La cicatrice sul viso, quasi un foro, sta a ricordare che la sua vita si divide in due: quella vissuta prima e quella vissuta dopo quel colpo di pistola che sul sagrato della chiesa, che si accingeva a inaugurare, gli sparò contro un ex dipendente bancario. A unirle provvedono una vibrante passione politica, un legame forte e, in certi casi, anche tormentato con i suoi affetti familiari e una dedizione totale a Rende e alla sua gente. Socialista dai tratti aristocratici e dal carattere non facile, a 58 anni Sandro Principe più che a un politico del terzo millennio fa pensare ai grandi signori del Rinascimento, memorabili soprattutto per il loro mecenatismo. Sta di fatto che una nuova città parla per lui.

Rende, una forte tradizione socialista. Anche in casa. Il suo approccio con la politica?

«Naturale e goliardico perché vivendo a Rende centro già da ragazzino insieme ai miei amici di infanzia ero attratto dalla sezione, e poi c’era il momento elettorale che era vissuto come un’avventura. Giravamo tutto il comune per affiggere manifesti, a speakerare gli oratori per i comizi, ad organizzare le riunioni, a portare i facsimile agli elettori. Erano i primi anni Sessanta, c’erano i grandi partiti, c’era la passione, le piazze erano piene, i comizi riuscivano, gli oratori ci affascinavano, insomma era un modo simpatico di vivere la propria gioventù».

Con un padre, il mitico leader socialista Francesco, la sua precoce militanza era un po’ scontata. Le pare?

«Non c’è dubbio. A Rende mio padre era sindaco».

Era forte la competizione tra socialisti e comunisti?

«No, in quella fase l’avversario era la Democrazia Cristiana. Nel 1952 comunisti e socialisti insieme conquistarono il Comune. Nella sinistra c’era già una prevalenza socialista tant’è che nel ’60 mio padre presentò il simbolo del partito e vinse con una lista socialista mentre i comunisti andavano all’opposizione».

Sua madre apprezzava il suo impegno politico?

«Aveva un atteggiamento forse un po’ contraddittorio. Stando vicino a mio padre constatava con mano la difficoltà di reggere la famiglia di un politico, per cui non giudicava bene il mio impegno politico. Fino a trent’anni ho vissuto questo impegno come un hobby avendo impostato la vita diversamente (professione, sposato a ventisei anni). Poi ci fu la parentesi dell’università, quando tornai in prossimità del referendum sul divorzio mi tuffai per dare una mano a mio padre. Mi davo da fare nel partito, mi nominarono presidente del comitato di coordinamento delle dieci sezioni esistenti, feci un ufficio studi, mentre l’amministrazione comunale lavorava noi impostammo il programma del futuro che, diventato sindaco nel 1980, ispirò la mia attività. Ma tutto questo era sempre considerato un hobby».

E la contraddizione di sua madre?

«Quando mio padre decise che lui non si ripresentava… tra l’altro non poteva farlo perché c’era incompatibilità, io non mi volevo candidare, non ne volevo sapere assolutamente. L’intervento di mia madre fu decisivo. Ecco la contraddizione. Si lamentava della politica da una vita, quando poi mancavano tre-quattro ore alla presentazione della candidatura mi disse: no, tu lo devi fare, fallo per me. Cedetti e accettai».

Facciamo un passo indietro. Gli studi. Al liceo classico Telesio?

«No, al liceo scientifico Scorza di Cosenza. Anche qui c’è una piccola contraddizione. Scelsi lo scientifico per fare l’ingegnere o l’architetto, però poi mi resi conto che ero appassionato delle scienze umanistiche, storia e filosofia in particolare, nelle quali ero molto ferrato».

Una scelta sbagliata?

«Fino a un certo punto perché tra classico e scientifico non c’era una grande differenza, tranne il greco che era assente e il latino che non era studiato in modo approfondito».

Poi si iscrive a giurisprudenza. A Napoli?

«No, a Roma perché c’era papà deputato. Era un bel periodo per la città. Dibattiti, convegni, vidi i film degli ultimi quindici anni. Mi piaceva il cinema storico (“Antonio e Cleopatra”, “Ben Hur”, ora “Il Gladiatore”) e il nuovo realismo di registi impegnati come Elio Petri e Damiano Damiani».

E la politica?

