Primo. Ho letto l’editoriale di Giuseppe Coco — pubblicato ieri sul Corriere del Mezzogiorno — sul fallimento delle grandi città. Paradossalmente invivibili e insostituibili nonostante i numeri significativi della fuga, non si sa quanto emorragica, di tanti cittadini per necessità o per scelta. Secondo. Guardo la foto della Fontana Santese di Calitri, accanto alla quale, seduto dietro una simbolica cattedra, il professore Vito Teti tiene una lezione sull’acqua.
È una delle sequenze di «Sponz Fest», il festival itinerante di Vinicio Capossela in Alta Irpinia. L’antropolgo Teti, che vive cocciutamente in un piccolo paese del Vibonese, è il fiero teorico della necessità di ridare vita ai borghi abbandonati del nostro Sud.
Terzo. Comodamente io, orgoglioso cittadino napoletano, scrivo da un paesino di poco più di trecento anime, ascoltando la musica di un fiume e ai piedi di una monumentale montagna. Dove a volte penso che vivrei se sapessi dare una risposta rassicurante alla domanda cruciale: e se mi succede qualcosa in questo «paradiso» che faccio?
Sono, siamo dentro una contraddizione esemplare dello sviluppo distorto di tanta parte del Paese: da un lato la desertificazione di una trama di spazi diffusi ad ogni latitudine e una volta teatro quotidiano di una vita non dico facile e felice ma sicuramente identitaria, dall’altro la realizzazione di grandissimi spazi urbani che contengono servizi ma producono disagio, difficoltà, spesso un doloroso mal di vivere.
Se non vi si è costretti per l’esigenza primaria di trovare un lavoro, la fuga dalle metropoli non è certamente una soluzione. Troppo scontato contrapporre la congestione urbana alla tranquillità e salubrità del piccolo borgo antico. Se ambedue le condizioni sono in discussione, evidentemente a un problema si è data non una soluzione bensì una complicazione. Insanabile? A questo punto è azzardato dare una risposta risolutiva e convincente. Semmai occorre chiedersi come si sia giunti a questo snodo.
C’entrano molto l’economia che muove i popoli, le politiche nazionali e locali, i nuovi modelli di vita condizionati dall’esplosione delle innovazioni tecnologiche, il bisogno di nuove esperienze culturali prima ancora che di bisogno dei giovani e tanto altro ancora, ma poi c’è una generale responsabilità dei governi locali da cui non si può prescindere. Se non governi il territorio o lo governi male, se lasci spazio all’abusivismo o investi in lottizzazioni che saccheggiano gli spazi pubblici, se metti in ultima fila l’attenzione per i servizi, se dimentichi che, lasciando crescere in lungo, in largo e in alto parallelepipidi di cemento e non pensi allo spazio per muoversi, al verde per respirare e alle fogne per non infettarti, quando alla fine arrivi alla cassa o all’incasso devi solo pagare e non puoi neanche scegliere.
Ne sanno qualcosa i milioni di cittadini che vivono a Napoli. E parlo di milioni e non del poco meno di un milione che è registrato anagraficamente nel capoluogo, perché ditemi qual è il confine tra San Pietro a Patierno e Casoria, tra Chiaiano e Mugnano e se non è vero che per valicare almeno di qualche chilometro la metastasi cementizia occorre andare da un lato a Pozzuoli e oltre o dall’altro a Torre del Greco in avanti.
Tutto ciò è avvenuto in primo luogo per il prevalere di interessi speculativi che hanno strumentalizzato il diffuso bisogno di casa, e poi nei decenni, e quindi per responsabilità di ogni colore, vuoi perché per eliminare lo sconcio di via Marina trasferivi i suoi abitanti a Barra e Ponticelli, o per rimediare al bradisismo inventavi Monterusciello, o in attesa di sanare le ferite del terremoto sceglievi la «deportazione», come dicevano i terroristi, nelle periferie urbane. Mentre in tanti comuni della stessa cinta urbana spuntavano come funghi palazzi spesso edificati su discariche abusive.
Coco ha ragione. Il tema è quello eterno del governo del territorio. E duole dire che almeno per Napoli la prima rivoluzionaria inversione di tendenza è avvenuta quando gran parte dei danni era avvenuta, vale a dire all’inizio della prima sindacatura Bassolino allorché Vezio De Lucia, con una delibera storica, propose e fece approvare la «variante urbanistica generale» che finalmente poneva un limite alla crescita o, se preferite, alla superfetazione urbana. Prima e ultima? La speranza non muore mai, anche se nel bilancio del governo regionale uscente c’è una discussa e discutibile legge urbanistica che, tanto per cambiare, non è stata neanche approvata.
Non può, dunque, non essere stridente il contrasto tra questo scenario disordinato e spesso invivibile e la teoria dei bellissimi e deserti paesini della nostra meravigliosa terra. Che dovrebbero rinascere, a prescindere dalla fuga dai grandi centri urbani, grazie a iniziative virtuose e scelte innovative, non ultima la realizzazione di servizi fondamentali in posizioni strategiche vista l’impossibilità di moltiplicarli disseminandoli dappertutto. E sia chiaro che l’esigenza di riqualificare, per quanto possibile, le grandi città e la rivitalizzazione dei piccoli paesi non sono alternative ma fanno parte dello stesso tema. Che riassumerei in due immagini: l’efficienza di un ospedale, uno a caso, il Cotugno, e la foto del professore Teti che davanti a una vasca consumata dal tempo e colma di acqua immacolata ci ricorda che la terra non è nostra proprietà e che noi siamo solo suoi fortunati ospiti transitori.
Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 28 agosto 2020
No comment yet, add your voice below!