Dietro un successo c’è sempre una storia. Dietro quello della clinica Sant’Anna di Crotone, uno dei centri del risveglio di cui la Calabria, l’Italia e l’Europa menano legittimamente vanto, c’è la storia di una malattia che diventa un dono. Un dono di Dio, direbbe un cattolico, un dono e basta, direbbe un non credente. È molto sottile il confine, e forse non cambia granché le cose il punto di vista di chi legge quello che è accaduto. Il dono è anche in quel nome, Anna, perfetto nel suono e nella composizione, che dà la denominazione alla casa di cura, e che diventa dolce e intimo quando si trasforma in Annarella. Giovanni Pugliese, l’amministratore unico, con pudore e delicatezza ci apre un mondo nel quale si deve entrare in punta di piedi.
Lei non è un medico.
«Sono laureato in giurisprudenza, non ho mai esercitato la professione. Appena laureato mi sono messo a lavorare nell’azienda di famiglia».
La famiglia che cosa faceva?
«Papà mio ha fatto prima l’avvocato, contemporaneamente aveva un negozio di arredamento, è stato anche amministratore della Banca Popolare. Poi nasce Annarella».
Quanti eravate in famiglia?
«Mio padre, mia madre e i tre figli. Mio padre non c’è più, mio fratello non c’è più, e Annarella, la più piccola, nacque con la sindrome di Down».
Che cosa cambiò con la nascita di sua sorella?
«Papà ebbe grossi problemi psicologici e pratici come quello di farle frequentare la scuola perché era rifiutata e presa in giro dagli altri compagnucci, per cui insieme ai suoi amici, coetanei e con figli della stessa età, creò una scuola elementare – mia mamma era professoressa – nell’attico della casa dove abitavamo. Era il 1962, Annarella era nata nel 1956. Io sono del 1952, e il fratello di mezzo, quello che non c’è più, del 1954. La scuola elementare era frequentata dai figli degli amici di papà proprio per aiutare Annarella».
Gli altri bambini erano sani?
«Sì».
Fu, quindi, un grande gesto di solidarietà?
«Esattamente, di amicizia, un modo di guardare fuori dagli schemi. Questa prima elementare divenne poi una prima e una seconda».
Un momento, parli ancora di questi amici. Erano crotonesi noti?
«Sì. Tanto per ricordarne uno, il dottor Lisi, che fu amministratore della Banca Popolare. La scuola diventò una scuola elementare e un asilo nido per cui nell’attico non ci si stava più, papà acquistò il terreno dove siamo ora e diede impulso alla scuola. Negli anni Settanta dal mondo della didattica si passò all’inquadramento nella medicina preventoriale e la scuola diventò un istituto per ragazzini dai sei ai dodici anni, disadattati, con problematiche sociali molto forti. Questo durò un’altra decina di anni».
Dopo che successe?
«La costante era stata fino a quel momento la scuola, anche se per ragazzi con problemi. Era una scuola un po’ elitaria perché era a pagamento, ed era avanzata, si procedeva con il metodo Montessori. Poi si cambiò, l’obiettivo non era più solo quello dell’istruzione ma di dare una casa a ragazzi con problematiche border line, soprattutto di disadattamento sociale».
Intanto sua sorella che faceva?
«Continuava a frequentare la scuola. La sindrome di Down non progredisce per cui la quinta, una seconda volta la quinta, e la compagnia dei ragazzi dell’età sempre mentale e non fisica per cui lei aveva vent’anni e i suoi amichetti ne avevano sei. Amava molto la musica, aveva un innato senso del ritmo. La sua passione era sentire la musica e ballare».
Perciò c’è il musicoterapeuta nel suo centro di riabilitazione?
«Quello è un altro discorso. Dicevo prima che la svolta si ebbe ad un certo punto, quando furono introdotti i Drg, che sono la modalità di remunerazione di un intervento medico tra cui non è compresa la prevenzione che non può essere remunerata. Di qui il cambiamento radicale. Intanto con la morte di mio padre Ezio nel 1986 io avevo ereditato l’istituto».
Suo padre non faceva più l’avvocato?
«No, si era dedicato all’istituto. Aveva fatto anche la politica attiva, era stato vicesindaco. Era socialista demartiniano, molto legato a Cecchino Principe, che fece il discorso quando morì, di Salvatore Lauricella, di cui era stato compagno di scuola nella stessa classe nella quale si trovava anche mia madre Maria, e di Mario Casalinuovo».
