Magistrato simbolo. Nel bene e nel male. Per difendere lui e il suo lavoro centomila calabresi hanno firmato una petizione, nel resto d’Italia sono in tanti, soprattutto quelli che si dicono stufi di una certa politica, arrogante e prepotente, a vederlo come l’uomo giusto che esercita il suo mestiere senza farsi condizionare. Altri pensano che abbia stravolto le regole pur di dimostrare qualche sua tesi accusatoria e che faccia di tutto per stare al centro dell’attenzione. Di certo Luigi De Magistris deve sentirsi la coscienza a posto perché con tutti i riflettori accesi su di lui, con tanta gente che sta spulciando nella sua vita per cogliere qualche pecca e rinfacciargliela per dire soddisfatti “vedete che anche lui ha qualcosa di cui farsi perdonare”, se non si sentisse sicuro di sé non andrebbe per la sua strada con tanta determinazione. Qui non parla di Poseidone o di Why Not, di Mastella o del procuratore Lombardi, ma di Nietzsche e Marx, di Costituzione e di diritto, del padre e di Napoli, della sua scelta calabrese familiare e personale e accenna solo ad un suo misterioso viaggio in Africa che deve avere significato molto nella sua vita.
Parliamo di suo padre magistrato. Quanto ha influito su di lei?
«Un’influenza determinante non solo per la mia formazione culturale e professionale ma anche nella scelta di fare questo mestiere. Fino al momento dell’iscrizione ho avuto un’incertezza abbastanza forte tra filosofia e giurisprudenza essendo stato sempre molto affascinato dalle facoltà umanistiche, sia dalla filosofia che dalla letteratura. Ho deciso in zona Cesarini, due giorni prima della scadenza. Una volta scelta la facoltà è stata immediata la voglia di fare il magistrato, e non solo per una spinta naturale che avvertivo dentro».
Da dove derivava questa spinta?
«Ho sempre avuto presente l’idea di giustizia anche quando facevo politica studentesca».
Il liceo dove?
«Liceo classico Pansini a Napoli. C’erano i licei più tradizionali e conservatori come il Sannazaro e anche il Vico, il Pansini era più moderno e variegato, un ambiente molto misto, borghesia, proletariato, intellettuali, molto frequentato dalla sinistra extraparlamentare. È stato determinante nella mia formazione culturale».
E quale era l’altra spinta?
«In mio padre vedevo una figura simbolo della magistratura. Purtroppo, come sono entrato in magistratura nel 1994 mi sono subito reso conto che la magistratura era molto diversa».
Perché suo padre com’era?
«Ovviamente è difficile parlare male di un genitore soprattutto quando è morto, però effettivamente per me mio padre poteva avere, come tutte le persone, diversi difetti ma come magistrato era una figura assolutamente esemplare. Era molto riservato, equilibrato, molto sereno, umile, molto molto determinato, e soprattutto avulso da qualsiasi tentativo di contaminazione e di avvicinamento. Applicava la figura di magistrato come vuole la Costituzione: completamente indipendente e lontano dalle raccomandazioni».
Magistrato penale?
«Sia penale che civile, ma alla fine prevalentemente penale, quando è finito era presidente di sezione alla Corte di Appello di Napoli. Ha fatto processi importanti, la condanna a De Lorenzo, il processo Cirillo, il processo al clan Nuvoletta».
Insomma a casa sua si mangiava pane e giustizia.
«Sì. E ci penso in questi giorni quando mi vengono molto in mente le parole di un libro straordinario di Piero Calamandrei, l’Elogio dei giudici scritto da un avvocato. Calamandrei mette in bocca a un magistrato anziano negli anni Trenta-Quaranta questa riflessione: il problema, scrive, non è quello del magistrato corrotto, perché in fin dei conti nella mia carriera di magistrati corrotti ne ho conosciuti pochi, e quei pochi il sistema della magistratura è in grado di espungere, quello che mi preoccupa invece è quella forma di malattia, la cosiddetta agorafobia, il conformismo giudiziario, cioè la paura addirittura del potente, per cui il magistrato riceve raccomandazioni per non scontentare e che addirittura per non scontentare le previene facendo scelte che possono creare meno problemi a se stesso e alle persone che deve giudicare. È di un’attualità straordinaria, perché il magistrato deve sentire nel sangue, nel cuore e nella mente l’articolo tre della Costituzione, cioè il dover avere lo stesso metro di giudizio per tutti».
