici che cominciavano a spogliarsi, da alcuni cittadini ritenute offensive. Erano stati addirittura incriminati gli edicolanti. E allora ho dovuto disquisire sul senso comune del pudore. Ritenni di doverli assolvere».
Il comune senso del pudore nel Sud ha fatto fatica a cambiare?
«Ho iniziato a fare il pretore a Cosenza, quando non c’era l’autostrada ed era un problema arrivarci. Mi trovai in un processo già fissato, altrimenti avrei prosciolti in istruttoria un ragazzo imputato di molestie perché all’uscita della scuola andava a vedere le ragazze. E, poverino, disse a una: quanto sì bona. Il bidello, un frustrato, lo denunciò al commissariato. Il reato di molestie è procedibile di ufficio, il 659, e mi trovai fissato il processo a carico di questo ragazzo che mi arrivò in udienza tutto spaventato, pallido. Aveva visto la giustizia che si impersonava nella mia persona con la toga, quell’ambiente greve e solenne. Si sedette, gli dissi: senti qua, dimmi la verità, è bona veramente, perché se è racchia ti rovino. Raccolse il messaggio e l’istituzione si riconciliò col ragazzo. Mi disse: no, giudice, era bona. Assolto perché il fatto non costituisce reato. Era il 1968».
L’anno giusto per fare una sentenza del genere.
«Un magistrato deve avere la cultura del suo tempo, stare attento all’evoluzione del costume e seguire il buon senso della misura di tutte le condotte. Se la norma urta contro il buon senso vuol dire che è una norma decrepita. Ecco perché anche noi magistrati creiamo diritto interpretando quella norma che resta ferma e cristallizzata forzandola un po’ e così convinciamo il legislatore che va cambiata. Mi capitarono, per esempio, a proposito degli atti osceni in luogo pubblico due che poi si sposarono. Poverini, non avevano i soldi per andare in albergo, la carne ardeva, in una macchina fuori paese facevano l’amore, un carabiniere rompiballe li denunciò per atti osceni. Questi nel frattempo si erano sposati, figuratevi se io li condannavo per atti osceni. Ho cercato – e non mi pento di averlo fatto – la strada per dire: la nebbia, la poca luce, escamotage sacrosanti che chiunque avrebbe cercato col buon senso».
Lei fu uno dei primi magistrati a organizzare le controinaugurazioni dell’anno giudiziario. Come nacque questa idea?
«Il Palazzo organizzava l’inaugurazione solo dal punto di vista rituale, era una parata. Stavo in Magistratura Democratica, organizzammo una controinaugurazione facendo in modo che i magistrati che avevano pronunciato le sentenze in nome del popolo italiano facessero il rendiconto al popolo italiano di come era stata gestita la giustizia nell’anno precedente. Ci trovammo contro magistrati che oggi sono di sinistra».
Fece anche una battaglia per il divorzio. Ma non era un cattolico?
«La premessa fondamentale fu questa: se uno da cattolico ritiene che il matrimonio si regge sul vincolo dell’indissolubilità deve essere una sua scelta, ma questa non deve essere imposta. Feci una battaglia, scrissi un documento che raccolse le firme di cinquanta magistrati e che punto per punto ribatteva alle idiozie degli antidivorzisti».
Mi parla un po’ di Mani Pulite?
«È stato un dovere di supplenza che ha dovuto assumere la magistratura in un particolare momento, perché non si aveva contezza per la verità che la corruzione, le concussioni e gli illeciti penali avessero quelle dimensioni. Agirono magistrati che pesarono tutti alla stessa maniera con la bilancia della giustizia, Mani Pulite affascinò anche noi magistrati del Sud. Vede, io ho sempre guardato all’istituzione giudiziaria con occhio disincantato perché, contrariamente allo slogan che il magistrato è persona irreprensibile, io che ci stavo dentro mi accorgevo che per diverso tempo come imputati ci arrivavano i deboli, i miserabili, gli zingari, i poveri cristi, i crocifissi, mai le persone appartenenti a un certo livello sociale. Non è la funzione che qualifica la persona, ma è la persona che qualifica la funzione. Purtroppo nel Sud c’è stata la giustizia dei potenti. Ci siamo ribellati. E quando esplose Mani Pulite, anche noi toghe ci sentivamo confortate perché c’era una zona del paese in cui si cominciava fare sul serio e si dava credibilità, onore e dignità all’istituzione giudiziaria. Eravamo affascinati dal messaggio che ci veniva da magistrati preparati: mi riferisco a D’Ambrosio, Davigo e Gherardo Colombo, i quali alzarono un velo. Anche per il nostro Sud».
Ma al Sud è cambiato qualcosa?
«È triste dirlo: se la delinquenza ha mantenuto e accresciuto la sua baldanza lo si deve al fatto che le procure non hanno funzionato. Se il magistrato avesse fatto il suo dovere non condannando solo il povero crocifisso in terra, il cittadino avrebbe avuto fiducia verso le istituzioni. Tutti gli scandali si sono sempre risolti in bolle di sapone».