Aveva, dunque, trasformato la malattia della figlia nella ragione della sua vita. Come viveva questa condizione?
«Per me è stato un esempio assoluto. Non posso paragonarmi alla sua figura nel senso che mentre io mi entusiasmavo lui analizzava e ricostruiva le cose con un acume straordinario. Con Annarella era di una dolcezza infinita, c’era una simbiosi. Papà andava a Fiuggi per le acque ma soprattutto perché Annarella stava bene lì e poteva ballare perché c’era il teatrino. E papà non amava la musica».
Cattolico?
«Sì, molto cattolico come mamma. Con una sua morale rigida. Ma non era severo con nessuno di noi».
Quindi, lei si trovò con questa eredità?
«Molto impegnativa. C’erano già sessanta dipendenti. Da giovane lavoravo per l’azienda, ma il giorno in cui non volevo venire non venivo. All’improvviso mi sono trovato responsabile di tutto. Istintivamente sono andato a circondarmi delle persone di cui mi fidavo di più e che erano tutte della mia famiglia. Il direttore sanitario, Paolo Scola, è mio cugino, il direttore generale è mia moglie, il direttore amministrativo è un altro mio cugino e così altri, tutta gente che lavora tanto e molto di più. Ai posti apicali c’è gente che non ha bisogno di essere controllata nel senso che se imbroglia imbroglia sé stessa».
Torniamo all’avvento dei Drg. Che cosa fece?
«Dovrei fare una parentesi sulla buona e sulla cattiva sanità ma preferisco dire che l’Istituto Sant’Anna è nato da un progetto fatto a quattro mani con l’assessorato alla sanità della Regione Calabria. Nel 1996 andai dall’assessore – era Pino Torchia – e gli esposi in maniera chiara il problema: ho questa struttura sul mare, un bell’impianto di talassoterapia, per cui posso trasformarla in un albergo con piscina oppure possiamo fare una cosa insieme che però non mi dovrebbe far soffrire costringendomi a elemosinare ogni volta il sostegno della Regione. Mi fu chiesto di realizzare una struttura che si interessasse di riabilitazione e soprattutto di neuroriabilitazione. Al di là dell’indicazione lungimirante, questa fu un’apertura di credito che continua tuttora».
In che senso?
«Nel senso che l’Istituto Sant’Anna ha avuto un credito per fare una cosa e l’ha fatta molto bene, ha chiesto un altro credito e si è comportato alla stessa maniera. È stato più di un feeling, si è fatto progredire un segmento che rappresenta una nicchia nel territorio italiano, una struttura privata che si trova al suo fianco un’amministrazione pubblica e viceversa. È la cosa più entusiasmante».
E anche un po’ anomala.
«Questo non lo so dire, ma posso dire di colloquiare con gli assessori regionali in maniera limpida. Siamo inseriti nel Piano sanitario come un esempio di buona sanità».
Ma non è ancora chiaro come sia nato il centro del risveglio. Ce lo spiega?
«Io e mia moglie ci mettemmo in macchina e in aereo e in un anno visitammo tutte le strutture più d’avanguardia esistenti, cinquanta-sessanta, in Italia, in Svizzera, in Germania, in Austria e in Francia. Poi tornammo e ci mettemmo a costruire quello che c’è con i mattoncini, distribuendo le stanze come secondo noi poteva essere il meglio rispetto a quello che avevamo visto».
Sua moglie che mestiere fa?
«Pina è laureata in lettere, insegnava, prima lavorava in un’agenzia di viaggi, poi è venuta a lavorare qui. Ho due figli, Ugo di 22 anni e Maria Elena di 20, che studiano».
E dopo i mattoncini?
«Qualsiasi cosa, le buone e le cattive, dipende sempre dalle persone. La fortuna ci mise il suo zampino e avvenne l’incontro con Giuliano Dolce, il più giovane professore d’Italia quando si laureò, vent’anni di Germania dove ha diretto un paio di università, primario della struttura di riabilitazione del Cavalieri di Malta di Roma, istriano, nato da padre istriano e da madre napoletana, un cocktail esplosivo, che in testa al suo curriculum scrive profugo istriano».
Come lo convinceste?
