di MATTEO COSENZA*

Piedi, treno, tram, nave, bus, piedi, all’andata; piedi, bus, nave, tram, treno, piedi al ritorno. Due mezze giornate, in tutto una giornata di viaggio. Ma chi se ne importava! Le estati scorrevano come un sogno tra acqua del pozzo e lume a petrolio, tra asini e porci, conigli e cani (Campaniello che non invecchiava mai). Appena arrivato, via scarpe e abiti (nulla di importante, vestimenti modesti di figlio di operaio), piedi scalzi, neanche gli zoccoli, una mutanda, un pantaloncino corto blu con le tasche plissettate con cotone bianco e una canottiera. Le scarpe e i vestiti li rivedevi dopo tre mesi per il ritorno nella civiltà. Eppure non si stava tanto lontano, solo al di là del mare, quello del golfo di Napoli, poco più di un’ora di traghetto, ma a quel tempo Serrara era più isola dell’isola, il massimo delle ristrettezze, il paradiso per me.

Un viaggio che, si è capito, era complicato, molto complicato. Appena finita la scuola, mio padre e mia madre si caricavano di valigie e di qualche regalo e, tenendo per mano, non so quale, me e mia sorella più piccola, ci trascinavano dalla collina di Quisisana alla stazione di Castellammare. In treno fino a Napoli e qui trasbordo sul tram numero 1 che da corso Garibaldi ci portava al Molo Beverello. La nave era una goduria per un bambino che le vedeva mentre scendevano in mare e che ne era orgoglioso perché il padre le costruiva. A Ischia raggiungevamo Serrara con una delle due circolari che circumnavigavano l’isola. I nostri genitori, stoici più che tenaci, imboccando sul lato della chiesa un viottolo, allora più o meno una mulattiera, precipitavano, e noi e i bagagli con loro, per un buon chilometro fino alla casa della zia che ci aspettava. Papà si rimetteva, più leggero, in viaggio per riprendere il lavoro al cantiere, si ripresentava per i quindici giorni di ferie a cavallo di Ferragosto, ritornava di nuovo a Castellammare e infine veniva a riprenderci per l’apertura della scuola.

Il ritorno era ancora più duro. Perché quando si partiva dalla casa della zia, lungo quella mulattiera ora in ripida salita c’erano le case di altri parenti che ci riempivano di affettuose e ingombranti attenzioni. E noi salivamo sul bus con buste piene di bottiglie di vino e soprattutto con molte scatole delle scarpe, legate con lo spago e forate ai lati per far respirare i conigli che vi stavano dentro. Un anno sul tram dal Molo Beverello alla Circumvesuviana, per il caldo e per lo sballottolamento, un paio di bottiglie di vino spumante rosso scoppiarono. Il resto potete immaginarlo.

Valeva la pena fare questi sacrifici? Avreste dovuto chiederlo soprattutto ai miei genitori, per noi piccoli era non un viaggio, ma il viaggio, il trasferimento da un mondo ad uno diverso, una fuga, peraltro molto lunga, in un’altra vita. Perché l’isola era un altro mondo, e Serrara era un altro mondo rispetto all’isola.

Tanto per cominciare io non dormivo in un letto. La casa era divisa in due pezzi, da un lato due stanze comunicanti con i tetti bombati, che la sera diventavano un dormitorio, e dall’altro una cucina angusta dalla quale si passava in un bagno (un lavandino e una tazza) o per una scala scavata nel tufo si scendeva alla cantina dove c’era anche il forno per il pane. Tra i due ambienti un pergolato con un grande tavolaccio in un angolo che da un lato affacciava sul mare e dal quale si intravedeva la piramide di Sant’Angelo. Per dormire ci si arrangiava perché mia zia, prematuramente vedova, cresceva una famiglia numerosa. Miseria tanta, ma lei, un vulcano, teneva l’allegria nel sangue, pensava a tutti e a me riservava ogni sera un tenero scappellotto (quasi un “bacio della mamma” prima di dormire).