«Potevo seguire i grandi dell’epoca. Mi piaceva, pur essendo socialista, Giovanni Galloni della Dc. Seguivo molto i comizi di Pietro Nenni, era una di quelle poche persone che non distinguevi se leggeva o parlava a braccio. Ero stato all’età di dieci anni in un collegio a Roma per un anno. Papà mi portò alla Camera a conoscere Pertini e Fausto Gullo: rimasi impressionato dall’eleganza di entrambi. Pertini era inappuntabile, debbo dire che don Fausto non era da meno. Naturalmente conobbi Giacomo Mancini e Francesco De Martino. Loro mangiavano a un ristorante di via Frattina, gli Abruzzi, e lì, sia quando ero in collegio sia quando studiavo all’università, andavo a mangiare con papà. Si vedeva che erano compagni, si faceva anche una politica diversa, potevano essere avversari politici all’interno del partito però…».

De Martino.

«Amava molto gli spaghetti, mentre gli altri parlavano lui non si staccava dal piatto. Era una persona di cultura, tutti lo chiamavano professore, amava molto la sua famiglia. Secondo me, Napoli era il suo limite perché come poteva scappava a casa. Ed era anche il limite di Mancini che era fortemente attratto dalla Calabria perché né l’uno né l’altro sono riusciti ad essere presenti nel movimento socialista internazionale, cosa che Craxi invece fece benissimo».

Mancini. Quali erano i vostri rapporti?

«Difficili da definire, dipendevano dalle fasi. Quando Mancini era al massimo della sua carriera prima come ministro poi come segretario del partito c’era una rivalità forte con mio padre, che portava a momenti di tensione notevolissima. Ogni tanto c’era anche la bonaccia. In una prima fase lavoravo perché i due andassero d’accordo. Successivamente quando ho avuto un ruolo in politica i rapporti sono stati cangianti, si andava dalla collaborazione al distacco e anche a qualcosina in più».

Il suo giudizio su Mancini?

«Una personalità di primissimo livello, una buona cultura politica, molto determinato. Mancini era un uomo di passioni, sapeva essere affettuoso, gentile, di classe, ma era anche molto duro e nei momenti di competizione la sua durezza superava ogni limite. Era un aristocratico della politica, naturalmente impregnato di vecchi ideali socialisti fino all’ultima cellula cerebrale, era bravissimo nel cogliere i momenti giusti per essere al centro dell’attenzione. Lo vedo più tattico che stratega. Per realizzare un obiettivo ce la metteva tutta, sapendo usare il bastone e la carota. A Cosenza qualcuno diceva che Mancini sapeva rendere la confidenza».

Finita l’università torna a Rende e fa l’avvocato.

«Prima presso lo studio dell’avvocato De Luca, un amico di famiglia e stimatissimo civilista di Cosenza, poi ho aperto lo studio. Sono gli anni dal 1975 al 1980. Mentre facevo l’avvocato seguivo il partito». 

E poi sua madre le fece la violenza. Se glielo avesse chiesto suo padre avrebbe detto no alla candidatura a sindaco?

«Lui me lo chiese per mesi e mesi e io gli dissi di no. Poi nel profondo della mente umana è difficile leggere. Non so se quell’input di mia madre il mio subconscio l’aspettasse…».

E va a governare Rende che con suo padre era già in profonda trasformazione.

«Erano i primi anni di attuazione del piano regolatore del 1971 per cui nel 1980 c’era solo un abbozzo di quello che oggi si vede. C’erano le due statali 19, un inizio di via Fratelli Bandiera e qualche palazzo, e si stava realizzando il quartiere Europa per la parte abitativa mentre dei servizi, del verde, delle scuole, della biblioteca, delle attrezzature sportive mi occupai io. Cioè tutto quello che si vede come servizi è successivo al 1980, mentre le case erano state fatte prima». 

Quale fu il suo principale obiettivo?

«Avevo la preoccupazione che Rende potesse diventare una periferia. Odio le periferie che sono il portato delle cattive politiche. Ricordo che in campagna elettorale Annamaria Nucci parlò di bella senz’anima. Questa frase mi colpì profondamente per cui, diventato sindaco e anche ora, ho sempre privilegiato quelle iniziative che potessero fare di Rende una città con l’anima. Sull’impianto delle due 19, su cui Mancini ironizzava spesso dicendo in modo sprezzante che Rende era una città su due strade, ho lavorato per riempirla di contenuti».

A vederla pare che ce ne siano perfino troppi.