Invece?
«Sta prevalendo un magistrato un po’ burocrate, preoccupato delle scelte che fa».
Suo padre e la politica?
«Era un uomo laico. Ha avuto le sue idee ma era molto riservato. La sua era un’impostazione moderata ma non era vicino ad alcun partito politico».
In casa parlava mai dei casi che affrontava?
«Poco, molto poco. Con me ha iniziato a parlare quando ho consolidato gli studi universitari e ho iniziato a preparare il concorso in magistratura. Ed allora si è creato un rapporto molto stretto, che non avevo prima. Infatti, era l’unica persona – ci tengo a sottolineare, l’unica – di cui mi fidavo anche nell’esternargli io le mie preoccupazioni di lavoro. Venuto meno lui, io non ho trovato nessuno che potesse sostituirlo».
Lei dove ha iniziato?
«A Catanzaro. Ho fatto il tirocinio a Napoli presso gli uffici giudiziari, poi alla fine del 1995 sono venuto a Catanzaro in Procura. Poi sono andato a Napoli, quattro anni in quella procura, infine sono tornato qua subito dopo la fine di mio padre. A Napoli ho fatto un’esperienza molto buona, indagini importanti, sono stato lì nel pieno del caso Cordova. Per me è stato un sacrificio lasciarla ma ho fatto una scelta di amore nei confronti di mia moglie calabrese di cui avevo avvertito la voglia di tornare nella sua terra. Anche per me è stato un sacrificio lasciare la mia terra».
Alla fine ha vinto sua moglie?
«In realtà io le avevo fatto una promessa da marinaio dicendole che andando a Napoli avrei lavorato di meno e le avrei consentito di integrarsi con la città. Ma i miei ritmi di lavoro erano gli stessi. E lei mi disse: se devi fare questa vita, tanto vale farla in Calabria. Mio padre mi disse: vattene da un’altra parte, vai a fare un’esperienza al Nord. Poi quando è finito, un amico nostro carissimo di famiglia mi ha rivelato qual era la sua preoccupazione: conoscendomi era ben consapevole del fatto che lavorando in Calabria in modo stabile mi sarei trovato prima o poi in una situazione di estremo pericolo e difficoltà. Aveva previsto quello che sarebbe accaduto».
Napoli le manca?
«Molto. Mi mancano soprattutto la cultura, l’iniziativa e il respiro culturale, il teatro, l’Istituto di Studi Filosofici, i luoghi di incontro, anche la vivacità stessa all’interno della magistratura, il centro storico, le chiese. Ma riesco a recuperare quando ci vado quelle poche volte da turista, e forse è anche più bello vederla così che viverci perché è una città molto complicata e va anche peggiorando ultimamente».
Qui la vita è sicuramente più tranquilla.
«Se parliamo dal punto di vista dei bambini è una realtà sicuramente ottimale. Poi Catanzaro ha una posizione geografica straordinaria, vicina allo Jonio, al Tirreno, alla Sila, alle Serre. Culturalmente è un po’ avara di iniziative. Ma è una città e una regione che ultimamente mi sta sorprendendo anche in positivo. Evidentemente in questi anni si è formata una coscienza civile sul tema dei diritti. E questo è stato un ulteriore stimolo a restare. Se ci fosse stata l’indifferenza, di fronte ai fatti gravissimi che sono accaduti la tentazione di andar via poteva esserci».
Ma lei è uno che non molla?