«Fu un incontro casuale. Noi avevamo assunto l’impegno di onore di fare la riabilitazione. Ero convinto che ci volesse un grosso professionista e che partendo da zero non si dovesse fare una cosa rabberciata. Ci mettemmo a cercare in tutt’Italia e capitammo dal professore Guido Rosadini, all’epoca uno degli uomini più potenti al San Martino di Genova. Bussammo alla sua porta. Evidentemente, noi giovani signori che venivamo dal Sud e che avevano come referenza i mattoncini e la voglia di fare, gli facemmo tenerezza. Ci disse: io non posso farlo, l’unica cosa che vi prometto è che trovo qualcuno. E noi: se non altro, professore, venga giù, ci mangiamo del pesce fresco».
Si decise a tavola?
«Dopo una quindicina di giorni infatti mi telefonò per dirmi che sarebbe venuto con piacere a mangiare il pesce fresco: sabato sono giù con un mio amico. L’amico era il professore Dolce, il quale appena arrivò qui mi fece un’impressionaccia. Lo feci incontrare con le famiglie dei malati psichici – ero il presidente dell’Afap – e vidi una persona fredda, spietata, che diceva: questo è malato, per questo c’è poco da fare. Non eravamo abituati, noi non lasciavamo mai cadere la speranza. Ricordo ancora la scena, dove eravamo seduti, in questa saletta, chi, dove».
Come andò a finire?
«Con la promessa del professore Dolce che sarebbe venuto per un periodo di quindici giorni per poi decidere. Quando venne, alla moglie disse di non disfare la valigia ché tanto sarebbe rimasto pochi giorni. Questo succedeva undici anni fa, il professore Dolce è qui. Non abbiamo mai firmato un contratto. Dopo due anni gli chiesi se avesse pensato alla cifra del suo emolumento, mi chiese se l’avessi pensata io, gliela dissi e lui rispose che era la stessa che aveva pensato lui. Incredibile, veramente incredibile. In Europa lui è oggi uno dei quattro-cinque leader assoluti in questa materia».
E fu lui a imprimere la svolta decisiva?
«Sì. Facemmo la struttura di riabilitazione ma subito con una vocazione particolare per i pazienti in stato di coma. Il professore Dolce li studia da quarant’anni, è stato il primo al mondo a cercare di far svegliare queste persone iniziando la sperimentazione sui gatti. E avemmo subito l’autorizzazione dalla Regione».
È scontato ridirle che questa sembra un’anomalia?
«Guardi, mai abbiamo avuto una difficoltà, sia che i nostri interlocutori fossero di destra sia che fossero di sinistra. Ci hanno sempre accordato la fiducia. La Regione Calabria, su proposta della nostra Asl di appartenenza, è stata la prima in Italia a codificare un’unità di risveglio. E l’ha codificata in maniera encomiabile, con rigidità e con un’incredibile dovizia di particolari tecnici. Due anni fa a livello nazionale il Governo ha recepito per intero i nostri protocolli fatti dieci anni prima. La settimana scorsa è arrivato un lavoro scientifico fatto a Innsbruck in cui si sono definite le linee guida europee con la partecipazione del professore Dolce, per cui l’Istituto Sant’Anna le ha preparate insieme alle sette-otto università europee più competenti in materia. E noi non siamo un’università».
I pazienti in coma arrivano dalla Calabria?
«Da tutt’Italia. Per evitare la telefonata del presidente che bypassi le altre richieste e proprio perché parliamo di patologie gravissime, abbiamo dovuto fare un codice di accesso molto rigoroso che si fonda su parametri oggettivi, inattaccabili, trasparenti».
Qual è la vostra carta vincente?
«Che l’unità di risveglio da sola non ha senso. All’unità di risveglio provengono dalle rianimazioni e dalle neurochirurgie, però se a valle non crei una serie di presidi che seguano il paziente nella sua evoluzione o nella sua involuzione, dopo tre mesi il reparto è chiuso. Per cui accanto all’unità di risveglio è stata individuata un’unità chiamata gravi cerebrolesioni, un’altra che è la riabilitazione standard, un’altra che è il day hospital, un’altra ancora che è la riabilitazione cognitivo-comportamentale, un’altra che è una struttura dedicati ai pazienti in stato vegetativo da molto tempo. C’è tutta la filiera delle aree al servizio dell’unità di risveglio».
Come avete formato il personale?