«Ora è una città iperattiva. L’idea deriva da quel lontano lavoro dell’ufficio studio del partito quando pensammo che bisognava puntare sul Comune, sulla scuola e sulla chiesa. Nei primi sette-otto anni avrò realizzato trenta scuole e con una popolazione triplicata non c’è stato mai un doppio turno. Poi le chiese».

Lei è credente?

«Sono un credente, però anche se fossi stato ateo avrei realizzato chiese perché una città nuova che è alla ricerca di punti di riferimento come fa a non pensare alla chiesa? Era difficile seguire la legislazione rinascimentale, barocca per cui la comunità realizzava le chiese, a Rende le ha realizzate il Comune. È stata una scelta indovinata».

Dunque, chiese e non case del popolo.

«Come partito avevamo le sezioni, ce n’erano dieci». 

Aggiungiamo, si fa per dire, che nel frattempo c’è l’università. Che cambia?

«Il piano Malara degli anni Settanta pensava al verde, ad una sorta di new town. La Sibaritide doveva essere l’area industriale, poi intorno alla city commerciale e degli uffici, che doveva essere Cosenza, c’era Rende, la new town che accoglieva le residenzialità. Punto. È fallita l’idea dell’industrializzazione, Cosenza ha avuto momenti difficili come centro degli affari, si è insediata l’università sul territorio di Rende, e naturalmente per noi era un obbligo seguire la politica che prima ho ricordato. Il risultato si vede di sera: migliaia di giovani, tante attività aperte, una città che vive».

L’università ha dato a Rende un’identità nuova ed è, con il porto di Gioia Tauro, una delle due sfide vincenti della Calabria. È d’accordo?

«Non c’è dubbio che è così. Si vedono gli effetti. Aggiungerei che questa idea di città viva ha come contorno un centro storico non baricentrico, interamente restaurato, un piccolo gioiellino, con il recupero di tutto il patrimonio culturale».

Le piace sentirsi un po’ mecenate?

«Una delle prime delibere di Sandro Principe sindaco è stata l’istituzione del museo. Avevo trent’anni. Erano tempi in cui l’attività amministrativa poteva essere più agile. Acquistammo Palazzo Zagarese e mentre lo recuperavamo compravamo le opere per il museo. Ottavio Cavalcanti andava alla ricerca degli oggetti per il museo della civiltà contadina. Nel 1985 riuscimmo a inaugurare il museo pieno. Poi la pinacoteca, con due Mattia Preti, due Solimena e altro, l’intesa con il vescovo Trabalzini per tirare fuori dai magazzini della chiesa le tele da esporre».

Il nuovo cemento di oggi non rischia di rovinare Rende?

«Penso di no. Non temo le zone di espansione perché ci sono gli strumenti per tutelarne indici e qualità. Temo le zone di completamento dove è previsto l’intervento diretto del privato».

L’area urbana, se ne parla tanto. Anche per fare un’unica squadra di calcio. Non sarebbe il simbolo dell’avvenuta integrazione?

«Non c’è dubbio che ci devono essere iniziative comuni innanzitutto sui servizi. Vanno concordate le direttrici delle grandi infrastrutture e tutto ciò che consente di realizzare l’area urbana indipendentemente dal fatto che il cittadino risieda a Cosenza o a Rende o a Montalto».

Anche col calcio?

«E perché no se c’è l’aspirazione di vedere il calcio cosentino ritornare ad alti livelli. Chi ha una visione gradualista riesce di più a raggiungere i risultati, non mi convince l’idea di partire con il comune unico». 

Prima ha parlato di chiese, il 29 maggio di tre anni fa, mentre si accingeva ad inaugurare quella di San Carlo Borromeo, un ex bancario, Sergio Staino, sparò per ucciderla. Lei ha fatto un viaggio dall’altra parte, poi è tornato. È cattolico, l’agguato avviene sulle scale della nuova chiesa che sta consegnando alla città, e si salva per miracolo. Ha mai pensato al destino?

«Credo al destino. È tutto scritto, non è proprio il fato greco ma ci credo. Certo, per me quella chiesa è stata un cruccio perché i due fiumi di macchine che percorrevano le 19 erano l’emblema delle separatezze. Un primo obiettivo per correggere questo stato di cose è stato la San Carlo Borromeo. Si voleva interrompere quel flusso che tra poco sarà impedito definitivamente con l’isola pedonale. Forse il destino c’è. Uscii da casa, l’ultimo ricordo è quello che dissi a mia moglie: quale vestito mi metto? Dopo non ricordo più niente. Nel pomeriggio avevo pranzato con D’Alema».