«Mai. Ma nella vita bisogna sempre mettere in conto di girare».
Lei ce l’ha questa mania di girare. Ho saputo di un suo lungo viaggio in Africa da giovane con un prete…
«Sì, però non ne voglio parlare. Diciamo che a me piace molto il nomadismo…».
Quanti anni aveva?
«Intorno ai vent’anni. Il primo viaggio l’ho fatto a 14 anni. Ho viaggiato molto in campeggio, canadesi, molto in libertà, e anche da magistrato giro».
Dell’Africa non vuol dire altro? Mi incuriosisce. Nomadismo…
«Anche il magistrato che fa bene il suo lavoro è opportuno che cambi aria. Io sto qui già da cinque anni. Se avessi percepito un’assoluta indifferenza, avrei potuto pensare di lasciare. Invece sono stato stimolato non a non mollare perché io non mollo mai, ma a restare per un periodo più lungo di quello che mi ero prefissato. È altrettanto necessario che il magistrato non viva in una campana di vetro, lontano dalle dinamiche sociali, prescindendo dalla globalizzazione, dall’emigrazione, dal diritto del lavoro».
Quando vede i disperati che arrivano dall’Africa che prova?
«Forse quel viaggio mi ha segnato molto. Sono molto sensibile, l’approccio repressivo è assolutamente errato. I reati vanno repressi ma non si può affrontare il problema immigrazione con la legge o con un pacchetto sicurezza, sono sconcertato dalla politica della tolleranza zero del governo di centrosinistra. Temo che i poteri forti abbiano la linea di utilizzare il diritto per alleviare le ansie di sicurezza collettiva. Un diritto forte nei confronti solo dei più deboli, e poi una spada di latta quando si tratta di andare a toccare il vero sistema criminale, quello dei circuiti del riciclaggio di denaro sporco o i rapporti tra mafia e politica, mafia e economia, mafia e imprenditoria, il bilancio pubblico nazionale alimentato dalla criminalità organizzata, la gestione illecita dei finanziamenti pubblici che influenza il sistema democratico. Colpisce il fatto che si voglia anche vietare a un magistrato di esercitare il diritto di parola. Perché un magistrato non può produrre anche una riflessione pubblica su questi problemi? Penso sia un diritto-dovere».
Si sente molto in queste cose che dice la sua propensione per la filosofia che lasciò per la giurisprudenza. I filosofi che ha amato di più?
«Nietzsche e Marx. Sembrerà strano, ma alla fine completano molto anche il percorso di un magistrato. Nietzsche mette al centro la persona. Anche nel diritto penale l’opzione per la persona è l’aspetto fondamentale: il rispetto per i diritti, la persona come individuo, come indagato, come persona offesa, come imputato. Ricordo le bellissime parole di uno dei più grandi giuristi contemporanei, Luigi Ferraioli, quando dice che un magistrato deve sempre pensare che la persona che si troverà davanti anche per un problema banale non si dimenticherà mai il giorno in cui si è trovato di fronte a lui, come lo ha trattato, se gli ha portato rispetto, se ha leso la sua dignità, se è stato equilibrato, se è stato giusto. Nietzsche mi ha sempre affascinato per questa visione profonda dell’uomo. E poi è straordinario, al punto che ancora oggi si fa fatica a capirlo, a stabilire se è di sinistra o se di destra».
E Marx?
«Ha colto l’essenza che governa lo stato delle cose, cioè l’economia. E poi la concezione marxista è importante perché ruota attorno alla concezione del diritto. A volte a torto si è pensato che Marx mettesse in secondo piano l’aspetto del diritto in quanto sovrastruttura, invece basta leggere alcuni autori marxisti per ritrovare il concetto della funzione rivoluzionaria del diritto».
Che lei sposa?