Dall’altra parte di un cortile adiacente, dove c’era il pozzo, un fabbricato di forma rettangolare svettava come una piccola torre. Era una colombaia. La notte mio cugino Paolo dormiva sul “piano di sopra” attento a non far entrare i colombi e io in quello di sotto, i nostri giacigli erano fatti con le foglie delle pannocchie di granone. La sveglia ce la dava il gallo. E noi, mezzo assonnati, raggiungevamo gli altri parenti e un paio di asini, per andare nei campi, che poi erano terrazzamenti che spesso davano le vertigini perché sotto in certi tratti a precipizio c’era il mare. Naturalmente lavoravano loro, io ero troppo piccolo. Per me era un divertimento, compreso il momento dei bisogni sotto qualche vigna e per carta igienica una foglia di fico. Ma della vite e del fico apprezzavo soprattutto i frutti, un’uva cornicella croccante, la mia madeleine.

Con la calura, verso le dieci tornavamo da zia Eleonora che, sotto un rigoglioso e profumato gelsomino (il mio “biancospino”) ci aspettava con una scafarea di insalata di pomodori, patate lesse, cipolle, peperoncini e sedano o basilico (la carne compariva solo per il pranzo della domenica). E soprattutto con il pane che lei faceva una volta la settimana; io impazzivo per il “gulurcio”, così chiamavano il pezzetto terminale della pagnotta che inzuppavo nell’insalata e che mi lasciava attaccato sui denti il nero della scorza bruciacchiata. Ma che te ne fai di una coppa di caviale con champagne!

La giornata trascorreva veloce tra una scorribanda e l’altra. Stanchi, la sera aspettavamo in fila il nostro turno davanti alla cucina, dove sul focolare l’acqua bolliva e veniva travasata in una tinozza nella quale ci lavavamo uno alla volta.

Finì quel tempo sospeso, una lunga pausa tra un inizio e un fine anno scolastico. Tornavo lassù sporadicamente. Soprattutto per rivedere i luoghi e ritrovare l’emozione delle intermittenze del cuore, il nostro bagaglio di memoria. Se ci penso, avverto un friccico nella parte bassa del corpo, come quando a noi bambini ci facevano entrare nell’immensa tinozza per pigiare l’uva pronta a divenire un bianco nettare divino e dopo non riuscivamo a camminare perché le gambe zuccherose eroticamente si accoppiavano.

Ma poi risalivo sul “trono” come i miei, e non so perché, chiamavano quel promontorio nel quale il maiale regnava nel suo porcile avido del cibo che gli portavamo per ingrassarlo al punto giusto per potergli fare la “festa” a fine anno. Soprattutto andavo sul crinale, uno strapiombo e, come in un film, abbracciavo con lo sguardo la Punta della Campanella e la “testa di coccodrillo” di Capri e al di qua del mare Punta della Signora, i Maronti e la spiaggia che si allungava sulla destra verso Sant’Angelo. Me ne stavo seduto, quasi come su una sedia, con le gambe penzolanti nel vuoto, a sentire il silenzio, solo un’eco del mare, e la frescura di un alito di vento leggero come una carezza.

Per andare al mare scartavo la mulattiera, un avventuroso canyon scavato nei secoli dall’acqua, che portava direttamente a Sant’Angelo, io preferivo quello, non meno accidentato, che calava verso la Cavascura. Lungo il tortuoso cammino potevi fare anche qualche brutto incontro, come quella volta che io e una mia cuginetta ci trovammo davanti a un serpente: passava lui o noi? Gambe in spalle e velocissima risalita verso casa senza mai voltarsi indietro. Che coraggio! Ma poi riprovavi. Il rigagnolo di acqua tiepida che correva verso il mare era il segno che eri arrivato alle antichissime terme, ma non ti fermavi perché poco più avanti c’era lui, il mio idolo, il mito, l’icona dell’isola: il bisnonno Pietropaolo. Noto come “Stalino” ad ogni latitudine e non solo nazionale, le cartoline postali con la sua immagine si vendevano in tutta l’isola. Un gigante con un volto scultoreo e due baffi che spiegavano il soprannome.