Al Sud c’è ancora la giustizia dei potenti?
«Sì. Comunque comincia anche per noi a spuntare l’alba. E l’alba per noi significa l’annuncio di un risveglio grazie a questi giovani magistrati che mandano un messaggio di speranza. Anche se lo spettacolo che si vede è deprimente. Fondi dilapidati, industrie che nascono sulla carta per fottersi i contributi».
A proposito dei potenti, lei è particolarmente impegnato nel convincere il Parlamento ad approvare il disegno di legge Lazzati che dovrebbe impedire l’attività elettorale delle persone in odore di mafia.
«Nel 1991 si registrò il primo scioglimento del consiglio comunale di Lamezia per condizionamento mafioso, un anno dopo fondai il centro Lazzati. Sulla base della mia esperienza di responsabile dell’ufficio delle misure di prevenzione di Catanzaro mi accorsi che c’era una discrasia, vale a dire che le persone sottoposte a sorveglianza speciale avevano una serie di limitazioni tra cui anche il non diritto al voto, ma non veniva loro proibita la propaganda elettorale. La persona socialmente pericolosa non può votare ma può raccogliere voti. Il disegno di legge da me proposto si propone l’obiettivo essenziale di impedire che ‘ndrangheta, mafia e camorra condizionino la formazione delle assemblee elettive facendo propaganda elettorale. Un obiettivo che certamente non si persegue con il codice di autoregolamentazione di cui parlano alla Regione».
Lei ha ideato il film sulle connivenze tra politica e ‘ndrangheta che dovrebbe girare Giuseppe Ferrara. Perché si sta cercando di impedirne la realizzazione?
«Non lo vogliono fare perché mette a nudo verità scomode. Si intitolerà “Undicesimo comandamento”, perché nel dialogo tra un vescovo illuminato e un giovane prefetto mandato in Calabria il secondo di fronte alle ingiustizie avverte un senso di impotenze e chiede spiegazioni al primo. Il vescovo replica: sa, eccellenza, in Calabria c’è un undicesimo comandamento. Quale? chiede il prefetto. Quello di non uccidere la speranza».
Quando ha parlato del pool Mani Pulite ha dimenticato Di Pietro che pure ne fu il simbolo. Per quale motivo?
«Pensavo che uno come lui che a quell’epoca la gente cercava di toccare quasi fosse una reliquia, potesse impegnarsi in una battaglia così semplice e tanto decisiva come il disegno di legge Lazzati. Si è limitato esclusivamente a presentarlo. Ma non mi fermo. Nei prossimi giorni vado a presentare il disegno di legge alla cattedra di legislazione antimafia del professore Angelini a Perugina. Pensi, una cattedra del genere sta in Umbria e non in Calabria».
Lei tra pochi giorni non sarà più magistrato. Come passerà il suo tempo?
«Ho fatto con amore il magistrato. Ora intendo battermi con ogni forza, città per città, per far diventare legge questo disegno di legge».
Vive qui, di fronte al Tirreno. Quanto conta il mare nella sua vita?
«C’era un rapporto meraviglioso col mare, però dal primo dicembre 2005 pur vivendo accanto al mare una tragica vicenda mi ha sconvolto e tutto è cambiato».
La morte prematura di sua figlia Rosangela, che il suo compagno raffigurò in versi struggenti come “il rumore di un petalo di rosa/ che cade/ su un pavimento di cristallo”.
«Il tramonto… non ho voglia… mi passerà ma ancora penso alla mia creatura. Faccio questa battaglia perché in essa credeva questa ragazza. Cinque figli, ma era quella che stava sempre accanto a me, al suo papà. Aveva avuto una vita sua familiare sfortunata e trovava in me il suo punto di riferimento».
La sua è una tristezza comprensibile. Un figlio deve vedere la morte dei suoi genitori, è innaturale il contrario.
«Le posso confidare una cosa? Sapevo che ormai per mia figlia non c’era nulla da fare perché me l’aveva detto suo fratello, aiuto chirurgo al Pugliese, che l’aveva operata. Io non andai più in ufficio, sono stato accanto a lei. E lei mi disse: papà, perché non vai in ufficio? Sei in malattia? Le risposi che avevo problemi agli occhi, non le potevo dire la verità. Lei mi disse: papà, tu sei rimasto perché mi devi chiudere gli occhi. E io: ma che racconti? Occhi meravigliosi. È avvenuto che glieli ho dovuti chiudere io. È ancora presto per pensare al mare».
Si toglie la toga. Una giornata spesa bene?
«Sì. Quello che le ho detto prima ha scavato profondamente dentro di me. E poiché ci sono altri più giovani di me che hanno determinazione e più forza di me, io lascio e mi dedico tutto a portare avanti il mio progetto di legge».
Sulla base di una vita dedicata alla magistratura, ad una persona disorientata dalle prepotenze e dal malaffare, come descriverebbe la giustizia?
«È quella che vogliamo noi che sia».