«Vorrei spiegarmi bene altrimenti potrebbe sembrare strana un’affermazione del genere da parte di un magistrato. Io sono convinto che il diritto abbia una funzione rivoluzionaria, tant’è che negli anni Settanta si è parlato di funzione promozionale e alternativa del diritto. Secondo me, il diritto consente in modo efficace di applicare anche la seconda parte dell’articolo tre della Costituzione, laddove si dice che la repubblica deve portare al superamento delle disuguaglianze sociali e economiche. Attraverso il diritto questo obiettivo è sicuramente perseguibile. Il diritto, se correttamente applicato, è in grado di affievolire o eliminare le disuguaglianze, di fare giustizia, di stare dalla parte dei più deboli».
Per capire, parliamo di corretta applicazione o di qualità del diritto?
«Tutt’e due. Una è la funzione legislativa, cioè il diritto come norma, poi abbiamo l’applicazione e la funzione interpretativa che in alcuni casi è anche uso creativo del diritto».
A che punto siamo con questa interpretazione evolutiva della Costituzione?
«Non molto avanti. Non siamo pronti alla globalizzazione del diritto. Abbiamo una giustizia che ancora non funziona».
Lei ormai è un simbolo. Come si sente?
«Non mi sento un simbolo. Penso veramente di essere un magistrato normale. Quando sono entrato in magistratura ho pensato che si debba fare il magistrato con determinazione, umiltà, passione, coraggio, applicando i principi costituzionali, lavorando con abnegazione, non facendo le scelte che potevano essere più opportune e che davano meno fastidio e non fare deliberatamente quelle che davano fastidio. Per questo non mi sento un simbolo. Certo, prendo atto che soprattutto negli ultimi tempi – ma il percorso è maturato durante gli anni perché evidentemente si è seminato – si veda in me un punto di riferimento, una persona che testimonia di sé coniugando le parole e i fatti. Non è un fenomeno becero, giustizialista, forcaiolo, ma l’espressione di una grande maturità democratica. Qui in Calabria non si dice che bisogna mettere il cappio al politico, chiuderlo in carcere e buttare la chiave, ma si vuole sapere se ci sono reati, se certe inchieste vanno a compimento. Tutto questo avviene con molta serenità, mentre si tenta di bloccare le inchieste e di attaccare i giudici e la stampa (vedi il disegno di legge Mastella sulle intercettazioni). Preoccupa che si abbia paura di un’inchiesta giudiziaria e di un magistrato come un altro, che non è legato ad alcun carrozzone, che ha quarant’anni, che lavora in modo corretto e che è anche un garantista».
Si riconosce qualche errore?
«Errori si fanno, è normale. Però non ritengo di potermi rimproverare errori particolari tali da doverli raccontare, se ci sono sono assolutamente fisiologici per chi esercita questo mestiere. Nonostante io sia stato sottoposto a particolari attenzioni ritengo tutto sommato di non aver commesso errori particolari. C’è stata una recente sovraesposizione esterna che non avrei assolutamente auspicato».
Suo padre non l’avrebbe gradita?
«Anche io ero così fino a qualche tempo fa. Ad un certo punto sono stato costretto a dover rendere pubblica una situazione molto allarmante, e questo mi ha allontanato dal modello di magistrato schivo e riservato che ero sempre stato».
Difficile tornare indietro?
«Certamente. Occorre trovare un punto di equilibrio. Un magistrato non deve mai parlare pubblicamente delle proprie inchieste, l’ho sempre fatto. Ho iniziato a consolidare la presenza all’esterno sui temi della giustizia in generale. E questo penso che col tempo io debba confermare. Auspico di dover fare un passo indietro e di non dover continuare a sottolineare la gravissima situazione in cui siamo».
Con Beppe Grillo a Strasburgo non si è certo defilato.