La sua casa era un po’ più su ma lui viveva in quel buco ricavato dalla pietra, che oggi è una taverna con il suo nome e soprannome. Anche allora era un ritrovo per buongustai. Soprattutto per merito della sua seconda moglie (sposata all’età di 78 anni, si favoleggiava che lui non avesse avuto figli da questo matrimonio non per propria responsabilità): sapevi che cosa stava cucinando molto prima di arrivare da lei, tanto netti erano i profumi che le sue pietanze diffondevano in ogni direzione. Venivano da ogni luogo, dall’Italia e dall’estero, artisti e personalità dei vari campi, per salutare il bisnonno che io chiamavo nonno. Credo anche, ed essendo piccolo mi fido del racconto di mia madre, la prima del suo esercito di nipoti, di aver incontrato lì Renato Guttuso, che gli fece un ritratto per anni appeso al muro e che ora si trova nella casa di un professionista di Barano.

L’isola penso di conoscerla bene e l’ho anche abitata in molti dei suoi comuni: strade, anfratti, spiagge, tutti i suoi immensi e sbalorditivi parchi termali. Sempre bella, unica, da vedere, ricca di incontri. Lasciata la taverna e raggiunto l’arenile, una piacevole passeggiata sulla sabbia fino alle Fumarole, l’acqua di mare che gorgoglia. Un giorno restai al sole, quasi prendendomi una scottatura, per “studiare” il signore che se ne stava più in là sornionamente steso su una sdraio. Lo osservavo e sentivo risuonare in testa la musica che accompagnava la sua panciuta sagoma nera mentre entrava nel profilo bianco appena definito da un filo scuro che lo avrebbe perfettamente contenuto. Alfred Hitchcock. Erano i tempi d’oro di Lacco Ameno, quando Angelo Rizzoli fece diventare Ischia una capitale del cinema. E anni dopo fu la volta del ministro del tesoro dell’epoca, Emilio Colombo, che, solitario e senza alcun segno di vigilanza, godeva in quella spiaggia della privacy che l’isola ha sempre riservato a tutti, famosi o meno che fossero.

Un paio di anni fa feci una passeggiata a Sant’Angelo, rifugio da sempre di Angela Merkel. Una volta sul lato del porto guardai in alto per cercare di individuare i luoghi della memoria. Infine mi decisi a inerpicarmi verso Serrara e da qui a scendere con l’auto per il viottolo, sempre ripido ma più attrezzato, fino alla casa delle mie estati felici. A piedi andai verso il “trono” seguendo di nuovo quel percorso che conoscevo come le tasche del mio pantaloncino corto. Mi bloccai davanti a un cancello che ostruiva ingresso e vista e dietro il quale non vedevo ma intuivo una costruzione verosimilmente abusiva e chissà se condonata. Così va il mondo anche se ce ne vuole per privatizzarne o distruggerne la bellezza.

Via questi cattivi pensieri, mi consolo con un sapore gelosamente custodito. Un piatto, il piatto dell’isola, il coniglio per il quale c’è anche una contesa con l’isola di Arturo, quella Procida dal diverso e inimitabile fascino. Certo non trovi facilmente il coniglio che mia zia faceva crescere nelle fosse scavate nel tufo della scala che portava alla cantina e con l’erba raccolta in giro. Ognuno aveva il suo segreto. Io l’ho gustato in quasi tutte le case della mia sterminata famiglia e ho stabilito quale fosse, secondo me, il migliore e da quella cugina non solo mi sono fatto dare la ricetta ma ho anche preteso di assisterla mentre lo cucinava. Da allora se trovo un coniglio non di allevamento, lo preparo in quel modo. E l’intermittenza fa del mio cuore un’orchestra.

*MATTEO COSENZA  (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)

 

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/ischia-sogno-mio-di-bimbo-con-stalino-e-il-profilo-di-hitchcock

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