«Abbiamo visitato le strutture di riferimento europee ed extraeuropee, abbiamo creato dei ponti virtuali attraverso un comitato scientifico che comprende i tre centri di maggiore valore che sono Innsbruck, Bordeaux e Tel Aviv. Nostro consulente è il professore Leon Sazsbon di Tel Aviv dove cinque anni fa è stata fatta la prima unità di risveglio al mondo. E noi mandiamo il nostro personale a formarsi nelle loro strutture. D’altro canto è l’esperienza sul campo quella che conta perché non esiste un manuale come, per esempio, per l’anatomia».
Personale calabrese?
«In gran parte. L’Istituto Sant’Anna viene riconosciuto come il centro per i pazienti in stato di coma, ma è anche una struttura che fornisce servizi sul territorio per gli ictus o per la frattura di femore. E oggi abbiamo un altro reparto, che è il primo in Italia, di terapie cognitivo-comportamentali».
A che serve?
«Succede che un paziente guarito dopo un anno o dopo tre anni si svegli una mattina e schiaffeggi la madre o non ricordi più nulla. Sono esiti tardivi del trauma che fino ad oggi erano ritenuti problematiche puramente psichiatriche ed invece sono inerenti a un problema post-traumatico».
I risultati sono importanti? Quante guarigioni?
«Il concetto della riabilitazione non è la guarigione, ma è il massimo del recuperabile, paradossalmente potrebbe essere il passaggio dal letto alla carrozzella. Il concetto di guarigione non è pertinente. La bravura consiste nel tirar fuori il massimo che si può ottenere. Di una chitarra con una sola corda devi individuare la corda che si può sonare».
Sono molti i fallimenti?
«Se diciamo che coma è uguale a assenza di coscienza le dico che c’è una percentuale di ripresa di coscienza del 72 per cento. Quindi, il messaggio è positivo. Di questo 72 per cento oltre il 50 delle persone torna a fare quello che faceva prima del trauma, il restante ha residui lievi o postumi gravi. Del 28 per cento che resta c’è un 10 per cento che purtroppo… e un 18 per cento che passa dal coma allo stato vegetativo per cui ci sono pazienti che in linea teorica potranno continuare a vivere la loro vita per tantissimi anni in uno stato per l’appunto vegetativo».
Che è la condizione che apre la porta a scenari sempre inquietanti e che richiamano il tema dell’eutanasia.
«Noi stiamo ipotizzando con il professore Dolce che il paziente in stato vegetativo persistente non è più un malato ma è un cittadino con il diritto di cittadino e con una vita degna di essere vissuta al massimo della disabilità. È come un cieco, che è un disabile che non vede, lo stato vegetativo è quello di un disabile estremo che non ha più la coscienza e che ha bisogno della tutela globale. Questa non è solo un’affermazione lessicale, su questo stiamo facendo una ricerca. Questo nuovo modo di porsi da parte nostro è una delle ricerche di base che da due anni stiamo facendo e che intende dimostrare che il paziente in stato vegetativo ha una disabilità grave e ha comunque una sua modalità di comunicare, sua particolare».
Comunicare che cosa?
«Comunicare vuol dire che possa avere delle emozioni, che si risponda a degli stimoli. Con una serie di esami elettrodiagnostici si è dimostrato che ci sono delle reazioni elettriche uguali alle emozioni».
Emozioni?
«Forse è troppo dire questo, ma ci sono le stesse reazioni elettriche che si manifestano quando ci sono le emozioni».
Su quanti pazienti state facendo ricerca?
«Finora su trecento pazienti, che è un numero elevatissimo. In genere gli studi avvengono su dieci-venti pazienti. Quando abbiamo mandato i nostri studi a Lancet o Science ce li hanno rimandati indietro dicendo che non ci credono perché trecento casi sono troppi. Ma questa è la nuova frontiera del Sant’Anna».
Quanti pazienti avete in stato vegetativo in questo momento?
«Sessanta, su centossessanta presenti nella struttura. Abbiamo dieci posti nell’unità di risveglio».
Come vi regolate con le famiglie?
«Probabilmente questa è la parte più drammatica. Pensi, la famiglia che la sera ha cenato, va a letto, arriva una telefonata e da quel momento la vita è stravolta. Un giovane o una ragazza che ha salva la vita, ha gli occhi aperti ed è in stato vegetativo. Prima i familiari sperano che questo figlio non muoia, accettano tutto e stanno sempre dietro la porta della rianimazione. Quando si spostano nella riabilitazione è naturale che pensino: il pericolo lo abbiamo passato. Perdendo di vista che c’è sempre il pericolo di vita e la prognosi riservata, ma le aspettative sono diverse. E allora si aspettano che in tempi brevi vengano riprese le funzioni, cosa che non avviene o avviene in tempi lunghi con esiti più o meno pesanti, vistosi, traumatici».