Lei si è salvato perché ha avuto un movimento della testa all’ultimo momento?

«Può essere. Perché il proiettile è entrato dallo zigomo ma sembrerebbe che abbia seguito una linea discendente, ha urtato la mascella che l’ha deviato, ha toccato l’atlante scheggiandolo ed è uscito. Se avesse proseguito diritto può darsi che sarebbe andato nel petto». 

Un miracolo?

«Il professore disse che anche volendo disegnare con una matita questo tragitto non si riuscirebbe a non toccare organi vitali».

Come se lo spiega?

«Come si fa a spiegarlo!».

Miracolo?

«Essendo un credente penso che il buon Dio ha voluto così e, quindi, io credo al miracolo. C’è tutto. La chiesa in cui una persona ha creduto fortemente con un impegno quasi parossistico per realizzarla, il giorno in cui succede questa cosa… E poi la lucidità: io non l’ho mai persa. Quando dico che non ricordo è perché per alcuni giorni sono stato in coma farmacologico, non perché il cervello non funzionasse. Quando mi sono svegliato completamente, a mia moglie ho detto tutte le scadenze che avevamo: vedi che dobbiamo pagare l’Ici, io devo fare la dichiarazione Iva».

Sua moglie pensa a un miracolo?

«Sì, sì, sì. Lei è stata eccezionale». 

So che siete andati a Lourdes.

«Sì».

Anche a San Giovanni Rotondo da Padre Pio?

«Sì, sono stato anche lì. In tutti questi luoghi ho ribadito a me stesso che è stato un miracolo. Un miracolo tutto. In questi casi andare in depressione è facilissimo, a Firenze gli ammalati me compreso venivano seguiti dalla psicologa. Questa signora voleva parlarmi e io: no, non c’è bisogno».

Ha perdonato il suo attentatore?

«L’ho cancellato. Il processo dice che questa persona era capace di intendere e di volere prima e dopo, sia pur turbata. Io penso che sul turbamento ci sarà stato un contesto che ha indirizzato verso di me quella mano. Lei me lo chiede, rispondo per puro dovere, ma l’ho cancellato, non ritorno su questa persona».

Ricorda l’affetto che la circondò? C’è ancora uno striscione “Forza Sandro” a Rende.

«Mi hanno detto che ce n’erano a diecine… A Firenze ero sulla carrozzina, scesi giù a vedere la partita e tutto lo stadio… Questo mi ha aiutato molto. Non mi sono mai domandato se ce la potevo fare o meno. Sono stato avvolto, come dire?, da un velo che mi spingeva a guardare avanti senza chiedermi se potevo riacquistare l’uso delle gambe, delle braccia: tenga conto che quando mi sono svegliato solo il cervello funzionava. Mia moglie mi diceva: stai tranquillo che ce la fai, e io mi sono imposto di crederci forse anche per non deludere lei e le figlie».

Quanto conta la famiglia in un’esperienza del genere?

«Assai. È decisiva. Se ti viene la volontà di non deludere le persone care tu sei più forte. Il miracolo è molteplice».

A questo punto parlare di Regione non è semplice, tentiamo. Assessore regionale, la cultura come grande risorsa della Calabria. Ma è davvero così?

«Io ci credo. È un impegno che lega cultura, istruzione e innovazione. Le questioni sono intimamente connesse. Noi dobbiamo puntare sui giovani. In una terra ridotta come la Calabria possiamo pensare che con un colpo di bacchetta magica cambiamo le cose? Per la rinascita di questa terra si deve partire dalla cultura, dall’istruzione e dall’investimento in innovazione? Perché in questo modo noi prepariamo una società civile diversa».

Perché è così importante l’innovazione?

«La cultura è decisiva però non si vive di cultura, lo stomaco ha le sue esigenze. Allora l’innovazione aiuta a mettere in piedi un meccanismo di sviluppo che dà delle prospettive anche ai giovani che devono restare in questa terra. Quindi, occorre un impegno articolato. Sul piano culturale stiamo preparando una serie di interventi nei musei (tra l’altro entro fine anno parte il progetto con relativo finanziamento per una collocazione più adeguata ai Bronzi di Riace), dei teatri (non solo il festival della Magna Grecia), dell’arte (ci sarà il grande evento di Visioni Simultanee). E analogo impegno stiamo profondendo nell’istruzione e nell’innovazione».