«Parlerei di semplificazione giornalistica. La cosa è andata diversamente. Sono stato invitato a fare una relazione tecnica da magistrato sui finanziamenti pubblici al parlamento europeo, lo stesso invito era stato fatto a un magistrato dell’Olaf (ufficio antifrode). Poi mi è stato comunicato che era stato invitato anche un noto giornalista italiano di prim’ordine come Marco Travaglio e un noto comico anch’egli di prim’ordine come Beppe Grillo che si erano espressi sulla stessa materia. Non penso che ci sia nulla di male. Poi se si vuole dire che il pm sta insieme al comico si può fare».
Si è anche detto che lei pensa di entrare in politica. C’è qualcosa di vero?
«Purtroppo si ragiona ancora con degli schemi superati. Ognuno fa il suo lavoro. Io voglio continuare a fare il magistrato, ma non mi sottraggo a una riflessione pubblica».
Che idea si è fatta della Calabria?
«La richiesta di tutti è che la politica effettivamente governi questa regione. Sono un po’ preoccupato anche dal segnale che viene dal vescovo Bregantini. Non vorrei che ci fosse un freno alla presa di coscienza del popolo calabrese e alla volontà di cambiamento, che si vogliano colpire persone non solo per aver messo in gioco nel loro ambito loro professionalità ma per la loro pericolosità politica perché con la loro testimonianza hanno fatto crescere la maturità della popolazione. Non vorrei che in questa fase si stia cercando di colpire degli obiettivi sensibili. Sono stato chiaro?».
Molto chiaro. Scrive Vito Teti che un calabrese positivo appena varca il Pollino viene chiamato con il suo nome e cognome, se è un delinquente o un imbroglione perde nome e cognome e diventa solo e sempre un calabrese. Una percezione pessima. È d’accordo?
«Ma qualcosa sta anche cambiando. Anche nelle ultime vicende alla fine è passato un messaggio positivo. Pensi alla ribellione civile».
Per restare a lei e a Bregantini, lei è napoletano e Bregantini è trentino.
«Certo, vi è una difficoltà dei calabresi a rendersi conto di potersi emancipare da soli. Vi è la tendenza, anche storicamente, di dover aspettare qualcuno che venga da fuori. Ci sono anche segnali in controtendenza. La risposta c’è stata e non è secondaria. Io reputo eccezionale il fatto che centomila calabresi abbiano firmato la petizione per un magistrato mettendo nome e cognome, la data di nascita e il numero di telefono. Si era sempre parlato di calabresi nascosti dietro l’anonimato o l’omertà, ma quando mai! Un calabrese ha molto più coraggio di un napoletano. È un fatto straordinario che si incominci a intravedere una collettivizzazione del dissenso. La società calabrese è fatta prevalentemente da gente per bene, ma c’è una parte che vive molto bene mentre la maggioranza vive male. Questa seconda parte sta prendendo consapevolezza dei propri diritti e potrebbe dare una spallata definitiva a questo sistema. Sono ottimista. La situazione è migliore di qualche anno fa, ma potremmo aspettarci anche qualche momento molto brutto».
A che si riferisce?
«A un rischio di strategia della tensione, anche di qualche episodio violento. Un rischio concreto che può aumentare qualora questo cambiamento della società si concretizzi».
Dai suoi colleghi che ha avuto: solidarietà? indifferenza?
«Sul piano personale diverse solidarietà, però sono anche un po’ deluso complessivamente dalla reazione. Ho la sensazione che non si voglia prendere coscienza della gravità del problema. La magistratura è spaccata. Quella che vuole lavorare e che è più sensibile, può essere anche silenziosa, e quindi dà la solidarietà. Invece è più rumorosa e si muove con più insidia la magistratura che è più vicina alle stanze del potere, più organica a questo sistema che ha oppresso e sta opprimendo questo territorio».
Ora che le hanno avocato le inchieste più importanti che ha da fare?
«Ho tantissimo da lavorare. Me ne hanno avocate solamente due».
Solamente?
«Solamente sul piano numerico, ma ne ho tante importanti. Solo che mentre qualche tempo fa per difendermi avevo bisogno di due giorni alla settimana, ora me ne servono cinque. Alla fine ne usciremo perché da magistrato non posso non pensare che la verità e la giustizia verranno fuori».