E voi che fate?
«Per queste famiglie abbiamo creato un servizio mirato, come una serie di atti, tutti organizzati per protocolli, tra cui un colloquio periodico con tutta la famiglia da parte della nostra equipe. Abbiamo la figura dello psicologo familiare che è addetto alla gestione, direi alla tutela delle famiglie. E altre figure anche di tipo psichiatrico che però la famiglia mal accetta. Alla disperazione si sommano altri problemi pratici. Arrivano qui, non hanno una casa, hanno venduto la tabaccheria per stare qua, non sanno dove andare a mangiare. È un problema che continuo a sottoporre alle istituzioni locali».
Un bel rompicapo.
«È un mondo che non si conosce, privo di riferimenti. Ogni famiglia è un dramma di per sé».
Racconta una storia?
«La mamma di una persona che conosco. Il ragazzo in moto a Messina finisce nel parabrezza di una macchina, dopo circa quattro mesi lo portano da noi. La mamma si aspettava un miracolo come si pretende da noi che siamo considerati una specie di santuario. Dopo undici mesi Alessandro ha ripreso coscienza. È un caso eccezionale, perché di solito le riprese si hanno nel primissimo periodo, il contrario è improbabile. Può produrre l’effetto di incentivare le illusioni delle altre famiglie».
Un miracolo?
«Sì. Un caso eccezionale».
Il valore scientifico del lavoro che si fa è la priorità assoluta, poi c’è sempre la speranza del miracolo. Ritorna il rapporto tra fede e scienza. Il confine è molto sottile.
«I miei genitori sono grossi credenti, io non sono un credente o sono molto poco credente per cui non posso che rispettare, anzi invidiare chi ha il dono della fede. Io non lo possiedo. Detto questo – e non lo scriva – ritengo che certamente una parte scientifica, clinica, avanzata il Sant’Anna lo sia. Questo cammina di pari passo con un moto parallelo che è quello della fede. Non è giusto rinunciarvi mai né rifiutarlo».
Non è una contraddizione con la sua dichiarazione di non credente?
«No. Ma non posso non prenderne atto».
Ma come fa a dire che sono miracoli?
«Ci sono eventi eccezionali che probabilmente da un lato si configurano come miracoli e dall’altro come una serie di connessioni».
Il vero miracolo forse è la fede stessa?
«Pensi a mia mamma. Prima aveva la condanna o il dono della malattia di Anna, che è stato un dono grandissimo del Signore, una prova, non so come definirla, per mia madre e la mia famiglia. Poi ha perso papà. Poi ha perso una sorella. Poi ha perso un figlio, che penso sia una delle cose peggiori possa succedere: che un figlio perdi una mamma è nelle cose, ma che un genitore perda un figlio è devastante. E allora? Io vedo la fede di questa donna, la serenità. Come fa? Come è possibile?».
Dove vive?
«Qui, con mia sorella che non sta bene e che si è salvata un paio di volte proprio perché sta qui, ma penso che sia arrivata… È tutta la struttura, la gestione che risente della presenza della signora Maria. La signora Maria è quella che la sera recita il Rosario con le mamme dei ricoverati, la signora Maria è quella che fa la merenda ai medici, la signora Maria è quella che prepara il caffè e fa il giro dei malati, la signora Maria è quella che fa i pacchi ai familiari dei pazienti. Questo ha un peso oggettivo, reale, pratico, non è una sensazione, nella nostra struttura. È una cosa difficilissima da descrivere».
Lei prima ha detto che sua sorella Annarella è un dono…
«Annarella con la sua sofferenza ha fatto nascere questo. Se non ci fosse stata lei, probabilmente non ci sarebbe questa struttura che opera in un ambito così difficile e così necessario. Al di là di questo, lei è un arricchimento continuo, una dolcezza infinita… Ecco, in questo luogo lei è la dolcezza infinita».
E lei dice di non essere un credente?
«Sono convinto».
Una parola sul suo personale?
«È gente preparata e motivata che auguro a tutti di avere».
Ma quanto c’è di Calabria in tutto quello che abbiamo detto fino a questo momento? Questa è un’isola o è Calabria?
«È tutta Calabria. Purtroppo siamo un popolo che ama piangersi addosso e non vede le cose splendide che possiede».