Prima sindaco, ora assessore regionale, in mezzo c’è anche un’esperienza di deputato e di sottosegretario al Lavoro. Per quale delle tre cose le piace essere apprezzato di più?

«L’esperienza romana tutto sommato è stata breve, sette anni di deputato. Ho fatto il sottosegretario al Lavoro, erano i primi anni di Tangentopoli, la crisi aveva fatto diventare il ministero uno sportello di pronto soccorso, fu una fase tormentata. Ma per rispondere alla domanda, quello che faccio oggi alla Regione mi piace, è intrigante. Naturalmente l’esperienza di sindaco è indimenticabile e ritengo che la gente mi ricordi per quella».

Calciatore. Era un buon centravanti?

«No, ero rozzissimo. Ogni tanto una partita con gli amici. Il mio punto di forza era lo slancio fisico, la potenza, non ero un fine calciatore».

Nuotatore?

«Sì, mi è sempre piaciuto molto».

Ama cucinare?

«Sì, anche se ora ho poco tempo. Soprattutto per i primi gli amici mi riconoscevano qualche qualità. Poco uso di panna perché nasconde le negatività e i sapori».

Ha sfiorato all’inizio un tema delicato: il rapporto con suo padre. Come ha vissuto il fatto di essere considerato un figlio d’arte?

«In grande serenità finché non sono sceso in campo. La politica era un hobby, ero sereno con me stesso perché avevo la mia professione e un dovere di aiuto verso mio padre. Una volta in campo questa serenità si è affievolita perché essere figlio d’arte è una cosa difficilissima. Mi sono dovuto impostare dall’inizio con una grande autonomia intellettuale. Ripeto, non volevo candidarmi, ma una volta presa la decisione mi sono imposto di camminare con le mie gambe». 

Suo padre come ha reagito?

«Secondo me, male, perché le personalità politiche che hanno successo sono inevitabilmente delle primedonne, ma non lo dico in senso negativo: essere primedonne diventa un’esigenza al di là della loro volontà. Non so come ha visto questa mia autonomia portata all’eccesso».

Ne avete mai parlato?

«In modo profondo direi di no.  Non ricordo, ma forse in qualche momento ai primi tempi a me sarà uscita qualche battuta del tipo che non ci stavo a essere considerato un pupazzo. Poi c’è il rapporto estremamente difficile con la gente che è sempre portata a fare paragoni. Insomma, lì è venuto fuori il mio carattere perché ricordo che a volte tornavo a casa distrutto moralmente – ci sono stati momenti veramente difficili -, però la mattina uscivo con una forza d’animo decisiva e penso che sono riuscito a presentare me stesso per come sono. Poi, sa, le persone sono diverse, io mi reputo uno abbastanza vigoroso, che non ama stare sul palcoscenico in modo vuoto, non mi è mai piaciuto prendere in giro la gente. Il mio merito: ho sempre detto la verità al cittadino, la gente viene e chiede ma non ho mai preso impegni che non potevo mantenere, se dico sì è sì, se dico no è perché non si può fare». 

Dopo quel terribile pomeriggio alla chiesa di San Carlo Borromeo ha mai più avuto paura?

«No. Dopo come fai a temere qualcosa? Sto tra la gente, poi una cosa di quel genere ti fa valutare le cose in modo diverso. Anche la natura. Ho sempre amato le cose belle, ma dopo quel fatto ho colto delle sfumature che prima mi sfuggivano: i colori, il sole come evolve durante la giornata, il canto degli uccelli, un albero bello e imponente, la perfezione. E apprezzo di più anche le persone, perché distinguo tra il bene e l’indifferenza, tra l’amicizia vera e quella… Mia moglie si è trovata sola e sa lei meglio di me le persone che ci sono state più vicine».

Sua moglie Wally torna spesso in questa conversazione. È la persona più importante? 

«Abbiamo lo stesso carattere, siamo fidanzati da quando avevamo tredici anni, ancora adesso facciamo delle litigate e Rosamaria e Carolina a volte si dispiacciono e ci ridono pure. È un legame troppo forte. Per quello che lei ha fatto provo ammirazione.  È stata sette mesi con me a Firenze in una simbiosi totale. Al di là dell’affetto, io che sono stato sempre un po’ sottile – in questo mi sono visto più manciniano che principiano – distinguo tra il giudizio del marito e il giudizio di uno che si astrae e diventa un terzo. Se divento terzo ho ammirazione per lei. E se divento terzo anche per me capisco che il mio è un piccolo esempio di come non bisogna arrendersi».