Un magistrato che deve garantire giustizia e che chiede giustizia.
«E che è certo che ci sarà giustizia. E soprattutto sarò molto contento del fatto che tutti capiranno che cosa è accaduto in questi mesi. Sarà la più grande soddisfazione perché dimostrerà che vale la pena non farsi prendere dallo sconforto».
I suoi predecessori familiari nella magistratura non hanno avuto i suoi problemi. Anche suo nonno era un magistrato.
«Bisnonno, nonno e mio padre».
I suoi due figli?
«Decideranno loro, ora hanno sette e tre anni. Mi auguro che possano fare quello che desiderano».
Lei ama il suo mestiere?
«Molto. Anche adesso».
Quando ha di fronte una persona che deve difendersi da un’accusa come si comporta?
«Sono molto attento. Penso che il profilo umano sia fondamentale in ogni lavoro ma che per un magistrato sia centrale. Non si può mai dimenticare che dietro un fascicolo c’è un essere umano. Curo molto questo aspetto anche quando faccio gli interrogatori».
Ha mai la sensazione di aver ecceduto?
«Il dubbio, la preoccupazione di aver sbagliato o di aver urtato la sensibilità di qualcuno viene, importante è che venga prima di fare un errore. Una volta fatto, lo sbaglio deve servire da esperienza».
Quando in un’ordinanza mette il nome di qualcuno che non deve rispondere di nulla ma che per il solo fatto di finire in quell’atto giudiziario, specie quando diventa pubblico, rischia di finire alla gogna, non sente una particolare responsabilità?
«Che mi sia venuto il dubbio in alcuni casi o di aver commesso uno sbaglio è sicuro. Però non ci sono episodi che mi rimprovero particolarmente».
Lettura, musica. Quanto tempo vi dedica?
«Sempre meno. Sono molto appassionato di musica, soprattutto straniera, i Genesis, i Pink Floyd, ma anche i cantautori italiani, i gruppi soprattutto campani di musica etnica. Libri, un po’ di tutto, ultimamente cerco di leggere cose meno pesanti».
Viaggi?
«Sempre di meno. A Strasburgo…».
In Africa è più tornato?
«No».
Di quel viaggio non vuole proprio parlare?
«No. Di viaggi ne ho fatti parecchi. Ora vorrei portare in giro i miei figli».
Resta il mistero di quel viaggio con lo zio prete.
«No, non la mettiamo così. È più complicato, ma non è un giallo, è solo un fatto di riservatezza».
Allora mi dica una cosa dell’Africa.
«È un posto straordinario, perché là si avverte la ricchezza della persona fino al midollo. Là la persona è al centro di tutto, il suo dramma, le storie, l’intreccio di cultura in alcune zone del Nord Africa. Sono veramente affascinato. Come mi affascina il Medio Oriente, tutta la zona della Palestina, Giordania, Siria. Sono anche un profondo lettore del Vangelo, della storia di Cristo. Sono colpito dalla storia, dalla religione, ma soprattutto dall’esito attuale che sta avendo quella terra».
Vangelo, Marx…
«Non c’è contraddizione. L’unica potrebbe essere che Marx era ateo».
Lei è credente?
«Sì. Penso che si colga molto nella storia del Vangelo e in molti filosofi una forte carica di giustizia, che ho sempre messo al centro della mia vita».
Al di là dei tecnicismi la giustizia nella sua semplicità ed essenzialità che cos’è?
«Saper dare una risposta semplice anche a un problema complesso, saper dare una risposta a una domanda di verità».
Se le impedissero di fare il magistrato che cosa farebbe?
«Non so se lo possono fare. Se lo fanno, se mi allontanano dall’ordine giudiziario come si faceva con i sacerdoti dissenzienti? Penso che è un’ipotesi di scuola. Se accadrà mi inventerò un mestiere».
.